In questo suo nuovo contributo alla scoperta dei grandi compositori del passato, Giovanni Acciai ci parla di questo musicista campano, che operò tra la seconda metà del Seicento e i primi anni del secolo successivo, prendendo come esempi della sua fulgida arte i Motetti pastorali per la solennità del Santo Natale, da lui rinvenuti nell’archivio musicale della Congregazione dell’Oratorio filippino dei Girolamini di Napoli e che ha eseguito recentemente nel corso del Napoli Musica Sacra Festival con l’ensemble Ars Nova Cantandi e l’organista Ivana Valotti
Durante il Seicento e il Settecento, ovvero durante i due secoli più sfarzosi della dominazione spagnola e asburgica, Napoli era universalmente considerata il centro nevralgico e propulsivo di un’attività musicale di altissimo livello; la città più popolosa d’Europa, la ciudad la mas opulenta de toda Italia. Con i suoi cinquecentomila abitanti, superava di gran lunga Londra e Parigi ed era seconda nel mondo soltanto a Costantinopoli.
Oltre che dai teatri di corte e da quelli privati, la committenza musicale era costituita in grande misura dalla massiccia richiesta di musica per i servizî liturgici che si tenevano nelle numerosissime chiese, cappelle e monasteri della città. Gli edifici religiosi svolgevano, infatti, un ruolo determinante in tal senso, incentivando la richiesta pressante di musica sacra da destinare sia alla ritualità ordinaria sia a quella straordinaria, rappresentata dalle feste dedicate al santo patrono o ai momenti più solenni della liturgia della Messa cantata. Non a caso, i forestieri che in quegli anni visitavano Napoli, rimanevano colpiti non soltanto dai ricchi apparati ornamentali, dallo splendore dei paramenti, dal fasto dei cortei, dall’ostentazione della ricchezza ma, soprattutto, da questo incessante tripudio sonoro, da questo inarrestabile flusso di musica appositamente scritta per le diverse occasioni devozionali dai migliori compositori del regno.

Al di sopra di questa lussureggiante attività, si poneva la corte del viceré, con i suoi rituali, con le sue cerimonie solenni, con le sue liturgie spettacolari, con i clangori sonori della sua prestigiosa cappella musicale, fondata nel 1555 da Pedro de Toledo (1480-1553) proprio con lo scopo di accompagnare le cerimonie religiose (ma anche mondane) che implicavano la presenza della corte medesima. E la corte dei viceré di Napoli era di sicuro la più ricercata, la più grandiosa, la più fastosa tra quelle appartenenti alla corona del re di Spagna. Dobbiamo allo scrittore francese François Maximilien Misson (1650?-1722), autore del suo celebre Voyage d’Italie avec un mémoire contenant des avis utiles à ceux qui voudront faire le mesme voyage, una testimonianza diretta di questa intensa attività legata alla pratica musicale delle istituzioni religiose napoletane, quando afferma che «ce qui nous a paru le plus extraordinaire à Naples, c’est le nombre et la magnificence de ses églises; je puis vous dire sans exagérer, que cela surpasse l’imagination».
A trarre i maggiori benefici da questa incessante richiesta di musica, erano senza dubbio i numerosi compositori che operavano a Napoli in quegli anni, i quali potevano contare su un’offerta di lavoro pressoché illimitata, per non dire, inesauribile. Si spiega in tal senso il continuo passaggio da un incarico all’altro che maestri di cappella, strumentisti, cantanti compivano alla ricerca della migliore retribuzione e del posto di lavoro di maggior prestigio. I musicisti più autorevoli e, dunque, quelli più richiesti, riuscivano a svolgere, contemporaneamente, diversi incarichi e a mantenere il proprio ruolo principale, senza soverchie difficoltà.

