Quando si affronta l’ascolto delle tre Sonate per violino e pianoforte di Edvard Grieg non bisogna mia dimenticare l’artefice che si cela idealmente dietro a questi capolavori cameristici, ossia il grande violinista norvegese Ole Bull, soprannominato il “Paganini del Nord”, tanto per comprendere meglio la caratura e l’ammirazione che suscitò nei contemporanei, il quale fu anche cognato della madre di Grieg, Gesine Hagerup. Inoltre, l’avvicinamento di Grieg al violino passò anche attraverso l’Hardingfele, uno strumento caro alla musica popolare norvegese, simile a un violino, ma dotato di otto o nove corde.

Il grande violinista norvegese Ole Bull, il “Paganini del Nord”, ineludibile punto di riferimento per la musica violinistica dei compositori scandinavi del secondo Ottocento.

Se le prime due Sonate rientrano nel periodo degli inizi compositivi di Grieg, la prima risale al 1865 e la seconda al 1867, ossia quando il musicista scandinavo aveva rispettivamente ventidue e ventiquattro anni, la terza è opera della maturità, iniziata nel 1882 e completata l’anno successivo. Grieg, sempre molto critico nei confronti della sua ragguardevole produzione compositiva, fu invece assai accomodante e bendisposto nei confronti di queste tre pagine, tanto è vero che ebbe testualmente a dire «Esse sono tra i miei migliori lavori e rappresentano diversi gradi del mio percorso artistico: la prima, ingenua e piena di idee; la seconda, nazionalistica; e la terza rivolta a più vasti orizzonti». Queste parole rappresentano e sintetizzano perfettamente il cuore pulsante che contraddistingue le tre Sonate, le quali sono la cartina al tornasole di quel passaggio, progressivo e meditato da parte di Grieg, dal romanticismo tedesco a una forma di autoaffermazione fatta in nome di una musica più vicina e aderente alle istanze nazionali scandinave.

Edvard Grieg, in una foto scattata nella sua maturità, seduto davanti al pianoforte.

Fin dalla loro apparizione nelle sale concertistiche, queste Sonate sono entrate nel repertorio musicale dei maggiori interpreti violinistici e pianistici e, parallelamente, la discografia che le riguarda è ben nutrita e annovera registrazioni di assoluto valore e importanza. Ora, si va aggiungere una nuova incisione, pubblicata dalla Brilliant Classics, che vede una delle migliori violiniste italiane delle ultime generazioni, la sarda Germana Porcu Marano, accompagnata al pianoforte da uno dei decani e numi tutelari della musica attuale, il napoletano Bruno Canino.

La prima Sonata in fa maggiore op. 8 fu composta da Grieg mentre si trovava a Copenhagen e nel novembre di quello stesso anno fu eseguita al Gewandhaus di Lipsia dal violinista svedese Anders Petterson e dallo stesso Grieg al pianoforte, mentre il mese prima fu presentata in prima assoluta a Christiania, l’odierna Oslo, al Kristiania Norske Teater. Lodata in seguito da Liszt, questa Sonata riecheggia chiaramente le istanze estetiche e compositive schumanniane, sulle quali il compositore norvegese edificò le sue fondamenta creative. Eppure, fin da questa prima Sonata Grieg non rinuncia a presentare una propria peculiarità stilistica, che si concretizza in una più che accennata sperimentazione armonica, oltre all’uso di passaggi modali e a un particolare sfruttamento ritmico che rimanda alle tematiche della musica popolare norvegese e, per l’appunto, all’hardingfele, in cui emerge per originalità il secondo tempo, l’Allegretto quasi Andantino, nel quale si concentra il rimando di stampo popolare e, soprattutto, nel Trio centrale, la derivazione dagli stilemi appartenenti proprio allo strumento della tradizione norvegese.

Un modello di Hardingfele, il tipico violino della tradizione musicale popolare norvegese, da cui Grieg prese spunto soprattutto per la sua prima Sonata per violino e pianoforte.

La Sonata n. 2 in sol maggiore op. 13, composta a Christiania pochi mesi dopo il matrimonio di Grieg con la cugina Nina Hagerup e dedicata al compositore conterraneo Johan Svendsen, fu eseguita per la prima volta nell’autunno di quello stesso anno nella capitale con il violinista Gudbrand Bøhn e ancora con lo stesso compositore al pianoforte. La creazione di questa pagina cameristica coincise con l’acceso interesse di Grieg nei confronti del nazionalismo musicale del suo Paese e con il definirsi in maniera più precisa e articolata della propria impronta compositiva, che prende a distaccarsi dalle matrici tipicamente germaniche, al punto che poi, in sede critica, questa Sonata è stata considerata giustamente la più “norvegese” delle tre. Messe da parte le sperimentazioni armoniche e ritmiche, l’attenzione del compositore scandinavo si concentrò sul materiale folklorico che si va a distribuire sui tre tempi del lavoro, il cui incipit viene fornito da una lenta e dolorosa esposizione in forma rapsodica dal violino. Un folklore che si identifica anche con la presenza benefica e misterica data dalla natura, nella quale l’uomo trova spazio e ragione d’essere, come viene rappresentato nel corso del tempo finale, un Allegro animato, il cui trascinante ritmo ternario rimanda figurativamente allo Springer, una tipica danza norvegese.

