Il critico e studioso del jazz Francesco Cataldo Verrina ci introduce alla figura “maledetta” del grande trombettista hard-bop di Filadelfia, morto a soli trentaquattro anni, attraverso la disamina di tre suoi album leggendari, City Lights, Search for the New Land e The Procrastinator
Lee Morgan appartiene a quella schiera di eroi «maudit» del jazz moderno, la cui esistenza, vissuta sul filo del rasoio e tragicamente conclusasi tragicamente all’età di trentatré anni, ha fornito più materia ai cacciatori di gossip che non ai musicologi: il trombettista venne ucciso dopo un litigio da colei che si spacciava per la sua seconda moglie (però mai sposata civilmente). Gli eccessi della breve vita del musicista hanno finito per colmare la fiorente attività del biopic americano, in cui la morbosa descrizione degli eccessi personali, sovente, supera l’analisi approfondita della discografia.
Lee Morgan, intorno ai vent’anni, almeno prima di soccombere al vizio dell’eroina, era in grado di suonare costantemente full barrel, senza mai perdere il contatto con la superficie sonora, in forma e sostanza, indipendentemente dal registro, dal tempo e dalla complessità melodica. Sebbene Morgan fosse un trombettista dotato e rappresentativo, se non più, almeno quanto, Miles Davis e Freddie Hubbard, molte delle sue produzioni non sembrano lasciare un’impronta così duratura sugli ascoltatori, e tutto ruota intorno al vendutissimo The Sidewinder. A partire da Search for the New Land egli avrebbe tenuto a freno l’esuberanza giovanile del suo indomito stile, distillando alcune opere più riflessive, persino minimaliste, che fornirono precise indicazioni su ciò che il trombettista sarebbe potuto diventare, se non fosse morto prematuramente. Va detto, per verità storica, che la Blue Note, nonostante avesse prodotto una serie interminabile di capolavori, era sempre in difficoltà economiche e sull’orlo di un tracollo finanziario. Sovente i dischi che vendevano bene, andavano a finanziare altri progetti a rischio, tentando di compensare taluni insuccessi commerciali, che nulla avevano a che fare con il livello qualitativo o artistico di certe opere.
In effetti, sfogliando il nutrito catalogo della Blue Note, ci si avvede che alcuni tra i dischi più riusciti ed innovativi sono tutt’altro che successi in termini di vendite, poiché basati su una maggiore complessità compositiva e una struttura ritmico-armonica più avant-garde, meno immediati, friabili e fruibili da quanti si aspettavano un boogaloo alla settimana da parte di Lion e soci. Non a caso, fra il 1956 e il 1963, pur essendo considerato un musicista importante in casa Blue Note, il rapporto del trombettista con l’etichetta di Alfred Lion e Francis Wolff fu piuttosto inquieto e altalenante: in quel lasso di tempo Lee non raggiunse mai un determinato livello di vendite e un traguardo commerciale soddisfacente. Infatti, tra Morgan e la Blue Note ci fu una specie di iniziale amore-odio di lascia e piglia e alcuni suoi album uscirono con ben altre cinque differenti etichette: Savoy, Speciality, Vee-Jay, Roulette e Jazzland.
A sostegno di questa tesi abbiamo voluto scegliere tre album del trombettista che non sempre compaiono nelle classifiche di gradimento e nelle segnalazioni di critici ed esperti: City Lights è il primo disco in cui Morgan cerca un elemento diversificatore o sperequativo rispetto al più tradizionale asset bebop. Non si dimentichi che mentre il trombettista di Filadelfia era proiettato all’interno di una erigenda carriera come solista, faceva ancora parte dell’entourage di Dizzy Gillespie. Qualche settimana più tardi, nel settembre dello stesso anno, la collaborazione con Coltrane rafforzò in lui taluni convincimenti, almeno un desiderio di cambiamento, che rimase però sempre in nuce: Lee Morgan restò per tutta la sua carriera mirabilmente intrappolato – e sottolineo mirabilmente – nel tipico schema di gioco bebop-hard-bop, su quell’asse cartesiano che univa in maniera ortogonale Gillespie e Blakey. Specie in tale circostanza, fu assai difficile per il diciannovenne Morgan svincolarsi dall’idea di essere, sempre e comunque, il Charlie Parker della tromba deciso a suonare come Clifford Brown.
