Il pianista bavarese ha registrato, in un lussuoso cofanetto di tre SACD per l’etichetta audiofila Divine Art, sette composizioni del compositore romantico di Zwickau, evidenziando come il suo pianismo sia il risultato di una lucidità intellettuale mutuata dall’ambito letterario e da quello musicale, sintesi perfetta di quell’ideale romantico tedesco esaltato da E.T.A. Hoffmann

Affrontando l’analisi di questo corposo ed elegante cofanetto della Divine Art, che presenta tre SACD con opere pianistiche di Robert Schumann nell’interpretazione del pianista tedesco Burkard Schliessmann, non posso che essere subito d’accordo con l’artista bavarese quando afferma che non sono tanto le opere pianistiche schumanniane, quanto le composizioni per voce e pianoforte che, nella loro combinazione di letteratura e musica, contribuiscono alla comprensione decisiva di questo compositore romantico e del suo potere di pensiero riguardo all’associazione tra poesia, illusione e realtà.

Robert Schumann in un dagherrotipo risalente al 1850, in cui si nota l’evidente gonfiore causato dall’abuso cronico di alcol.

D’altronde, Schumann sta alla musica come Gérard de Nerval, Friedrich Hölderlin e Novalis stanno alla letteratura e alla poesia, in quanto attraverso la loro opera, e anche tramite la loro vita, contrassegnata da risvolti drammatici e tragici, hanno tentato di sostituire il pensiero logico, il razionalismo, con una nuova forma di comprensione della realtà circostante. Ma c’è un’altra affermazione di Schliessmann, invece, che non mi trova particolarmente d’accordo, quando scrive nelle ricche e abbondanti note di accompagnamento al cofanetto della Divine Art, che «Chiunque ascolti attentamente la musica di Schumann riconoscerà questo aspetto illogico, irrazionale, quasi folle. Tuttavia, rimaniamo nel regno delle banalità comuni se non specifichiamo esattamente come riesce a trasmetterci questa impressione. Possiamo sentire gli effetti dei metodi che usa, forse faranno risuonare in noi una sensazione profonda, ma non possiamo dire di “capirli”. Quindi, tutto nell’opera di Schumann è stato “pianificato” al massimo livello. Da qui la mia convinzione personale che Schumann non sia mai stato “malato”, ma sia sempre stato frainteso. […] Anche Bettina von Arnim considerava Schumann sano durante una visita a Endenich, ma il medico che lo curava era malato [come riportato da Ernst Burger: Robert Schumann. Schott, Mainz 1999, p. 329]). Certo, una testimonianza interessante, ma che va a cozzare contro le tesi di quegli esperti e di quegli psichiatri che invece hanno confermato, attraverso altrettanti documenti e altre testimonianze, la presenza di turbe psichiche che deflagrarono definitivamente alla fine del 1853 e che portarono al tentativo di suicidio da parte di Schumann (tra i diversi contributi, cito solo quello particolarmente interessante del neuropsichiatra tedesco Uwe Henrik Peters, intitolato Robert Schumann. 13 Tage bis ENDEnich, nella traduzione italiana Robert Schumann e i tredici giorni prima del manicomio, edito da Spirali, in cui fa presente come le cure, se vogliamo definirle tali, del tempo andarono a peggiorare ulteriormente la fragile psiche del compositore romantico).

Ma ciò che importa, almeno in tale sede, è comprendere e analizzare la scelta fatta da Schliessmann per portare acqua al suo mulino, partendo dalla scelta delle pagine pianistiche spalmate nella playlist dei tre SACD. Nel primo disco troviamo la Kreisleriana, Op. 16, la Fantasia in do maggiore, Op. 17 e l’Arabeske, Op. 18, mentre nel secondo SACD i Fantasiestücke, Op. 12, ancora l’Arabeske, Op. 18 e Des Abends, che fa parte del primo libro dei Fantasiestücke, Op. 12, già eseguiti in precedenza; infine, nel terzo disco troviamo i Nachtstücke, Op. 23, i Drei Fantasiestücke, Op. 111 e i Gesänge der Frühe, Op. 133. Come a dire una scelta che unisce l’alfa con l’omega della produzione pianistica schumanniana, nel tentativo di fornire una chiave omogenea, nella sua linea progressiva, di tutto il percorso per questo strumento da parte del compositore di Zwickau. Una chiave indubbiamente omogenea, dettata dalla lucidità del pensiero e della creatività schumanniani, che Schliessmann porta avanti nel nome del fecondo rapporto tra letteratura e musica intrapreso dal geniale musicista romantico.