Nel corso del Seicento e del Settecento, sono questi straordinari artisti a creare il mito di Napoli come capitale della musica in Europa e della sua Scuola napoletana come esempio di uno stile unitario, di un’identità di linguaggio inconfondibile, facilmente identificabile, di un metodo d’insegnamento oggetto di emulazione, ovunque. Basti pensare che un personaggio come Jean-Jacques Rousseau, protagonista indiscusso della scena musicale di quel tempo, nel suo celebre Dictionnaire de musique (Paris, Chez la Veuve Duchesne, 1768) esortava con veemenza «a correre, a volare a Napoli per ascoltare i capolavori di Leo, di Durante, di Jommelli, di Pergolesi», onde farsi un’idea di quel che volesse veramente dire essere un genio musicale.
D’altra parte, a Napoli, quella del musicista era considerata una professione ambita, sicura e ricercata che si raggiungeva frequentando uno dei quattro Conservatorî attivi in città. E per essere ammessi a frequentare queste scuole altamente specializzate, nelle quali insegnavano i migliori compositori e strumentisti in attività, bisognava dimostrare di possedere attitudini musicali non di poco conto. Dopo una media di una decina d’anni di studio, chi completava il cursus studiorum, entrava a far parte di un’élite di musicisti fra i più preparati e apprezzati del tempo.

Nonostante l’importanza e la qualità rimarchevole del suo lascito creativo, Antonio Domenico Nola rimane una figura misteriosa, per non dire oscura, nel firmamento musicale della Napoli fra Sei e Settecento, a causa della scarsità delle notizie biografiche e professionali che di lui ci sono rimaste. Purtroppo, non si tratta di un caso sporadico e isolato, ma di una situazione ben più vasta e complessa, che interessa una fitta schiera di compositori napoletani, operanti nelle istituzioni pubbliche (nei quattro conservatorî, nelle chiese e nelle cappelle ecclesiastiche) e in quelle private (la cappella reale e quelle della nobiltà partenopea) e che rende impervio (ma, forse, sarebbe meglio dire disperato) il lavoro di ricostruzione della figura e dell’opera di questi personaggi.
Compositori, giova pur sempre ricordarlo che, importanti all’epoca nella quale vissero e operarono, attendono ancor oggi di essere riscoperti e rivalutati in maniera adeguata, sebbene in questi ultimi anni la ricerca musicologica abbia compiuto significativi passi in avanti e molti dei tesori musicali sepolti negli archivi e nelle biblioteche partenopee e d’ogni altra parte d’Italia e d’Europa, sia stata riportata in luce attraverso edizioni musicali, proposte discografiche ed esecuzioni concertistiche.

Al pari del suo conterraneo Giovanni Domenico del Giovane da Nola (1510 ca.-1592), esponente di rilievo di quel genere di polifonia vocale profana, d’ispirazione popolare, che nel corso del secolo XVI aveva conosciuto momenti di grande splendore, anche Antonio Domenico era di Nola, un’antica cittadina, a est di Napoli e da essa distante una trentina di chilometri, dove era nato nel 1642.
Nulla conosciamo della sua famiglia, a parte il nome dei suoi genitori (Tommaso Nola e Laura Rossi), né dell’iter scolastico compiuto dal piccolo Antonio Domenico negli anni della sua formazione. Sappiamo soltanto che all’età di dieci anni (1652), era stato ammesso a frequentare il Conservatorio della Pietà dei Turchini, allora diretto da Giacinto Anzalone (1606-1656). Ma sarà sotto l’esperta guida di Giovanni Salvatore (inizio sec. XVII-1688?), direttore della scuola dal 1662 al 1673, che il nostro giovane compositore porterà a compimento la sua preparazione musicale e porrà le basi per una luminosa carriera musicale se non appariscente e «mondana», come quella di molti suoi coetanei e conterranei, di sicuro solida e di qualità, sotto il profilo della competenza tecnica e della caratura artistica.