Nel corso di questa sessione il trombettista di Filadelfia intercettò alcune intuizioni che saranno sviluppate, purtroppo in un futuro tardivo, quando egli era già logorato dagli eccessi e prematuramente precipitato in una fossa a causa di eventi non del tutto estranei al suo caotico e sregolato stile di vita. Una prima linea con tre strumenti a fiato, Lee Morgan (tromba), Curtis Fuller (trombone) e George Coleman (sax tenore e contralto), fecero di City Lights un piccolo case study accomunandolo a un’idea che lo stesso Clifford Brown aveva accarezzato, ma che non riuscì a realizzare compiutamente; un proposito che aveva sedotto lo stesso Coltrane in Blue Train e di cui Benny Golson, in varie circostanze, era stato l’autentico propugnatore. Perfino Miles Davis, in un particolare momento della sua carriera, aveva subito il fascino di un attacco a tre punte con due sassofoni (Coltrane al tenore e Cannonball al contralto) quali fiancheggiatori della sua tromba. Ovviamente, la presenza di un trombone assume un significato diverso nel tentativo di costituire una mini-orchestra con le varie sezioni fiati; in questo caso rappresentate da almeno uno strumento e supportate da una retroguardia ritmica. Nello specifico: Ray Bryant (pianoforte), Paul Chambers (basso) e Art Taylor (batteria).
Fu proprio il prolifico Benny Golson a fornire tre componimenti originali su cinque e a curare gli arrangiamenti di questa sessione che, in quanto tale, non fu però contemplata nelle successive registrazioni con la medesima configurazione. Come vedremo più avanti nel successivo The Cooker i fiati saranno solo due e addirittura in Candy toccherà alla sola tromba di Morgan operare a tutto campo in prima linea. Per metafora, City Lights fa pensare all’omonimo film di Charlie Chaplin, in cui un errabondo Lee Morgan cerca il suo riscatto girovagando per la città di notte, dove le luci fanno da cornice a un viaggio senza un precisa meta.
L’impatto è immediato e descritto in maniera mercuriale dalla title-track che funge da opener, in cui l’effetto cinematico spalanca le porte alle urgenti invenzioni della tromba del band-leader, sempre su di giri, come se volesse portare il sonoro della pellicola a una velocità superiore rispetto a quella consentita da una normale proiezione. Al contempo il walking del basso di Chambers, che descrive una figura a due note, s’innesta nella progressione di Ray Bryant impostata sul registro superiore, mentre i fiati assumono toni drammatici scivolando perfettamente sulle diminuite e sull’incessante lavorio del kit percussivo. Il sax tenore di George Coleman spazza improvvisamente l’aria come un tornado, mentre Morgan, come un lanciafiamme, sputa fuori un assolo di tromba spostandosi sul registro acuto, foraggiato dalle retrovie dall’apporto ritmico di un attentissimo Taylor, la cui interazione non lascia aria ferma.
Il trombettista diventa il vero anfitrione in Tempo De Waltz, a firma Golson, mentre Coleman si rifugia, nelle sue linee fluide, già sperimentate, sicure e più convenzionali, tirando fuori gli attrezzi del mestiere che guardano nello specchietto retrovisore inquadrando lo stile del «vecchio» Benny Carter al contralto. Il trombone di Fuller aggiunge un sapore ancora più retrò. Tuttavia, nihil sub sole novi. You’re Mine You, con la sua struttura lignea da salice piangente e un’aura vagamente luttuosa, sembra non trovare un punto di confluenza collettivo, nonostante l’abilità delle singole forze in campo. Per paradosso, Lee Morgan avrebbe potuto suonare anche da solo. Just By Myself, srotolato sulla lunghezza di oltre nove minuti e una moderna rapsodia composta da Golson, che costringe Morgan a cavalcare a briglie corte e a mantenersi su un tempo medio, mentre il trombone di Fuller ricama gli interstizi dell’ampia tessitura sonora.