Non solo, ma il pianista bavarese, sempre nelle sue note di accompagnamento, va a toccare e a individuare quei punti di contatto tra autori della letteratura romantica del tempo di Schumann, ossia Joseph von Eichendorff, E. T. A. Hoffmann e Friedrich Hölderlin, oltre a citare altri autori “sacri” del Pantheon romantico germanico come Novalis, Friedrich Schlegel e Jean Paul, con la musica del nostro autore. Questo punto di contatto non riguarda solo l’importanza della scelta di quelle poesie convogliate poi nei Lieder schumanniani, come accade nel Liederkreis Op. 39, i cui dodici brani vertono proprio su altrettante poesie di Eichendorff, ma di come l’influsso di questo poeta e di altri autori sia stato determinante anche nella musica esclusivamente pianistica di Schumann, ossia di come la parola poetica, il verso, la strofa, nella mente del compositore di Zwickau, siano stati perpetuati alla stregua di “testi musicalizzati” sulla tastiera del pianoforte. In un certo senso, attraverso questa operazione di continuità metasemantica, Schumann va oltre alla celebre affermazione di Heine, ossia che dove le parole finiscono là inizia la musica. Al contrario, la “lucidità” intellettuale e artistica schumanniane gli permettono, a detta di Schliessmann, di unire i due concetti, quelli della parola e del suono, in un continuo perpetuarsi, al punto di rovesciare l’affermazione di Heine in laddove le parole finiscono, là prosegue la musica. Così, attraverso la sua rielaborazione musicale mediante il pianoforte, Schumann non fa altro che dilatare, ampliare, esaltare il contesto poetico, trasformandolo in una “metapoesia sonora”. Come a dire che, anche quando compone musica esclusivamente dedicata al suo strumento preferito, Schumann non cessa di pensare e di immaginare come un letterato.

Anche il poeta tedesco Joseph von Eichendorff, che vediamo in una stampa dell’epoca, è stato fondamentale con i suoi versi, utilizzati nei Lieder schumanniani, per la stessa musica pianistica del compositore di Zwickau.

Per questo, nel suo saggio introduttivo alle registrazioni contenute in questo cofanetto, Schliessmann scrive testualmente: «Robert Schumann è considerato il principale rappresentante del Romanticismo tedesco, in particolare attraverso la sua esemplare fusione/combinazione di letteratura e musica. Dove la parola parlata o scritta raggiunge i suoi limiti, la musica entra con il suo linguaggio e i suoi mezzi. La poesia viene elevata a un nuovo livello e stadio di comunicazione, rappresentazione e comprensione. Stilisticamente, le opere per pianoforte di Schumann appartengono a un periodo di transizione che fu ispirato dalla polifonia di Bach e condizionato dai successori e imitatori del classicismo viennese e in particolare di Beethoven. Gli elementi dello stile di Schumann che lo rendono originale e grande, e che sono unicamente caratteristici di lui, possono essere visti in due modi. La sua inventiva compositiva lo portò ben oltre le progressioni armoniche note fino alla sua epoca; d’altra parte, scoprì nelle fughe e nei canoni dei compositori precedenti un principio romantico. Vedeva il contrappunto, con il suo intreccio di voci, come corrispondente alle misteriose relazioni tra fenomeni esterni e anima umana e, essendo un compositore romantico, si trovò spinto a esprimerle in termini musicali complessi».

