Urania Records ha recentemente pubblicato un CD con alcune Sonate e un Mottetto sacro, in prima assoluta mondiale, di questo compositore settecentesco friulano, la cui opera è tuttora conservata a livello di manoscritti, ma che merita di essere divulgata e ascoltata per comprendere i mutamenti stilistici dal barocco maturo alle inquietudini sonore che portano all’era classica
L’ho espresso a iosa e lo ripeto ancora una volta: il detto che afferma che il tempo è galantuomo, vale anche per la musica, nel senso che il procedere temporale dei secoli fa debita pulizia tra ciò che vale e ciò che non lo è, permettendo così di prendere in considerazione e ricordare compositori e opere che riescono a superare il setaccio implacabile del trascorrere del tempo stesso. Questo perché la storia della musica colta occidentale è un crogiuolo senza fine di musicisti che si sono alternati e succeduti, lasciando una traccia fatta di sabbia: per alcuni la sabbia si è poi trasformata in cemento, per molti altri, invece, è restata sabbia e le onde del tempo hanno poi cancellato di conseguenza il tutto.
Però…, c’è un però, poiché anche il tempo e, parallelamente, la memoria degli uomini possono essere fallaci, in quanto il setaccio temporale a volte trattiene nel bidone del dimenticatoio autori e opere che immeritatamente, nella rivisitazione dei posteri, si vedono eclissati e abbandonati storicamente al loro infausto destino. Ebbene, una recentissima produzione discografica pubblicata dall’etichetta Urania Records ci permette adesso di andare a recuperare un frammento artistico rimasto incastrato nella fitta rete di questo setaccio temporale. L’autore in questione è Pietro Alessandro Pavona, nato nella meravigliosa e utopica città-fortezza di Palmanova, in provincia di Udine, nel giugno del 1728 e morto nell’ottobre del 1786, a soli cinquantotto anni, a Manzano, sempre nel territorio udinese.
L’attività artistica e professionale di Pavona, però, si svolse interamente in una terza località friulana, una delle più belle e ricche testimonianze della straordinaria epopea longobarda, ossia Cividale del Friuli, quando, a partire dal 1749, entrò a far parte del collegio capitolare di S. Maria Assunta. Le sue doti di brillante organista gli permisero, due anni più tardi, allorquando morì Giuseppe Zanchetti, di assumere l’incarico di organista titolare e, sempre tre anni dopo, di ottenere il posto di maestro di cappella occupato fino a quel momento da Geminiano Santini. Da allora, Pavona poté consacrarsi interamente alla vita musicale e liturgica inerente non solo alle attività del duomo di Cividale, ma anche alla didattica, alla composizione e alla direzione di musica nelle principali festività liturgiche o nelle ricorrenze locali, come il giorno del patrono San Donato e dell’Assunta, oltre alle funzioni nelle parrocchie urbane (a titolo di esempio, le vestizioni di monache in S. Maria in Valle, di antifone per i conventi di S. Chiara e S. Francesco, nelle processioni cittadine e a Castelmonte).
Al di là di una scarnissima biografia, che non ha certo aiutato a conservare la memoria di questo autore, resta la sua produzione musicale, celata tutt’oggi manoscritta autografa proprio nella parrocchia di S. Maria Assunta di Cividale del Friuli, nell’Archivio musicale capitolare, anche se pochissime riportano il suo nome, senza contare che dove esso appare, può essere considerato un infausto frutto di aggiunte postume di altra mano; ma, a livello musicologico e filologico, dalla calligrafia e dalle datazioni è comunque possibile rilevare elementi certi per un’attribuzione che non può essere smentita. Così, il corpus compositivo di Pavona comprende essenzialmente e comprensibilmente musica sacra (messe e sezioni di messe, messe da requiem, inni, salmi, cantici, litanie, antifone, vespri, compiete, mottetti, lamentazioni a quattro voci miste concertate con orchestra o archi e organo o basso continuo), mentre nel campo della musica profana, le Sonate a tre, le sinfonie e i divertimenti scritti di suo pugno potrebbero anche essere copie del lavoro di altri compositori, il che rende quasi impossibile verificare la loro autenticità a causa della sovrabbondanza che simili forme musicali ebbero nella seconda metà del Settecento.
