Non deponeva neppure a suo favore un caratteraccio proverbialmente litigioso ed un linguaggio da portuale sempre in rotta di collisione con l’universo intero.
Nella vita artistica di Esther Phillips c’è una beffarda coerenza da parte di un destino cinico e baro che forse ha fatto si che non fosse mai riconosciuta come una delle più grandi voci della black music tout-court. Il motivo va ricercato nella sua ecletticità: «Non mi piace essere etichettata come una cantante blues e nemmeno jazz. Sono una cantante e basta e canto le canzoni che mi piacciono!».
Precocissimo l’ingresso di Esther Mae Jones music business: poco più che tredicenne vinse una competizione amatoriale cantando un cavallo di battaglia di Dinah Washington, «Baby Get Lost», quindi fu prontamente inserita nel suo ensemble da Johnny Otis, soprannominato il «Padrino del Rhythm and Blues», il quale la ribattezzò «Little Esther». Si trovò cosi ad incidere per la Modern e la Savoy, tanto che intorno al quindicesimo compleanno (era nata il 23 dicembre 1935) aveva già una mezza dozzina di canzoni all’attivo finite nella Top Ten R&B, fra le quali le suadenti «Double Crossing Blues» (con i Robins), «Cupid’s Boogie» e «Mistrusting Blues» (entrambi i duetti vennero realizzati con Mel Walker). Il suo cammino appariva inarrestabile, tanto che continuò a registrare senza sosta per la Federal: circa trentadue titoli, fra il 1951 e il 1952. Per contro il successo (si pensi alla spumeggiante «Ring-A-Ding Doo», vera hit da alta classifica) sembrava l’avesse già abbandonata, a ciò si aggiunse un rovinoso malinteso per questioni finanziarie con Otis, che lei insultò pesantemente e pubblicamente credendosi sfruttata, così a malincuore il suo pigmalione si vide costretto a licenziarla. In realtà i soldi, che Otis le doveva, erano stati regolarmente versati alla madre che le faceva da manager e sfruttava a suo vantaggio le doti canore della figlia minorenne.
Nel 1954 tornò a Houston per vivere con il padre, avendo già sviluppato una predilezione per le tentazioni della vita on the road; alla fine degli anni ’50, i suoi esperimenti con le droghe pesanti si erano trasformati in una vera e propria dipendenza dall’eroina. Il resto degli anni Cinquanta la vide soggiornare per tre infruttuosi anni alla Decca e per altri tre, altrettanto sfortunati, di nuovo alla Savoy. Nemmeno una breve, ma intensa, permanenza alla Warwick le restituì la perduta popolarità, soprattutto perché gli eccessi alcolici e la dipendenza dall’eroina non le giovavano. Non deponeva neppure a suo favore un caratteraccio proverbialmente litigioso ed un linguaggio da portuale sempre in rotta di collisione con l’universo intero. Sembrava che tutto fosse perduto, ma forse il meglio doveva ancora arrivare. A corto di soldi, Little Esther lavorò in piccoli nightclub del Sud, costellati da periodici ricoveri in ospedale a Lexington, dovuti all’uso smodato di narcotici. Nel 1962, mentre cantava in un club di Houston, fu notata dalla futura star del country Kenny Rogers, che la fece firmare per l’etichetta Lenox del fratello. Nel 1962 «Release Me» segnò la sua nuova identità artistica: non più «Little Esther», ma Esther Phillips, inaugurando così tre lustri memorabili ed aggredendo contemporaneamente le classifiche R&B, pop e country. Sulla scia del rivoluzionario successo country-soul di Ray Charles, «I Can’t Stop Loving You», «Release Me» divenne un successo internazionale. Tornata in auge, la Phillips registrò un album con lo stesso nome, ma la Lenox nel 1963 finì in bancarotta. Ciononostante, grazie al suo recente successo, Esther riuscì a farsi notare dall’Atlantic, che inizialmente la fece registrare in differenti contesti musicali per verificare in quale nicchia potesse collocarla. Alla fine si decise di valorizzare il suo lato più sofisticato facendole incidere una raccolta di standard jazz e pop a tinte blues. Tante interpretazioni sensazionali caratterizzeranno il decennio con «No Headstone On» e «My Grave» di Charlie Rich che ribadì la fascinazione per Nashville a una «And I Love Him» che le procurò un invito in Gran Bretagna da parte dei Beatles, anche per una «As Tears Go By» cento volte superiore a quella di Marianne Faithfull, così come per l’omaggio-risposta a Percy Sledge di «When A Woman Loves A Man» o «Try Me» da fare invidia a James Brown e «Crazy Love» che sembrava scritta per lei da Van Morrison; perfino «Tonight, I’ll Be Staying Here With You» che, da sommessa e cervellotica nel canone dylaniano, divenne, fra le sue spire vocali, una una corroborante pozione di energia soulful.