Ho voluto citare interamente questo lungo periodo, per far comprendere meglio per quale motivo il pianista bavarese, nella sua scelta del repertorio inciso in questi tre SACD, abbia dato estrema importanza al concetto schumanniano di Fantasie.  Questo perché proprio in questo genere pianistico, il compositore di Zwickau trovò lo strumento espressivo ideale per sintetizzare l’ambito letterario con quello squisitamente musicale (ricordo che Schliessmann qui esegue la Fantasia in do maggiore, Op. 17, i Fantasiestücke, Op. 12 e i Drei Fantasiestücke, Op. 111), senza dimenticare, per rinsaldare ancora la dimensione “letteraria” del suo pianismo, che dietro la Kreisleriana op. 16 (i cui otto brani sono altrettante Fantasie), così come nei Fantasiestücke, Op. 12, c’è la figura ingombrante, quasi onnipresente, di E. T. A. Hoffmann. E questo vale soprattutto per l’Op. 16, che Schumann compose in soli quattro giorni nel 1838 in uno stato di febbrile irrequietezza e in preda a un umore depresso, in cui la materia musicale va a collimare, attraverso precise scelte armonico-melodiche e timbriche, con il personaggio letterario di Hoffmann, ossia il direttore d’orchestra Johannes Kreisler, che precipita progressivamente nella follia, «anticipando in modo inquietante il destino di Schumann, [e che] simboleggia la combinazione di biografico, letterario e musicale che è così caratteristica del Romanticismo e che incontriamo ripetutamente nell’opera di Schumann».

Nondimeno, anche i quattro Nachtstücke Op. 23, composti a Vienna nel marzo 1839, si basano su modelli letterari tratti dall’opera narrativa di E. T. A. Hoffmann e risultano collegati dalla loro atmosfera cupa. È interessante notare come Schumann annotò nel suo diario che stava scrivendo una “fantasia di cadaveri” (sic!). Non solo, ma poco dopo aver composto il primo dei quattro pezzi, una vera e propria marcia funebre, Schumann venne a sapere della morte del fratello Eduard da Zwickau e commentò testualmente: «Quanto sono strane le mie premonizioni; mi rendo conto anche dell’addio a Eduard e di quanto fosse ancora buono». 

Il poeta, musicista e critico letterario Ernst Theodor Amadeus Hoffmann in un suo autoritratto. Questo artista rappresentò un preciso punto di riferimento per l’estetica e la creatività di Robert Schumann.

I meravigliosi Gesänge der Frühe Op. 133 sono l’ultima opera che Schumann stesso preparò per la stampa e anticipano di pochissimo quanto avvenne il 24 febbraio 1854, ossia quando si gettò nelle acque gelide del Reno nel tentativo di abbracciare la morte. Il fulcro genetico di questo capolavoro è dato dalla poesia di Hölderlin e dalla figura di Diotima, tanto è vero che il manoscritto dei Gesänge der Frühe è intitolato A Diotima, alla quale il compositore di Zwickau volle accostare la sua dimensione psichica di quel momento (i due cupi versi finali della poesia An Diotima (Il tuo sole, il tempo più bello, è tramontato/E nella notte gelida ora litigano gli uragani devono  avere avuto un lugubre significato premonitore per Schumann), anche se poi nella versione stampata la dedica a Diotima fu sostituita a favore della poetessa Bettina von Arnim, che fu poi tra le pochissime persone che andarono a trovare Schumann, esattamente nel maggio del 1855, durante la sua reclusione nella casa di cure mentali a Endenich. 

In uno dei suoi romanzi più celebri, Il soccombente, lo scrittore austriaco Thomas Bernhard fa proferire al protagonista che Glenn Gould era stato tra i pianisti del Novecento il «più lucido dei folli» e in un certo senso anche l’approccio generale della lettura fatta da Burkhard Schliessmann per il suo Schumann si avvale di tale espressione. Per il pianista bavarese eseguire le opere del compositore di Zwickau significa dare una forma logica, netta, precisa a una materia espressiva a dir poco dilaniante nella sua complessità instabile e umorale. D’altronde, non dobbiamo dimenticare come dietro Schumann ci sia sempre l’ombra di Bach, al quale il musicista romantico si rivolge incessantemente per governare il proprio eloquio appassionato e disperato. Allo stesso modo, Schliessmann affronta l’esecuzione della Kreisleriana, in cui il senso ritmico, attraverso un’applicazione agogica che soventemente si fa convulsa, tende a disciplinare la dimensione sprofondante di tutta la composizione, quel “scendere nel gorgo muti”, attraverso la corazza data dalla quadratura del cerchio, perché la forma, persino per il più romantico dei romantici, non può e non dev’essere disattesa. 