Sul finale fa capolino Kin Folks, composizione che reca in calce la firma di Gigi Gryce, si sostanzia come un blues limaccioso, fluidificato dall’intervento di Golson sulla partitura, dove Chambers e Bryant trovano l’humus giusto per innestare un fertile substrato ritmico-armonico, tale da consentire a tutti i solisti di portare a casa un frammento di gloria. Va da sé che la lunghezza rende il costrutto complessivo piuttosto dispersivo: dopo un superbo inizio, caratterizzato dai riff degli ottoni, a un certo punto l’impianto melodico inizia a perdere le coordinate trascinandosi stancamente, specie verso la fine. Se solo fosse stato più compatto, Kin Folks sarebbe stato il climax di un album che in ogni momento certificava l’atteggiamento di Lee Morgan di essere (o voler essere) il genius loci, ma gli accordi erano questi.
Nonostante l’eccellenza delle forze in campo, il protagonista avrebbe dovuto essere lui. Per intenderci, così fu scritto e così fu fatto. Al netto di ogni considerazione ex-post, calandosi nell’atmosfera di quello scorcio di fine anni Cinquanta, City Lights rappresenta, comunque, un lavoro degno di attenzione, se non altro per comprendere l’evoluzione dell’allora giovanissimo trombettista di Filadelfia.
(Lee Morgan – City Lights, 1957).
Dal canto suo, Alfred Lion, patron della Blue Note, aveva continuato spasmodicamente a cercare il follow-up di The Sidewinder, mentre Morgan tentò subito con The Rumproller, ma senza successo. Contemporaneamente il trombettista iniziò a perdere anche il controllo sulla dipendenza dalle droghe, tanto che un breve ritorno nei Jazz Messengers di Blakey aggravò ulteriormente la sua già precaria condizione psichica. Tra notevoli difficoltà Morgan continuò a registrare in modo prolifico per la Blue Note, tra cui Search for the New Land del 1964, che raggiunse solo il ventesimo posto nella classifica R&B, che era una cosa ben diversa dalle charts dedicate ai dischi genericamente detti pop, ossia quelli che vendevano di più come era accaduto per The Sidewinder: ancora frustrazioni, dunque, e guadagni limitati.
L’idea di innovazione rende Search for the New Land ancora più interessante, poiché in contrasto con un capolavoro commerciale come The Sidewinder, che costituisce l’emblema dell’hard bop sbriciolato nel soul in tutto il suo splendore, ma sigillato in un involucro sonoro più conservativo. Per esempio, una qualsivoglia forma di espressione artistica tesa all’innovazione non potrebbe essere apprezzata e compresa pienamente senza un termine di paragone o un punto di riferimento, quale una cornice storico-ambientale preesistente o uno stile precedentemente praticato dall’autore o dai suoi simili. A un certo punto il free jazz sfondò il muro delle convenzioni, ma già dalla metà degli anni ’50 in poi si poteva intuire un desiderio di liberazione leggendo i titoli di alcune composizioni. In precedenza, i musicisti jazz al massimo dedicavano un pezzo a una donna o a un collega scomparso, progressivamente cominciarono a intitolarli alle nuove nazioni africane indipendenti, per decretare i loro sentimenti afro-centrici, oppure a località dell’Estremo Oriente, al fine di sottolineare un crescente interesse per certe filosofie, le problematiche politico-religiose medio-orientali e i sistemi ritmici latino-americani.