Alla fine del 1969, da un concerto dal vivo al club Pied Piper di Freddie Jett nacque l’album «Burnin’», che verrà acclamato come uno dei lavori più riusciti e coesi della carriera della cantante Texana. Nonostante il successo, l’Atlantic pretese che la Philips registrasse brani pop più melensi e meno grintosi: dopo alcune prove vagamente scialbe, il divorzio fu inevitabile. Nel 1971, Esther firmò con l’etichetta Kudu del produttore Creed Taylor, una filiale della CTI. Il suo debutto con l’etichetta, «From A Whisper To A Scream», venne pubblicato nel 1972 con significative vendite e recensioni alquanto positive, in particolare per la sua interpretazione dello struggente racconto di Gil Scott-Heron sulla dipendenza da eroina, «Home Is Where the Hatred Is». Negli anni successivi Esther registrò altri album per la Kudu godendo di una popolarità tra le più prolungate della sua carriera, esibendosi in locali di alto profilo e in numerosi festival jazz internazionali. La sua voce possedeva una qualità idiosincratica e nasale che le valse spesso paragoni con Nina Simone, sebbene lei stessa annoverasse la succitata Dinah Washington tra le sue principali fonti di ispirazione.
Finalmente, nel 1973, fu premiata con un Grammy per «Young, Gifted And Black». In quell’occasione Aretha Franklin consegnò la statuetta alla Phillips dicendole: «La meriti di più tu!». L’oggetto dell’ammirazione di Lady Soul era riferito a «From A Whisper To A Scream». Sarà, però, proprio la primigenia musica destinata alle piste da ballo a renderle giustizia ed a trasformarla in un personaggio davvero popolare. Esther cavalcò con disinvoltura la nascente voga dei cantanti R&B di trasferirsi al reparto disco music, così nel 1975, con una ritmata ed ammiccante ripresa del gioiello di Mamma Dinah, «What A Difference A Day Makes», conquistò le piste da ballo e le charts di mezzo mondo. Nel 1977 la Phillips lasciò la Kudu per la Mercury, ottenendo un contratto che le garantiva il massimo controllo creativo sulle sue produzioni. Pubblicò quattro album per l’etichetta, ma nessuno eguagliò il successo commerciale ottenuto con l’etichetta collaterale di Creed Taylor. Ci saranno ancora isolate prove di genio, come il rap «Candy» e «Crazy», dove sembrava incarnare una versione nera ed al femminile di Willie Nelson. Così, dopo «A Good Black Is Hard to Crack» del 1981, si ritrovò senza contratto discografico. Il suo ultimo singolo a lambire la classifica R&B fu «Turn Me Out» del 1983, un pezzo unico per l’etichetta Winning. Sfortunatamente, la sua salute cominciò presto a deragliare, combinando e sommando la pregressa dipendenza dall’eroina ad un più recente sodalizio con gli alcoolici, al punto che la vita spericolata avrebbe infine, ma troppo presto, presentato il conto: Esther Phillips morì prematuramente 7 agosto 1984 a soli 59 anni.
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