Le dotte e argomentate note di accompagnamento al disco dell’Urania Records, stilate da Elia Pivetta, fondatore e direttore artistico dell’Accademia Palatina, gruppo strumentale formato da giovani musicisti friulani e veneti, ci permette di comprendere meglio la scelta del programma che è racchiuso sotto il titolo di Fremens unda Furibonda – Organ and Sacred Music, e che vede la partecipazione dell’organista Alberto Gaspardo, del soprano Cristina Mosca, oltre ai violinisti Claudio Rado e Mauro Spinazzè, e Mauro Zavagno al violone. Seguendo quanto enunciato dal titolo, quindi, possiamo avere un assaggio della produzione organistica dell’autore friulano, dato da sette Sonate, una Pastorale e una Sinfonia, e di quella propriamente sacra, rappresentato da un mottetto in quattro tempi, Quando venit e torrente, per soprano, due violini e basso continuo, e da un pizzico di contemporaneità che va a chiudere la tracklist, ossia una Toccata per organo in tre tempi di un altro musicista friulano, Renato Miani, che ha avuto modo di studiare con Daniele Zanettovich al Conservatorio di Udine, il quale ha voluto esaltare il timbro e la resa acustica dell’organo costruito da Gaetano Callido e la Chiesa di Santa Maria Maggiore di Dardago, in provincia di Pordenone, dove è stata effettuata la registrazione.
L’importanza dell’opera di Pietro Alessandro Pavona risiede nel fatto che questo musicista rappresenta il tipico esempio creativo di come il vento di metà Settecento stava mutando il proprio indirizzo stilistico in seno al genere della Sonata. A tale proposito, aggiungo due paroline a favore dei non addetti e avvezzi alla materia: il termine “sonata”, all’epoca di Pavona, non aveva ancora il significato attuale che fa preciso riferimento a un genere cameristico, ma riguardava qualcosa di più “fluttuante” e vago; prima di tutto voleva dire un “suonare qualcosa”, sia in ambito sacro, sia profano, con l’organo o il clavicembalo o, in seguito, con il fortepiano. Inoltre, siccome la “Sonata” poteva rientrare in un contesto di puro intrattenimento occasionale, in diverse circostanze era frutto di mere improvvisazioni, che potevano essere fissate su manoscritti e, assai più sporadicamente, pubblicate a favore di intenditori e musicisti dilettanti. Ciò spiega meglio i motivi per i quali la maggior parte delle composizioni per tastiera del nostro compositore sono state solo manoscritte e non pubblicate, proprio per via della loro funzione puramente occasionale.
A livello di analisi, è interessante notare come l’impianto compositivo di Pavona, per ciò che riguarda l’arcipelago “sonata” relativo alla sua epoca, rappresenti idealmente una sorta di ponte di collegamento tra la tradizionale e ormai vetusta sonata di scarlattiana memoria, formata da un solo tema e bipartita, e quella più “aggiornata”, ossia la forma-sonata a due temi, già conosciuta e sfruttata, soprattutto in area austriaca. Traccia di questa fase di passaggio la si può apprezzare nelle Sonate di Pavona inserite nel programma discografico in questione, tutte in prima registrazione mondiale, che Alberto Gaspardo ha voluto fissarle mediante l’organo costruito da Gaetano Callido nella Chiesa di Santa Maria Maggiore di Dardago. Il motivo di tale scelta è assai semplice: Pavona aspirò a poter eseguire le sue composizioni per tastiera su un organo ricco di “registri di concerto” come flauti e trombe, e capace di esaltare l’eloquio e la fattura dei suoi brani. Per questo, chiese e, alla fine, ottenne un siffatto strumento anche a Cividale del Friuli. Ma i lavori di costruzione del nuovo organo a due tastiere, costruito proprio da Gaetano Callido, che andò a sostituire l’antico organo cinquecentesco, non furono ultimati prima della morte del compositore e organista friulano, visto che lo strumento fu inaugurato solo nel 1788, vale a dire due anni dopo la morte di Pavona, organo, tra l’altro, che oggi non è più presente in Cividale.
Proprio le peculiarità dell’organo di Callido che si trova ancora nella chiesa di Dardago permette quindi di assaporare pienamente la ricchezza timbrica e le felici combinazioni che queste Sonate di Pavona richiedono e impongono, facendoci comprendere come il “novo stile” sonatistico si stava scrollando di dosso rigidità e ossature che mal si conciliavano con i tempi che avanzavano, i quali erano ormai propensi nell’accettare soluzioni stilistiche più ardite, capaci di apprezzare suoni e accorgimenti votati a una vera e propria “spettacolarità”.