È ovvio che, con tali premesse, l’interpretazione della Fantasia in do maggiore per Schliessmann diventi il “manifesto programmatico” della sua concezione di Schumann. La “follia” al servizio di una lucidità che si spinge al punto tale di anticipare di fatto il famoso Tristan-Akkord wagneriano contrassegnato da un accordo sospeso al termine della tonalità in do maggiore che dà inizio al primo tempo Durchaus phantastisch und leidenschaftlich vorzutragen, anche se l’arcata generale che l’artista bavarese confeziona su tutta questa pagina è equamente distribuita nell’esaltazione del secondo e del terzo tempo, considerati a lungo più “deboli” rispetto allo strabordare armonico del primo tempo. Riflessione e audacia, trasporto e rattrappimento, respiro che finisce in iperventilazione, ma sempre con un suono, un timbro eminentemente elegante, persino “classico”, intriso di nobiltà, di distacco ultraterreno, come si può notare nell’incipit del secondo tempo. 

La delicatezza, l’accortezza, anche una malcelata tenerezza rappresentano il DNA che Schliessmann conferisce alla sua lettura dell’Arabeske, e il suo rallentare su nuvole di sospensione fanno virare questa pagina nei meandri di un mondo onirico, come se l’ascoltatore più che ascoltare vedesse il progressivo dipanarsi del materiale sonoro. Da notare come l’artista bavarese abbia voluto ripresentare nel secondo SACD un’altra esecuzione della stessa Op. 18, offrendo una lettura ancora più diafana, più intima, maggiormente trasognata nella sua essenza, come a voler ribadire che la musica schumanniana tende incessantemente a modificarsi, a cangiare nelle sue peculiarità per via del suo perenne sentore umorale.

La sala dei Teldex Studios di Berlino dove si è svolta la registrazione.

Attraverso l’interpretazione dei Fantasiestücke Op. 12 Burkard Schliessmann penetra nei meandri del fiabesco, in cui il primo degli otto brani della raccolta, Des Abends, rappresenta la porta d’ingresso. E anche nei momenti più irruenti, come l’Aufschwung, vi è sempre nel suo pianismo una patina di evidente irrealtà, in cui sentori onirici, fantasmagorici, illusori alimentano la materia musicale. Ma questo continuo richiamo all’irrazionalità, al connotato fantastico vengono resi dal pianista bavarese attraverso una forma perfettamente dominata, con le linee marcate nettamente, spesse quel che basta per trattenere i colori e le sfumature. E lo stesso vale per quei brani, come Grillen e il conclusivo Ende von Lied, in cui le pennellate umoristiche sono rese con un infantile (nel senso schumanniano del termine, ovviamente) entusiasmo che si rende palpabile, trepidante (e ciò grazie a un sapiente utilizzo della pedaliera).

Tra gli otto Fantasiestücke dell’Op. 12 e i tre dell’Op. 111 ci sono quattordici anni di distanza ma, sotto un certo punto di vista, la temperie, l’ingenuità genuina e una sedimentazione giovanile annidata nell’animo del loro autore presenti in entrambe le raccolte, non li fanno minimamente avvertire. E Schliessmann restituisce con la dovuta freschezza, con quell’irrequietezza magica quanto si annida anche nell’Op. 111, senza però dimenticare anche un timbro che va a farsi vaporoso in quei momenti di pausa, di improvvisa riflessione, così come l’inevitabile strato temporale che, volente o nolente, va a depositarsi nelle nostre vite. 

L’accurata e scrupolosa microfonatura effettuata per catturare le interpretazioni di Burkard Schliessmann.

La disciplina del gesto, il suo rigore traspaiono poi nei Nachtstücke, in cui il magistero del passato, dei grandi del passato (Bach su tutti) viene evidenziato con sapienza e partecipazione, anche grazie a un dosaggio timbrico che è lezione di stile; ciò coinvolge anche l’apporto contrappuntistico, la costruzione polifonica che va ad innevarsi perfettamente nell’arcata (penso al secondo brano, il Markiert und lebhaft). Certo, apparentemente ci sarebbe da domandarsi che cosa ci possa essere di “notturno” in questi quattro brani, tutti in tonalità maggiore, ma in realtà qui Schumann (e parallelamente Schliessmann) ci fanno comprendere come le ore notturne per il poeta, per il musicista, per entrambi, possano essere foriere di “produttività”, di articolazione intellettuale, di fervore creativo.

