Il pianista  tedesco è il protagonista di un doppio SACD pubblicato dall’etichetta inglese Divine Art e frutto di due concerti tenuti il 3 e il 5 aprile dello scorso anno alla Fazioli Concert Hall di Sacile, durante quali ha presentato brani di Bach, Mendelssohn, Schumann e Chopin, mettendo in mostra un timbro raffinato capace di amalgamarsi a una lettura precisa e appassionata

Un doppio SACD dell’etichetta discografica inglese Divine Art pubblicato qualche mese fa permette di conoscere meglio un pianista tedesco, Burkard Schliessmann, tra i migliori e i più interessanti a livello internazionale degli ultimissimi decenni, visto che nel nostro Paese il suo nome gira ancora quasi esclusivamente tra i soli appassionati di musica pianistica. Questi due SACD sono stati registrati dal vivo tra il 3 e il 5 aprile del 2023, quando il pianista di Aschaffenburg ha tenuto due concerti alla Fazioli Concert Hall a Sacile, eseguendo pagine di Bach, Chopin, Mendelssohn e Schumann, quindi mettendo in campo un compendio interpretativo con un preciso filo conduttore, che si può riassumere nel concetto dell’affiorare, tramite il Kantor, e del progressivo concretizzarsi del linguaggio tonale e della sua suprema affermazione pianistica attraverso quella triade di geni romantici, come lo stesso interprete bavarese ha voluto evidenziare nelle note di accompagnamento nel libretto in tre lingue (manca ovviamente l’italiano) ospitato nell’elegante cofanetto.

La Fazioli Concert Hall di Sacile, apprezzata per la sua acustica, dove Burkard Schliessmann ha tenuto i suoi concerti nei primi giorni di aprile 2023.

Il florilegio di brani presentati nel corso di questi concerti a Sacile è oltremodo interessante e decisamente impegnativo: nell’ordine della playlist dei due SACD abbiamo rispettivamente di Bach la Partita n. 2 in do minore, BWV 826, il Concerto Italiano, BWV 971 e la Fantasia cromatica e Fuga in re minore, BWV 903, mentre di Mendelssohn Schliessmann presenta un pezzo poco frequentato, ossia le diciannove Variations sérieuses, Op. 54, che portano alla conclusione del primo disco; nel secondo, invece, abbiamo la Fantasia in do maggiore, Op. 17 di Schumann e il Valzer in do diesis minore, Op. 64 n. 2 di Chopin, con l’aggiunta di due bis, entrambi ancora di Schumann, il dodicesimo brano di Carnaval, Op. 9, intitolato Chopin, e il terzo degli otto Fantasiestücke, Op. 12, ossia Warum? (per una durata complessiva dei due SACD di quasi novantaquattro minuti).

Felix Mendelssohn Bartholdy nel ritratto dipinto nel 1834 da Theodor Hildebrandt.

Che cosa si deve intendere per “partita”? Ebbene, al tempo del Kantor questo termine, che originariamente si usava per una serie di variazioni eseguite sopra un basso, era ormai del tutto analogo a quello di “suite”; quindi, indicava una serie di danze introdotte da un pezzo di carattere improvvisativo che, nelle sei per clavicembalo di Bach, viene di volta in volta chiamato preludio, sinfonia, ouverture, fantasia, praeambulum, toccata. La prima partita risale al 1726 e da quel momento il sommo genio di Eisenach ne compose una ogni anno, per la precisione in occasione della fiera degli editori che si svolgeva annualmente a Lipsia. Così, nel 1731 egli riunì le sei partite scritte e le pubblicò come prima parte del cosiddetto Klavierübung. L’ouverture che apre la seconda partita consta, dopo l’accordo introduttivo, sul quale vi è l’indicazione «grave», di alcune battute di adagio. Seguono una allemanda, una corrente, una sarabanda e un rondeau. Davvero particolare è l’ultimo tempo, definito da Bach capriccio. La scelta di tale titolo è data dal fatto che si tratta di un pezzo svincolato dalle usuali costrizioni formali ed è formato da due parti, ambedue ripetute due volte, con il fantasioso tema della prima che ricompare genialmente rovesciato all’inizio della seconda.

Un altro stupefacente capolavoro è il Concerto italiano, nel quale Bach utilizzò i due manuali del clavicembalo per creare una serie di contrasti, alludendo chiaramente alla tipologia di processo compositivo sviluppato da Antonio Vivaldi, come nel caso del tema del ritornello che viene trattato in modo contrappuntistico. Prendendo spunto dal titolo del brano, si può ben affermare che la composizione nel suo insieme assuma il significato di una riduzione per tastiera di un’autentica opera orchestrale. La Fantasia e Fuga Cromatica, composta probabilmente negli anni che Bach trascorse a Cöthen dal 1717 al 1723, è un’opera a dir poco visionaria che guarda ben oltre la sua epoca in termini di costruzione formale, struttura, carattere e linguaggio musicale.