Ma chi vuole conoscere il Pavona squisitamente “sacro”, può farlo attraverso un altro brano, anch’esso in prima esecuzione mondiale, ossia il mottetto per soprano, due violini e basso continuo intitolato Quando venit e torrente, che fu composto per essere utilizzato per ogni ricorrenza liturgica, e che si presenta strutturato in quattro sezioni del tutto autonome. Il testo di questo mottetto è di autore ignoto, ma naturalmente compiacente nell’illustrare il trionfo della forza della fede che fa sfracelli di ogni forma di miscredenza (il fremens unda furibonda del titolo del CD si rifà proprio a questo particolare). Una particolarità, in questo brano, viene dal Recitativo che è posto tra la prima e la seconda Aria e che fa da elemento di transizione; la musica di questo breve passaggio (poco più di trenta secondi) è stata scritta dallo stesso Alberto Gaspardo, traendo i versi dal testo poetico di un mottetto musicato da Niccolò Jommelli (per l’esattezza, Venit e silva leo furibundus, presente nella raccolta Modulamina sacra, stampata a Venezia nel 1746), con il preciso scopo di restituire al brano di Pavona la tipica struttura del mottetto solistico del XVIII secolo, ossia Aria-Recitativo-Aria-Alleluia, in cui il ruolo del recitativo centrale ha la funzione di “smorzare” l’atmosfera a dir poco infuocata della prima aria, traghettandola a quella più serena e contemplativa della seconda.
La chiusura di questo disco, come si è già accennato, è affidato, indubbiamente con un atto di coraggio, a un brano di musica organistica contemporanea, la Toccata di Renato Miani, la quale è suddivisa in tre tempi. Come spiega Elia Pivetta nelle sue note, questa Toccata trae spunto dalla sequenza gregoriana Inviolata, integra et casta es, Maria. Il primo tempo/sezione, contrassegnato come Festoso, assume le sembianze di un affresco sonoro neobarocco, mentre il secondo tempo, Giocoso, che si pone come segmento di contrasto, fa mutare la composizione in un’atmosfera che ricalca i principi minimalisti; infine, il terzo tempo/sezione, Aria, riprende i connotati festosi del primo tempo, in cui il canto, ripreso integralmente dal suddetto tema gregoriano, viene sostenuto da accordi che riportano al modo di comporre di Olivier Messiaen (!).
Dopo l’ascolto di questo disco, ci sono due considerazioni da fare, una di ordine generale, l’altra in ambito peculiare. Cominciamo dalla prima: Pietro Alessandro Pavona non rientra di certo nel novero ristretto che raggruppa i geni della musica, ma non può nemmeno essere relegato nel dimenticatoio storico e temporale dell’arte sonora. La sua musica va a formare un tassello, un piccolo mattone con il quale, però, grazie anche all’apporto di tanti, altri mattoncini, rappresentati da quei musicisti la cui opera è ancora motivo di studio e di interpretazione, ha potuto formare quel muro di conoscenza storica, indispensabile per avere un quadro compiuto e preciso dell’evoluzione musicale attraverso i secoli. Quindi, va a merito degli interpreti e della casa discografica aver potuto offrire un prodotto del genere, che potrà risultare gradito agli appassionati di musica barocca e, soprattutto, a coloro che sono alla ricerca di autori poco o punti conosciuti, come nel caso del nostro Pavona. L’annotazione di carattere peculiare va invece a investire la scelta dei brani che formano il programma in questione; è indubbio che si sia voluto privilegiare un ambito, come quello della Sonata, rapportato alle dinamiche timbriche dell’organo, capace quindi di mettere in evidenza il carattere “improvvisativo” dei brani dell’autore friulano, facendoci comprendere meglio come tale musica avesse uno scopo decisamente occasionale, sia nell’aspetto sacro, sia in quello profano. La scelta dell’organo, e in particolar modo quello della chiesa di Dardago, ha permesso così di apprezzare meglio il côté “effettistico” di questi brani, la loro volontà di stupire e anche divertire l’ascoltatore (la Pastorale in re maggiore, in tal senso, assume quasi dei connotati da divertissement, con sfumature di aperta ironia), mentre l’apporto, questo decisamente sacrale, del Mottetto, mette in luce un processo creativo che non ha nulla da invidiare con quello degli autori coevi, mostrando un’eleganza stilistica e un grado di coinvolgimento nell’eloquenza espressiva tali, da spronare e stimolare musicologi ed interpreti ad approfondire la conoscenza di questo musicista friulano, strappando dalla polvere e dal silenzio altre sue composizioni.