Search for the New Land potrebbe essere letto come l’inno generico a una terra ideale; un titolo che, in maniera implicita, si lega ai concetti del movimento di liberazione già presenti in India e Africa di John Coltrane, mentre la struttura ritmico-armonica aperta tenta di svecchiare il vernacolo jazzistico in maniera radicale come Ascension di Coltrane o Free Jazz di Ornette Coleman, pur usando concetti e lemmi sonori differenti. Diceva Sun Ra: «Ci sono altri mondi (di cui non vi hanno mai parlato)». A parte il riferimento del Santone ad altre galassie, il jazz di quegli anni tentava di scoprire soprattutto altri universi sonori.
È difficile immaginare un sestetto più coeso e adatto per il costrutto sonoro di Search for the New Land: Lee Morgan tromba, Wayne Shorter sax, Grant Green chitarra, Herbie Hancock piano, Reggie Workman basso e Billy Higgins batteria, i quali misero in scena una delle performance più riuscite della loro carriera. L’album evidenzia, in primis, un’impeccabile sincronizzazione come ensemble, attraverso la caparbia esplorazione di concetti armonici e ritmici senza soluzione di continuità e l’invenzione di frasi melodiche che si riversano come oro colato nei solchi, in ogni momento e in tutte le tracce. Search for the New Land fu tenuto in naftalina per due anni.
La Blue Note era in cerca d’altro per assecondare i distributori e i negozi di dischi che chiedevano il sequel di The Sidewinder, tentando di reiterare la formula hard bop a presa rapida di Morgan, dando così la precedenza alla pubblicazione di altri due album, ossia The Rumproller e Cornbread, i quali non sortirono comunque l’effetto sperato, lacerando la fragile personalità di Morgan, già piuttosto compromessa dall’uso di narcotici.
La title-track, nonché brano di apertura, è un’odissea di quindici minuti che viaggia sulla sospensione e imprevedibilità, ma sorretta da un sostanzioso e stabile costrutto armonico, risucchiando continuamente l’ascoltatore in un’atmosfera introspettiva, con paesaggi sonori mutevoli che alimentano la riflessione. Il line-up sembra inizialmente trattenuto come un cavallo che si muove agilmente al passo, ma con le redini corte, progressivamente gli strumenti iniziano a liberarsi dall’imbrigliatura, eseguendo dapprima un piccolo trotto, per poi giungere a un elegante galoppo: si parte da una vibrazione di basso di Reggie Workman che si fonde al tintinnio dei piatti di Billy Higgins, mentre Herbie Hancock tesse un ordito di trame modali. Tra un assolo e l’altro il tema ritorna al punto di partenza, lasciandosi alle spalle la pulsazione complessiva, come se l’ensemble tentasse di dilatare il tempo e lo spazio.
In fondo Search for the New Land è imperniato su pochi semplici cambi di accordi, sui quali gli strumentisti improvvisano modalizzando le melodie, mentre l’arrangiamento a maglie larghe fornisce loro la licenza di esplorare in maniera radicale. Ad esempio, il chitarrista Grant Green si sofferma su piccole figure e le ripete ossessivamente e, quando enuncia il tema principale, si allontana dalle sue note come se fosse alla ricerca di un altrove. Le soluzioni musicali proposte, se pur coperte da una patina di hard bop tradizionale, presentano una fioritura di elementi più evoluti e di trame più ricche di dettagli. L’incedere quasi divertito di The Joker, l’aura afro-cubana di Mr. Kenyatta, il nostalgismo cinematografico di Melancholee e lo spirito avventuroso di Morgan The Pirate nascono tutti da una forma di emotività più cruda e diretta, quasi alternativa alla prosopopea tipica dell’hard bop, sempre molto ludico, trionfale e autocelebrativo. Morgan e il suo ensemble tentano di lasciarsi alle spalle i cambi di accordo e la melodia con la stessa determinazione dei propugnatori del free jazz. La «nuova terra» che creano diventa un’enclave democratica, dove ciascuno ha diritto di parola e nessuno resta ingabbiato nei limiti del tempo e dello spazio, ma il ruolo di ogni strumento è fluido e costantemente in lizza.
