Giuseppe Venezia è riuscito a squadrare perfettamente il foglio ed a progettare una costruzione sonora che evita immediatamente il blando uso di standard o di tributarismi di sorta, alternando momenti incandescenti a ballate fitte di anfratti soulful.

Quando qualcuno vi dice l’hard bop è morto! Voi rispondete viva l’hard bop! Soprattutto, suggerite loro di dare un ascolto a «I’ve Been Waiting For You», il nuovo album del bassista lucano Giuseppe Venezia, edito dalla Gle.AM Records di Angelo Mastronardi. Al netto di ogni congettura o di perifrasi linguistica, il bebop, nell’accezione più larga del termine, costituisce a tutt’oggi l’asse portante e la la spina dorsale su cui si regge ancora il jazz contemporaneo, sovente alla ricerca di altre vie di fuga o di ornamenti ispirati a moduli espressivi e sottosistemi idiomatici differenti. Un disco bop contemporaneo incentrato su un’idea di post-bop evolutivo o di hard bop è di per sé, inequivocabilmente, un disco jazz in piena regola. Non è semplice fare un album bop senza scadere nel citazionismo eccessivo o sporgersi troppo dal finestrino ad ammirare il passato con il rischio di precipitare nel deja-vu. Per contro, Giuseppe Venezia, bassista di lungo corso con collaborazioni altolocate, anche a livello extra-territoriale, è riuscito a squadrare perfettamente il foglio ed a progettare una costruzione sonora che evita immediatamente il blando uso di standard o di riletture tributaristiche di sorta, alternando momenti incandescenti a ballate fitte di anfratti soulful.

Il disco si coagula intorto a sette componimenti originali, tutta farina del sacco del contrabbassista-leader che si avvale di un line-up di prim’ordine: a partire dal pluripremiato trombettista Fabrizio Bosso che aderisce pienamente al progetto mettendosi a disposizione dell’ensemble, Attilio Troiano al sax tenore e al flauto, il pianista Bruno Montrone e Pasquale Fiore alla batteria. Al primo impatto, il lavoro di Giuseppe Venezia e compagni potrebbe apparire come un concept atemporale, tanto che potrebbe essere saltato fuori dal catalogo della Blue Note o della Prestige di fine anni Cinquanta o primi anni Sessanta: tutto ciò non è una deminutio capitis, sebbene gli elementi di contemporaneità siano molteplici, se non nella forma almeno nella sostanza. L’atto compositivo subisce piccoli condizionamenti legati ad epoche successive rispetto al momento aureo del bop, così come le dinamiche di interconnessione fra i sodali sembrano tener conto di tecniche più vicine alle esigenze del millennio: gli arrangiamenti risultano più dilatati e meno tesi ad un sound muscolare, serrato e dimostrativo tipico del bop classico, specie in quel gioco delle parti che si ripete a livello armonico tra pianoforte e contrabbasso e che, a tratti, funge da contenimento, o quel flauto bucolico che tenta di aggiungere qualche elemento di esotismo, per quanto l’energia propulsiva, in taluni momenti, sembra essere il motore mobile dell’album.

L’opener, «Prelude To A Message» è un intro indagatore per solo contrabbasso, su cui il leader appone il proprio marchio di fabbrica. Il successivo «Messaggeri» è un’ode in chiave contemporanea alla compagine di Art Blakey, vera e propria incarnazione dell’hard bop storico, il demiurgo di uno stile che per oltre un decennio fu l’indicatore di marcia per il jazz post-bellico. Mentre la retroguardia fornisce un groove costante, alla mente tornano le immagini di Lee Morgan e Wayne Shorter, teste di serie nei Jazz Messengers, così tromba e sax volteggiano in velocità in lungo e largo, talvolta all’unisono con un aplomb funkified, muovendosi su un costrutto che non lascia aria ferma, mentre il pianoforte, dal canto suo, funge da collante e da piattaforma di lancio, complice, in seconda battuta, il kit percussivo del batterista. L’arrivo di «I’ve Been Waiting For You», componimento dettato da esigenze familiari, smussa subito gli angoli calando l’intero sistema produttivo all’interno di un’atmosfera intima, flautata ed esplorativa, in cui Bosso dimostra la sua abilità di focoso balladeer. A seguire «Song for Gerald», uno dei componimenti più estesi dell’album, dedicato a Gerald Cannon; un blues progressivo con un groove in crescendo, magnificato dall’afflato melodico del sax di Troiano e dalla tromba mutizzata di Bosso, in cui riaffiorano essenze di Wynton Marsalis, specie nell’interludio finale tra pianoforte e tromba. «Just A Line From The Past» è una ballata abissale e descrittiva al contempo, adatta alla sceneggiatura di un film in bianco e nero, la quale ricorda il metodo compositivo di Bennie Golson, ma sono soprattutto otto minuti di tensione e rilascio, una recondita armonia su cui i fiati ricamano un tema struggente e ricco di contrafforti soulful. «Blue Bird» è un bebop in piena regola giocato in overclocking, un omaggio a Parker e Gillespie, di cui Troiano o Bosso diventano latori ed anfitrioni, saldati insieme dal piano di Bruno Montrone, mentre la cavata del basso del capitano e il drumming di Pasquale fiore mettono loro un pizzico di sale sulla coda. In chiusura, «The Shortest Story», breve nella struttura ma sviluppato ampiamente su un tracciato di oltre sette minuti, la cui narrazione viene decretata attraverso una magnifico intreccio strumentale fatto di atmosfere talvolta oniriche, sospese e flautate e con un Bosso che a tratti sembra indossare l’armatura di Freddie Hubbard, un piano che scava nel baratro dei sentimenti con una punta di nostalgia, mentre il cadenzato incedere della retroguardia ne ravviva i contorni. Al netto di di ogni suggestione, «I’ve Been Waiting For You» di Giuseppe Venezia è un lavoro di grana finissima, mai ridondante, che dimostra un senso dell’orientamento jazzistico non comune.

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