A livello interpretativo, Burkard Schliessmann dimostra essere un artista tedesco atipico, nel senso che il suo Bach non è né ossessivamente analitico, né ancorato a una dimensione esecutiva legata esclusivamente all’innegabile patina teologica che tale musica esprime, ma semmai votato a una visione che è più prossima a un esprit mediterraneo per via di una scossa appassionata che attraversa febbrilmente la sua lettura, senza però che venga mai meno quell’indispensabile disciplina del tocco e il relativo dominio della tastiera. Sia ben chiaro, con ciò non voglio dire che il suo è un Bach “romantico”, ma è certamente impregnato di una bellezza sonora, di una nobiltà timbrica che fa fluire la musica del Kantor con un accentuato senso di purezza, un cristallo lucente che brilla dalla prima all’ultima nota, come si può constatare da come affronta la Partita n. 2. Inoltre, la capacità di aggraziare il procedere ritmico del Concerto Italiano, giocando e immettendo sottili sfumature timbriche con il preciso scopo di evidenziare il suo côté melodico (quindi, italiano) dell’opera, quasi trasformandolo in un’aria operistica, ossia esaltando la sua “cantabilità”, senza contare come il pianista bavarese riesca a trasmettere le nervature di chiara matrice veneziana che percorrono tutto il meraviglioso Andante, senza che la tensione espressiva decada a mera e inopportuna sentimentalità. Al contrario, nella Fantasia cromatica Schliessmann si propone, riuscendovi, di far affiorare la geniale dimensione armonica del brano attraverso una chiarezza espressiva che non perde mai la drammaticità del gesto pianistico, coinvolgendo l’ascoltatore in questa continua ed esaltante ascesa, in cui lo sviluppo melodico è il bastone d’arrampicata.

Una premessa doverosa va fatta sul brano di Mendelssohn, le Variations sérieuses op. 54; composte nel 1842, che fin dal loro apparire furono considerate una delle opere più virtuosistiche della letteratura pianistica del tempo, capaci di mostrare magistralmente la gamma della suprema tecnica pianistica attraverso il processo della variazione. Questo perché ogni variazione, nell’op. 54, si basa sull’altra e si sviluppa dalle energie armoniche e melodiche della variazione precedente, una sorta di geniale anticipazione di quella che sarà la cosiddetta “variazione in sviluppo” maturata da Arnold Schönberg. Lo stesso titolo della pagina mendelssohniana, alquanto insolito all’epoca, va inteso e interpretato come una precisa reazione da parte del compositore amburghese nei confronti di un’acquisita e consolidata pratica musicale del suo tempo, quella che imponeva, in un certo senso, la creazione di Variations brillantes, vale a dire fantasie puramente virtuosistiche su temi alla moda, spesso tratti da arie operistiche. Al contrario, con la sua op. 54, Mendelssohn presentò un’opera che da un lato sembra orientata verso le Variazioni in do minore di Beethoven e, dall’altro, in grado di anticipare il successivo stile di variazione virtuosistica di Brahms, in particolare le Variazioni Paganini.

Nella lettura di questo capolavoro pianistico di metà Ottocento, Schliessmann dimostra non solo di dominare perfettamente la tastiera, plasmando la materia sonora intrisa di una stupefacente difficoltà tecnica, ma riesce anche a esprimerne la sua commovente musicalità; l’abilità interpretativa risiede appunto in ciò: restituire a beneficio dell’ascoltatore quelle tensioni espressive, nell’alternanza e nello sviluppo tra variazioni lente e quelle veloci, che permeano tutta l’arcata architettonica dell’opera. In fondo, il pianista bavarese decodifica la struttura, la rende accessibile attraverso un accorato alternarsi esplorativo della tastiera, portando in superficie le ombre e le luci che contraddistinguono queste variazioni.

Nel secondo disco, Schliessmann focalizza ulteriormente il suo percorrere concertistico in seno allo sviluppo armonico, approdando inevitabilmente a Robert Schumann, la cui opera è qui rappresentata dalla Fantasia in do maggiore, Op. 17, unitamente ai due bis, ossia il dodicesimo brano di Carnaval, Op. 9, intitolato Chopin, e il terzo degli otto Fantasiestücke, Op. 12, ossia Warum?, e a Fryderyk Chopin con il Valzer in do diesis minore, Op. 64 n. 2. Per ciò che riguarda il compositore di Zwickau, l’interprete bavarese fa giustamente notare come la musica schumanniana rappresenti un punto fermo per due distinti motivi: il primo è che la sua inventiva compositiva lo portò ben oltre le progressioni armoniche note fino alla sua epoca, mentre il secondo è dato dal fatto che, sull’onda della Bach Renaissance mendelssohniana, Schumann vide nelle fughe e nei canoni dei compositori del passato un principio romantico. Da ciò, egli considerò il contrappunto, con il suo fantasmagorico intreccio di voci, una sorta di corrispondenza tra le misteriose relazioni tra fenomeni esterni e anima umana, tra il principio trascendente e quello immanente, cercando, allo stesso tempo, di esprimere tale corrispondenza in complessi termini musicali, concentrandoli soprattutto sulla tastiera dell’amato pianoforte.