A quel tempo Morgan era il più incensato trombettista dell’era post-davisiana, ma la sua esistenza e il suo operato avevano brutalmente deragliato sul binario della droga. Per far fronte alle proprie esigenze, Lee, tra la fine degli anni ’50 e la metà degli anni ’60, si guadagnava da vivere registrando a getto continuo, anche come sideman. Si racconta che sbattendosi da una sessione all’altra, spesso dimenticava gli spartiti sul sedile di un taxi o lo strumento in qualche studio. Come accaduto anche ad altri suoi colleghi hard bop: si potrebbe pensare a Jackie McLean, Joe Henderson e Wayne Shorter, i cui lavori più spinti in avanti e moderni, vennero congelati, rispetto ad altri che sembravano tenere vivo il fuoco dell’hard bop. I più cattivi sostengono che alla Blue Note, la quale soffocava nei debiti, non si facessero scrupolo nel consentire, ai tanti musicisti tossicodipendenti o con impellenti esigenze di denaro, di sfornare instant album, veloci e ricavati con lo stampino, al fine di trarne un profitto reciproco, sia pur modesto. Tom Perchard, nel suo saggio intitolato Lee Morgan: His Life, Music And Culture racconta: «L’aria filtrava intorno al bordo del suono come un gas blu, non acceso. Alla fine del suo assolo Morgan ripeté due volte il tema principale, la prima volta così delicatamente che l’aria sembrava fuoriuscire dalla tromba e trascinare il tono verso il basso, la seconda volta soffiando in modo eccessivo al punto tale che il suono distorcesse la purezza della tonalità».
Search for the New Land è una perfetta sintesi di tutti gli elementi che rendono il jazz diverso da ogni altra forma di esplorazione musicale, dove ogni membro del line-up dimostra di essere non solo tecnicamente abile ma altamente maturo, dando priorità alla musica piuttosto che alla rappresentazione del proprio egocentrismo artistico. Il ripetuto cambio di passo e di umore, usando l’armonia accordale/modale, fece sì che i brani acquisissero un senso di meraviglia e suspence, mentre, in alcuni tratti, l’oscurità diventa favorevole alla creazione di un’aura spettrale ed avvolgente.
Search for the New Land guardava oltre. Perfino la copertina dell’album suggerisce una diversità nei contrassegni salienti. Morgan veniva solitamente raffigurato come un suonatore algido e sicuro di sé, intento a suonare la tromba con gli occhi chiusi e una sigaretta in mano o infilata nei tubi dello strumento. In tale circostanza fu colto in un momento di incertezza: mentre pone lo sguardo nell’obiettivo fotografico sembra vulnerabile e dubbioso. Come molti set con il baricentro spostato in avanti, Search for the New Land venne oscurato dall’implacabile giostra delle sessioni hard bop pronto-cuoci.
Oggi però, con il senno di poi, potremmo considerarlo come il vero capolavoro di Lee Morgan, in cui tutto sembra in asse e perfettamente allineato, come quei pianeti che sovrintendono alla genialità umana.
(Lee Morgan – Search for the New Land, 1964).
Un salto temporale ci dà la dimensione di quanto Lee Morgan fosse cambiato negli anni. Quando The Procrastinator venne registrato nel 1967, il trombettista aveva all’attivo due dozzine di dischi come leader ed era riuscito a tenere sotto controllo la sua dipendenza dai narcotici, pur attraversando momenti personali molto difficili, spesso senza poter suonare per lunghi mesi. Le sessioni di registrazione degli anni precedenti erano state discontinue, con una scarsa resistenza e un’embouchure che a volte ne limitava le capacità esecutive. Per questo set, Lee aveva convocato il vecchio amico Wayne Shorter, oltre a Herbie Hancock, Ron Carter, Billy Higgins e Bobby Hutcherson. Paradossalmente, una parte importante dell’album è caratterizzata dalla combinazione e dalla mercuriale interazione in prima linea tra vibrafono e tromba. Il dualismo con il metallofono aggiunse al parenchima sonoro una pregevole serie (di quelle a tiratura limitata) di contrafforti soulful.