Ovviamente, il pianista bavarese non avrebbe potuto concludere questo excursus nella “folle lucidità” schumanniana se non con gli straordinari Gesänge der Frühe, saggio esemplare dell’ultimo pianismo del genio di Zwickau, dove la modernità, l’avvenire del pianismo si stemperano in un rigore classico, in modo da far “incastrare” idealmente i cinque brani che compongono il ciclo, ma che allo stesso tempo trasformano questo capolavoro pianistico in un vero e proprio rompicapo interpretativo per via delle sue molteplici sfaccettature armoniche che vanno a mutare incessantemente il costrutto espositivo. E qui Schliessmann è quantomeno “olimpico”, capace di sbrigliare, di sciogliere le asperità e i nodi che sotto le sue dita vengono sempre al pettine, decodificando i mutamenti con un’agogica che è squisitamente elastica, duttile, cangiante. Tutto questo senza sacrificare l’espressività, il grido di dolore che si alza muto e al quale Schumann affida il suo ultimo strazio, prima che la sua lucidità assoluta, quella che appartiene solo ai folli geniali, lo consegni alla gogna di Endenich. 

Burkard Schliessmann, al centro, con Daniel Brech, a sinistra, che ha messo a disposizione il magnifico Steinway utilizzato per la registrazione, e con il produttore di registrazione Julian Schwenkner, a fianco.

Da un punto di vista tecnico, la registrazione di questi tre SACD rappresenta una vera e propria impresa, a cominciare dalla scelta dello strumento, uno straordinario Steinway D-612236, dotato alternativamente di due tastiere, ciascuna con diversi sonorità, suoni e intonazioni. Una tastiera ha prodotto un suono brillante e luminoso, mentre l’altra ha prodotto un suono caldo e scuro. Il produttore di registrazione Julian Schwenkner, insieme con l’ingegnere del suono Jupp Wegner, ha utilizzato una tecnologia all’avanguardia, utilizzando quattordici microfoni (tra cui dei microfoni a nastro Coles 4038 e Royer R121, così come dei leggendari microfoni a valvole Neumann M49) per offrire un’esperienza Dolby Atmos realizzata nei Teldex Studios di Berlino. Così, l’impostazione tecnica e l’attrezzatura sono state fondamentali per catturare le complessità delle composizioni di Schumann durante il processo di registrazione.Chi possiede un impianto d’ascolto di qualità, non potrà non apprezzare la notevolissima velocità dimostrata dalla dinamica ma, allo stesso tempo, anche la naturalezza che riesce a sprigionare, fino a restituire le più tenue sfumature, così come la differenza del suono manifestata dall’uso alternato delle due tastiere. Il parametro del palcoscenico sonoro riesce a rendere l’immagine dello strumento nell’ambienza dello studio, non solo calandolo nella sua ampiezza, ma facendo percepire chiaramente lo spazio che si trova intorno al pianoforte, il quale, anche per via della sofisticata microfonatura, risulta essere ravvicinato, senza compromettere l’irradiazione del suono, che va a riempire correttamente e magnificamente tutto l’ambiente di ascolto, quindi ben oltre la presenza dei diffusori. La perfetta microfonatura è andata poi a gestire il modo a dir poco ottimale l’equilibrio tonale, con la possibilità di discernere sempre, compresi i passaggi in fff e in ppp, il registro medio-acuto e quello grave, cosa che nella musica pianistica di Schumann è di fondamentale importanza, con un’attenzione assoluta dei relativi scontorni. Da ultimo il dettaglio, il cui elemento tattile raggiunge livelli realmente audiofili, con una percezione fisica del pianoforte di grandissimo impatto, per cui si avverte distintamente una dimensione tridimensionale dello strumento, oltre a permettere un ascolto che non conosce mai fatica, un aspetto assai importante questo, se si tiene conto che complessivamente oltrepassiamo le due ore e mezza di ascolto.

Andrea Bedetti

Giudizio artistico 4,5/5

Giudizio tecnico 5/5

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