Dalle scarne fonti dell’epoca, apprendiamo che il 28 giugno 1670 Nola lasciò i Turchini per andare a occupare il posto di organista della Cattedrale di Napoli. Risale a questo periodo il suo sodalizio artistico e spirituale con la Congregazione dell’Oratorio filippino dei Girolamini, una delle più importanti istituzioni religiose della città, ma anche un punto di riferimento imprescindibile per la committenza e per la fruizione di musica sacra napoletana di quel periodo. Molti dei maestri che per tutta la vita prestarono servizio presso l’Oratorio (è il caso di Antonio Domenico Nola), donarono ai padri le loro opere che andarono a formare il nucleo costitutivo dell’archivio musicale della Congregazione, il secondo fondo musicale più importante di Napoli, dopo quello conservato nel Conservatorio di San Pietro a Majella. Non è da escludere l’ipotesi che la frequentazione dell’ambiente filippino abbia esercitato sul nostro compositore una forte attrazione spirituale, al punto da indurlo a farsi sacerdote e a diventare così parte attiva della Congregazione oratoriale. E, pur in mancanza di documenti attestanti l’avvenuta ordinazione sacerdotale, sui manoscritti musicali autografi e sulle copie delle sue opere, il nome Nola è sovente preceduto dal caratteristico «don», predicato d’onore proprio dei chierici regolari e, in genere, di tutti gli ecclesiastici secolari.
Durante la sua permanenza nella casa dell’Oratorio che si protrasse per poco più di trent’anni (dopo il 1701 non si trova più alcuna notizia a lui riconducibile), Nola non si limitò soltanto a comporre una quantità considerevole di brani (quasi seicento i titoli finora catalogati), per ogni tipologia di organico vocale e strumentale (dalle due voci fino ai quattro cori con strumenti e basso continuo) e per ogni esigenza imposta dal calendario liturgico (messe, salmi, inni, brani per l’Ufficio divino, per le festività dei santi e per quelle mariane), ma provvide anche a realizzare, nel 1674, una «Raccolta di composizioni per l’esercizio della chiesa dei Filippini: messe, mottetti, salmi, inni, etc., etc., con alcune di altri autori così del XVI come del XVII secolo […]». In totale, si tratta di ben quarantasei volumi, molti dei quali andati perduti o non ancora valutati in maniera approfondita in tutta la loro imponente vastità.

Nella «religiosissima» Napoli del Seicento, la diffusione delle pratiche liturgiche e devozionali, insieme con la venerazione della Vergine Maria e dei sette santi patroni della città, è capillare e ovunque attestata. Non vi è chiesa, grande o piccola che sia, o altra istituzione religiosa o nobiliare che non abbia una cappella musicale o, almeno, un organista a servizio, con funzione anche di direttore di coro, onde garantire un servizio religioso adeguato. Di qui la richiesta pressante di musica sacra da destinare sia alla ritualità ordinaria sia a quella straordinaria, rappresentata dalle feste patronali e dai momenti più solenni del calendario liturgico. Fra questi, senza dubbio, il Natale (e la Pasqua), con l’adorazione di Gesù nella culla e il culto del presepio, godeva di una venerazione, di un fasto celebrativo, di una predilezione senza eguali che coinvolgeva un’enorme massa di ecclesiastici e di fedeli e una quantità impressionante di musica appositamente scritta per l’occasione.
I Motetti pastorali per la solennità del Santo Natale di Antonio Domenico Nola, per quattro voci (Canto, Alto, Tenore e Basso) e Basso continuo, sui quali intendo qui richiamare l’attenzione dei lettori, sono stati da me rinvenuti nell’archivio musicale della Congregazione dell’Oratorio filippino dei Girolamini di Napoli. Essi sono stati eseguiti per la prima volta in epoca contemporanea, dopo quattro secoli di immeritato oblio, a Napoli, nel novembre di quest’anno, nell’ambito della terza edizione di Napoli Musica Sacra Festival, dal Collegium vocale «Nova Ars Cantandi», da me diretto, con Ivana Valotti all’organo.