In netto contrasto con altre sessioni del periodo, la compagine arrivò in studio ben allenata, con Morgan in un risolutivo stato di grazia, soprattutto il suo stile era notevolmente cambiato anche per esigenze pratiche e qualche limite di tipo fisico: fare uso di stupefacenti non è mai una botta di salute. Non solo la fisiologia del «malcapitato» subisce danni di ogni genere, ma tutte le strutture osseo-muscolari risultano prematuramente invecchiate e, talvolta, inesorabilmente compromesse.
Morgan era stato un solista energivoro, incline alle fantasie pirotecniche e alle giostre roteanti, sovente fini a sé stesse, ma nella sessione in oggetto perfino le figure e le legature, che lo contraddistinguevano nei primi lavori, scomparvero a tutto vantaggio di una pronuncia decisamente diretta e senza tanti fronzoli. Il giovane, un po’ guascone del decennio precedente, avrebbe potuto aggiungere un pizzico di sfarzo o di barocchismo, ma in questa data le note risultano nitide e vanno dritte al punto. Sebbene si trattasse di una sessione particolarmente intensa, e con un line-up stellare, le registrazioni furono accantonate e pubblicate postume solo nel 1978.
La title-track si apre con un maestoso duetto di fiati, prima che Carter entri in scena con un walking di basso testosteronico che trascina l’ensemble in un vero e proprio frullatore swing. La melodia viene ripetutamente enfatizzata all’unisono, prima di lasciare spazio agli assoli dei singoli. Nel bruciante StartStop l’intero line-up getta benzina sul fuoco: tempi veloci sovrapposti a improvvisazioni ancora più rapide e vertiginose, mentre Party Time sembrerebbe uscito dalla cassetta degli attrezzi di Horace Silver. Le macchine rallentano la corsa, su Rio a firma Shorter, dove il vibrafono di Hutcherson sviluppa una piacevole atmosfera quasi ambient, sostenuta dall’ipercalorica introduzione del basso, sempre profondo, calibrato e ad effetto; singolare il lavoro introspettivo del sax tenore che suggerisce quale sarebbe stato il futuro di Wayne Shorter.
Ad abundantiam, la presenza di Shorter e delle sue composizioni, apportano a The Procrastinator qualche riverbero di sound davisiano. La sessione si svolse, più o meno, nello stesso periodo in cui Miles Davis stava registrando Nefertiti, quindi il ricordo di quei brani deve aver attraversato la mente di Shorter, ma perfino di Carter ed Hancock. Anche se The Procrastinator non ha mai raggiunto i livelli di notorietà di The Sidewinder, può essere considerato come una sorta di diamante nascosto, scomparso e poi ritrovato. Come spesso accade con le ristampe e le uscite postume, la Blue Note aveva in archivio parecchi nastri con altre tracce mai pubblicate. Alcune edizioni di The Procrastinator sono state ampliate e trasformate in un doppio album, con un lato aggiuntivo che vede, in primo piano insieme con Morgan, George Coleman al sax e Julian Priester al trombone con il supporto di una sezione ritmica costituita da Harold Mabern al pianoforte, Walter Booker al basso e Mickey Roker alla batteria. Questo materiale di riporto venne registrato un paio d’anni dopo, quindi non è affatto la «metà perduta» dell’album, ma sono solo delle bonus-track aggiuntive derivate da un contesto emotivo, ambientale ed esecutivo totalmente diverso.
(Lee Morgan – The Procrastinator, 1967-69 /1978)
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