Da ultimo, considerare la composizione di Renato Miani unicamente come un omaggio all’organo Callido mi sembrerebbe francamente un po’ riduttivo, poiché il musicista friulano, oltre a conoscere e sfruttare al meglio le potenzialità organistiche, dimostra di saper plasmare la materia sonora, piegandola alle necessità spaziali nella quale si va ad irradiare (e da qui si comprende l’importanza dell’organo stesso come strumento atto per tale scopo), oltre a connotarla con un’indubbia eleganza espressiva, dispiegata nelle tre sezioni dell’opera (è bene ricordare che se Miani ha studiato, come si è già scritto, con Zanettovich, si è anche perfezionato a livello compositivo con quel gigante che è Wolfgang Rihm).
A livello interpretativo, c’è da apprezzare il tipo di lettura che Alberto Gaspardo ha voluto infondere; se le Sonate, così come la Pastorale e la Sinfonia, non mostrano un’aspra difficoltà tecnica, è anche vero che la loro riuscita verte sulle proprietà espressive, alcune di esse necessitano quasi un approccio “teatralizzante”, mettendo così in luce sfumature e sapori che possono e devono essere manifestati senza andare a snaturare la natura ritmica della loro struttura, cosa che l’organista pordenonese dimostra di saper fare assai bene. Buona anche la prova del soprano Cristina Mosca che ha saputo connotare la sua interpretazione con la necessaria drammaticità, mostrando di trovarsi a proprio agio nei territori del registro acuto, ma un po’ meno in quello grave, con la voce che tende a indurirsi leggermente. Nulla da eccepire per ciò che riguarda l’apporto fornito da Claudio Rado, Mauro Spinazzè e Mauro Zavagno, capaci di fornire il giusto e accorato accompagnamento, unitamente al delicato incedere di Alberto Gaspardo.
Per ciò che riguarda il lato tecnico della registrazione, ogni volta che mi appresto ad ascoltare prese del suono che riguardano un organo in una chiesa, incrocio le dita e tocco ferro, poiché spesso e volentieri il risultato lascia molto a desiderare, vuoi a livello di palcoscenico sonoro, vuoi per la gestione dell’equilibrio tonale. In questo caso Federico Furlanetto è riuscito a portare a casa un lavoro onesto, questo perché il suono dell’organo in questione non era per nulla facile da riprodurre in modo adeguato. Personalmente non conosco la chiesa di Dardago, non ci ho mai messo piede, ma ascoltando la registrazione dell’Urania Records, sia con l’impianto di riferimento, sia con quello da cuffia, mi sono reso conto che la sua struttura può causare problemi nel fissare il suono per via dell’unica navata presente (come si può evincere dall’immagine della chiesa), con il rischio di un persistente riverbero che tende inevitabilmente a “sfuocare” i contorni sonori. Per fortuna, ciò non avviene quasi mai, a parte quando l’organo propone un “tutti”, come accade nell’iniziale Sonata in re maggiore, in cui la messa a fuoco è veramente messa a dura prova. Affrontando la disamina del parametro del palcoscenico sonoro, reputo che la microfonatura sia stata effettuata a una distanza tale dallo strumento da portare a una ricostruzione dello spazio fisico in cui l’organo risulta essere posto a una notevole profondità, al punto da apparire per così dire “intubato”, ossia mancante di una necessaria ampiezza capace di irradiare il suono al di là dei diffusori (tale “ristrettezza” si denota anche in cuffia). La dinamica, poi, non è un mostro di energia e di velocità, restituendo così un timbro che se almeno non mostra colori indesiderati e artificiosi, manca di quel grip per poter esaltare al meglio le varietà e le combinazioni offerte dall’organo, mentre la voce e gli altri strumenti utilizzati non ne risentono molto.
Andrea Bedetti
- Pietro Alessandro Pavona – Fremens unda Furibonda. Organ and Sacred Music
- Alberto Gaspardo (organo) – Cristina Mosca (soprano) – Claudio Rado & Mauro Spinazzè (violino) – Mauro Zavagno (violone)
- CD Urania Records LDV 14105 (referencemusicstore.it)
Giudizio artistico:
Giudizio tecnico:
Correlati
Iscriviti alla nostra newsletter per rimanere sempre aggiornato.