Questa silloge, vivida testimonianza dell’apparato musicale e canoro che adornava i riti della vigilia e del giorno di Natale, si compone di una trentina di brani, articolati in sette parti e intonati su testi latini tratti, prevalentemente, dalla Bibbia, dal Vangelo di san Luca, dalla liturgia natalizia, ma anche usciti dalla penna di un anonimo poeta se non dello stesso don Antonio Nola. Testi che, in ogni caso, testimoniano della vasta competenza esegetica e liturgica del loro autore e della sua abilità nel saperli disporre in modo da ricavarne un’appropriata trama drammaturgica.
Ci troviamo di fronte a un tessuto musicale di grande impatto emotivo, condotto sul filo di una narrazione poetica sempre tesa ad imprimere alla parola traslata in musica il massimo vigore espressivo. L’opera è strutturata nella forma dell’oratorio latino, ampiamente diffuso a Roma e a Napoli, nelle congregazioni dei Padri filippini. Brevi cammei solistici, con funzione di recitativi ariosi, si alternano a trii e a quartetti vocali in assetto omoritmico o in sapida polifonia. Non v’è dubbio che i momenti più suggestivi ed emozionanti dei Motetti pastorali siano quelli nei quali il nostro autore evoca il suono delle zampogne e l’eco di melodie popolari della fulgida tradizione napoletana, fra le quali non si fa fatica a riconoscere la celeberrima Quanno nascette Ninno, di Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787).

Una pienezza di suoni familiari, una tensione affettiva che viene da lontano, ma che ancor oggi risuona viva e attuale perché messaggera di bellezza e di verità. La narrazione della Natività è di continuo esaltata attraverso un corredo sonoro che lascia attoniti per la sua dirompente forza evocativa, per la sua sorprendente capacità rappresentativa. D’altra parte, Antonio Domenico Nola è il compositore che, forte dell’insegnamento ricevuto da Giovanni Salvatore, ben compendia in sé quelli che sono i tratti caratteristici e distintivi dello stile napoletano a cavaliere dei secoli XVII e XVIII, sul versante della musica sacra e tutti li sublima nella sua arte di eccellente qualità. La sua grande perizia contrappuntista è sempre posta al servizio dell’intonazione espressiva della parola e alla ricerca del più pertinente figuralismo retorico, destinato musicalmente a rappresentarla. Mai sfoggio di erudizione tecnica fine a sé stessa, ma tensione costante verso la comunicazione affettiva del testo sacro intonato.

In questo contesto vanno considerate con attenzione le scelte di Nola riguardanti la distribuzione delle parti dei suoi Motetti, nell’àmbito dell’ordito polivoco; l’esaltazione di specifici ruoli timbrici affidati a singole voci per la rappresentazione simbolica del portato emozionale delle parole latine; l’ideazione melodica sempre chiara, incisiva, elegante, sorprendente, caratterizzata da una vena inventiva e da una volontà di comunicazione espressiva inesauribili. La risonanza vocale è satura di tensioni che conferiscono alle singole parti di questo mirifico affresco natalizio una temperatura emozionale sempre elevata. L’urgenza di imprimere alla parola traslata in musica il massimo vigore espressivo, spinge il nostro autore a cercare soluzioni originali anche nell’alveo dell’orchestrazione vocale, qui tendente, come già s’è detto, allo smembramento della compagine polifonica in assetti vocali solistici o, comunque, di poche voci dialoganti fra loro. La cantabilità delle linee è fluente eppure intensa, intrisa com’è di quella vena melodica sempre coinvolgente, patrimonio comune di molti compositori della gloriosa Scuola musicale del Seicento e del Settecento napoletano. Infine, tutta la raccolta è pervasa da questa magia di suoni, da questa beatitudine di canti, da questa tensione affettiva che sembra non aver mai fine.Un’arte compositiva, dunque, quella di Antonio Domenico Nola, sempre condotta sul filo di una consapevolezza dello stile e di una conoscenza della parola divina volta a esaltare il magistero della Chiesa che lascia sorpresi e ammirati allo stesso tempo. Un’arte che il nostro maestro sembra voler riassumere nell’espressione ad majorem Dei gloriam che sovente egli pone a suggello delle sue opere sacre, al pari di tanti altri suoi colleghi e perfino del sommo Bach e alla quale sembra voler attribuire un significato particolare, se non misterioso.
Correlati
Iscriviti alla nostra newsletter per rimanere sempre aggiornato.