La tipica posa malinconica di Robert Schumann immortalata in questo dagherrotipo dal fotografo Johann Anton Völlner nel 1850.

Proprio a causa di questa ricerca di applicazione sonora, capace di rendere al meglio l’agone tra forze esteriori e interiori, Schumann dovette affrontare un problema non indifferente, quello legato dal fatto di presentare un’adeguata sostanza musicale e intellettuale entro una forma pianistica su larga scala, ossia capace di ospitare una complessa materia sonora sia in ambito armonico, sia melodico; ed è indubbio che tale operazione abbia trovato nella Fantasia op.17 il suo risultato migliore, quella che viene considerata giustamente la sua opera pianistica più audace e ambiziosa, nella quale il geniale compositore tedesco riversò tutte quelle istanze romantiche d’impronta germanica già delineate in precedenza attraverso l’apporto letterario e poetico dato da autori come Schlegel, Novalis, Eichendorff e Jean Paul.

Nel restituirla in sede concertistica, Burkard Schliessmann non si lascia trascinare, soprattutto nel celeberrimo tempo di apertura, dall’entusiasmo generato e offerto dalla scrittura musicale, ma lo presenta in modo parcellizzato, distillato, investendolo con le dovute mutazioni e peculiarità psicologiche, plasmando con l’attenzione dovuta la mutevole agogica, in perenne equilibrio simbolico tra titanismo e vittimismo. Trionfo di un sentimentalismo che già prefigura, come giustamente appunta lo stesso interprete bavarese nelle note di accompagnamento, alla figura del Tristano wagneriano; da qui una conseguente e ineludibile problematicità data dalla materia armonica che anticipa compiutamente quella sedimentazione dissonantica che sarà humus fertile per Richard Wagner. E Schliessmann risulta essere altrettanto convincente anche quando dipana il secondo tempo nel quale il giovane Schumann immette la visionaria lezione dell’ultimo Beethoven pianistico, confezionando arditezze armoniche capaci di sfiorare la schizofrenia timbrica, audaci sussulti di modernità che solo lo scorrere del tempo permise poi di apprezzare ed ammirare giustamente.

Per concludere il capitolo schumanniano legato a questo doppio SACD, come bis l’interprete bavarese ha scelto due brani capaci di esaltare la bellezza, la caratura estetica del suo tocco pianistico; così sia Chopin, sia Warum? si trasformano in due diamanti che rifulgono di una luce timbrica che Schliessmann sa dosare alla bisogna e che ci confermano che in fondo questo pianista, come d’altronde lo fu il sommo Walter Gieseking, è così poco “germanico” a livello di appartenenza a una scuola pianistica, facendo sì che la dimensione per così dire “analitica” nell’affrontare un determinato autore si possa in lui coniugare sempre con una debita patina timbrica, in grado di donare bellezza e sentimento. Lo dimostra perfettamente la sua lettura del Valzer chopiniano, che colpisce per il suo fraseggio “singhiozzante”, quasi che il pianista bavarese avesse voluto, più che altro, far affiorare la dimensione emotiva che si cela dietro la sua purezza formale. Quindi, una ricerca timbrica che dietro l’aspetto estetico non è fine a sé stessa, ma diviene strumento per approfondire, per scavare, per giungere al cuore ultimo, ossia all’elemento pulsante, il motore segreto che fa muovere il tutto.

Louis-August Bisson volle immortalare tutta la sofferenza fisica di Fryderyk Chopin nel 1849, pochi mesi prima della sua morte, in questa fotografia scattata nel salone dell’editore musicale parigino Louis Brandus.

La presa del suono live è stata effettuata da quella garanzia che si chiama Matteo Costa, il quale ha voluto mettere in evidenza sia lo strumento in sé, sia la dimensione spaziale nel quale si trovava. Il punto di partenza per ottenere il tutto è dato dalla dinamica, la quale anche se non colpisce per la sua energia, si fa però notare per la sua pulizia e per una rassicurante naturalezza. Un altro parametro che è da apprezzare è quello relativo al palcoscenico sonoro, che vede il Fazioli usato da Schliessmann ricostruito a una debita profondità, in modo da poter rappresentare anche la volumetria spaziale che si trova intorno ad esso. Molta profondità ma, allo stesso tempo, anche molta finezza della messa a fuoco del pianoforte, capace di esprimere e irradiare un suono che si materializza nello spazio circostante, suono che non si perde nel momento stesso che va a invadere sia in termini di ampiezza, sia di altezza. Il perlage pianistico dell’interprete tedesco viene sapientemente riproposto grazie all’efficacia dell’equilibrio tonale, sempre perfettamente discernibile nella separazione offerta dal registro medio-grave della tastiera e da quello acuto, così come il dettaglio, sebbene, come già spiegato, il pianoforte sia posizionato a una notevole profondità, non risulta essere deficitario in termini di matericità e di tridimensionalità.

Andrea Bedetti


Giudizio artistico 4,5/5


Giudizio tecnico 4,5/5

 

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