Come si è già accennato, tra la seconda e la terza Sonata in do minore op. 45 passano esattamente vent’anni. E si sentono, visto che l’ultima composizione che Grieg dedicò a questo genere cameristico appartiene all’empireo dei capolavori di tale repertorio; il compositore norvegese ne iniziò la stesura nell’estate del 1886 a Troldhaugen, nella residenza di campagna dove lui e la famiglia erano soliti trascorrere la bella stagione, per portarla a termine nel gennaio dell’anno successivo. Prima della sua esecuzione inaugurale, avvenuta nel dicembre dello stesso anno al Gewandhaus di Lipsia con il celebre violinista Adolf Brodskij e Grieg al pianoforte, la partitura fu rivista efficacemente dall’autore. Con questa pagina ci troviamo di fronte a un esempio perfetto della piena maturità acquisita da parte di Grieg, il quale, messi da parte gli sperimentalismi della prima Sonata e l’acceso nazionalismo musicale della seconda Sonata, esalta la forma classica imbastendola sulla tonalità per eccellenza beethoveniana, il do minore, per dare vita a una composizione eminentemente drammatica distesa su un tappeto di rappresa malinconia. Diversi i momenti memorabili di questo lavoro, a cominciare dalla tensione timbrica manifestata dal violino nel tema introduttivo del primo tempo, Allegro molto e appassionato, capace di stemperarsi in un secondo tema dal sapore assai più struggente, seguito dal tempo centrale, un Allegretto espressivo alla Romanza, deliziosamente in bilico tra un tema malinconico e dimesso e un improvviso slancio lirico, in cui i due strumenti seguono ed esplorano sentieri diversi (qui Grieg dimostra la piena capacità di plasmare e dominare la materia compositiva), mentre con il tempo finale, l’Allegro animato, la tensione drammatica torna a prevalere, anche se non mancano momenti di incantevole lirismo imbastiti dal violino, con chiari rimandi al primo tempo.

La lettura fatta da Germana Porcu Morano e Bruno Canino ha fondamentalmente un merito, quello di aver messo in risalto le distinte peculiarità e differenze che contraddistinguono le tre Sonate di Grieg; ciò significa chiarezza dell’esposizione e delle arcate generali che formano strutturalmente le composizioni, evidenziando le tensioni e gli sviluppi attraverso un’espressività che non ricerca forzatamente il suono bello, eufonico, ma votato alla sostanza della materia in sé (e questo vale soprattutto per il violino, che l’artista sarda utilizza come mezzo esplorativo, mettendo in primo piano la sfera armonica, rispetto a quella, più facilmente gettonabile, melodica). In tal senso, l’ascolto della terza Sonata è quantomeno indicativo, visto che la materia sonora, nei due tempi opposti, viene offerta con un timbro nudo, viscerale, in grado di scavare per mostrare una classicità espulsa dalle ultime tentazioni stilistiche della scuola tedesca, per affermare al contrario la piena autonomia di un pensiero musicale nordico che vide in Grieg il ponte di collegamento tra la sua nascita e l’espressione ultima rappresentata dall’avventura sibeliusiana (non per nulla, Germana Porcu Morano in precedenza, con Sara Costa, aveva registrato le Sonate per violino di un altro grande scandinavo, Carl Nielsen).

I due protagonisti di questa registrazione, la violinista sarda Germana Porcu Marano e il pianista napoletano Bruno Canino.

La medesima asciuttezza, l’aderenza a quanto enunciato dalla linea dello strumento ad arco, viene manifestata da Bruno Canino, che non si abbandona a sterili voli pindarici, anche quando la partitura glielo permetterebbe, ma rimane sempre ancorato sul pezzo, convinto anch’egli della modernità rappresentata da queste pagine cameristiche. Un suono scolpito, aderente, repellente alla bellezza in sé, ma che si trasforma in una sequela di mattoni sonori che già permettono alle Sonate, e questo si avverte soprattutto nell’ultima, di farle stare maggiormente a proprio agio al prossimo affacciarsi del Novecento.

Complessivamente abbastanza valida la presa del suono effettuata da Raffaele Cacciola, con una dinamica sufficientemente energica e veloce, il che ha permesso di ricostruire i due strumenti, presenti in modo ravvicinato, al centro dello spazio fisico, per ciò che riguarda il palcoscenico sonoro, con il violino leggermente avanzato rispetto al pianoforte. Anche l’equilibrio tonale, pur non raggiungendo livelli di pulizia assoluta, mantiene una distinzione tra i registri dello strumento ad arco e della tastiera del pianoforte. Il dettaglio, tra tutti i parametri, è quello che risulta essere il più efficace, con una densità materica che permette di apprezzare la presenza fisica dei due strumenti e di effettuare un ascolto che non risulta mai stancante.

Andrea Bedetti

Giudizio artistico:

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