Questo lavoro di Giuseppe Verdi, rappresentato nel 1844 alla Fenice di Venezia, come ci spiega Alessandro Nava nel suo scritto, è stato frainteso fin dall’inizio per via di mal riposte velleità risorgimentali del tutto fuori luogo. Le sue vere e concrete prerogative, che esaltavano codici cavallereschi, onore feudale, vincoli di sangue, sono state magnificamente fissate nella registrazione discografica fatta dalla RCA nel 1967, con la direzione passionale del compianto Thomas Schippers e con due mostri sacri quali Carlo Bergonzi e Leontyne Price.
La verdiana Ernani è l’opera-emblema che fu incaricata forzosamente di riassumere un’epoca di ideali patriottici, mentre si limitava a fondere, nello stesso nucleo, giovanili furori, generosità spudorate, amori incandescenti, gesti clamorosi. Incentrata su codici cavallereschi, su caste regali, su vincoli di sangue, sull’onore feudale, il Novecento, col suo disincanto necrofilo, quest’opera non la poteva più capire; aveva perso l’ingenuità e la spontaneità per farlo. Due guerre mondiali, rivoluzioni, genocidi, avevano avuto l’effetto di collocare il secondo Novecento a una tale distanza da tutto ciò che era accaduto prima da renderlo incapace di comprendere una lingua e un universo espressivo.
Esistono tuttavia anche altre ragioni che hanno tardato a suscitare l’interesse degli interpreti per Ernani, non da ultimo il tipo di vocalità dei protagonisti, ancora oscillante tra quei moduli donizettiani e belliniani divenuti ormai impraticabili da una cultura basata su quelli veristi e wagneriani. Di fatto, tutti i tenori della prima parte del XX secolo non conobbero quello che la cultura dell’Italietta post-unitaria aveva seppellito sotto la «musica dell’avvenire», compresi tre quarti del repertorio verdiano. Se ne appropriarono solo per via di qualche « romanza » da esibire, in concerto o in sala di incisione, Caruso, Anselmi, Gigli, Lauri-Volpi, Pertile, Filippeschi, Tagliavini, Di Stefano. Invece, Del Monaco e Corelli, che ne rilanciarono il ruolo, non registrarono Ernani nella sua integralità, per quanto esistano testimonianze del loro approccio al personaggio in famose versioni dal vivo. Ma Del Monaco e Corelli non erano e non potevano essere Ernani per sovrabbondanza di mezzi. Nella loro interpretazione, per quanto l’accento e il fraseggio facciano spesso trasecolare, tutto vi è in eccesso: la potenza fonica, la protervia vocale, l’impossibilità di rappresentare la fragilità umana di chi soccombe per amore.
Ernani solo marginalmente è un personaggio dal piglio eroico: gli impeti, gli sdegni, gli abbandoni sono quelli di un patetico ribelle travolto da un destino soggetto a regole che non mancano di apparirci psicotiche e il meglio di sé lo dà allora quando amore e onore incrociano le loro strade: con Elvira, nei duetti sospesi nell’estasi; con Silva, in una gara a chi dei due sarà più insensato in termini patologici. Questi atteggiamenti estremi, dopo il Quarantotto, creeranno mode confuse dette, appunto, «all’Ernani»: aderenti, cioè, al lato ardente e sventato del personaggio, ma col rischio di sfiorare il macchiettistico. Tuttavia, così lo visse il Risorgimento, ossia così lo intese quel nuovo anelito di riscossa nazionale che sentiva il bisogno di affermare, «col piede straniero sopra il cuore», una cultura diversa e nuova, non più serva e prona: bensì maschia, sfrontata, eversiva. Ma tale e tanto, il personaggio verdiano lo era solo in margine.
La discografia di Ernani, prima del 1967, possiede solo una selezione pubblicata dalla Columbia nel 1930 con Lorenzo Molajoli come direttore di una non meglio precisata Orchestra Sinfonica di Milano. A partire dai primi anni Sessanta l’opera comincia ad essere programmata nei maggiori teatri italiani e internazionali. Mario Del Monaco la interpreta sotto la guida di diversi direttori: con Fernando Previtali alla Rai di Roma nel 1958 e con Gabriele Santini al Teatro dell’Opera di Roma nel 1961; Carlo Bergonzi esordisce nel 1962 al Metropolitan sotto la direzione di Thomas Schippers; Franco Corelli lo fa tre anni dopo sempre a New York con Schippers. Seguono Gastone Limarilli, Flaviano Labò, Gianfranco Cecchele, Bruno Prevedi, sino ad arrivare a Placido Domingo, che canta il ruolo alla Scala nel 1969. Ma veniamo alla produzione RCA del 1967.
Carlo Bergonzi sulla carta aveva pochi numeri per essere un grande Ernani. Il timbro non era il più abbagliante tra quelli rinvenibili tra i tenori del dopoguerra; gli acuti, per quanti timbratissimi, non erano del tipo che forano le tenebre; l’indole, poi, era più consona alle grandi espansioni affettive, al sin troppo richiamato «canto a fior di labbro», all’abbandono elegiaco. Veemenza e sangue negli occhi, non li si collega in genere all’idea di un’interpretazione di questo tenore. Eppure, Bergonzi, grazie all’accento e al canto sfumato, sospeso tra stupore e tormentata accettazione di un destino ostile, diede l’esatta misura del cupio dissolvi che in fondo domina questa parte romantica nel senso più storico del termine. Liberato infatti dal testo vittorughiano da cui trae origine, folto di dialoghi didattico-rivoluzionari, l’Ernani di Verdi e Piave è riassunto da un fato non meno accanito e crudele di quello di Alvaro nella Forza del destino, e si accomuna, più che agli eroi, alle eroine sventurate di Bellini e Donizetti, con le quali condivide drammatiche scelte di vita, imposizioni feroci di parenti, giovinezze tragiche e segnate da rivalse secolari, e nel profondo dal senso dell’ineluttabilità della propria sorte.
In modo molto appropriato, in questa edizione del 1967, il tenore mette in risalto il lato malinconico del protagonista, e lo fa con lo stile patrizio che informa di sé quasi tutte le sue interpretazioni. È un nobile che si comporta secondo precise regole, non solo cavalleresche, ma di casta: ovvero non è mai sopra le righe, non è mai plebeo, chiassoso, violento. Anche nell’infuriare del sentimento e nello scatto bruciante delle scelte rimane sempre uomo di mondo. Qualcuno, in proposito, ne ha contestato la tendenza a un coinvolgimento troppo casto, troppo misurato: con ciò indicando una pretesa incapacità di Bergonzi di immergersi in un’atmosfera infuocata e di emergerne con gesti clamorosi, accenti selvaggi, pose gladiatorie: l’Ernani del 1848, appunto, quello delle cosiddette smargiassate, pronto a far esplodere il pubblico con numeri circensi. Ma questo non era l’Ernani di Verdi – arruolato a forza nelle Cinque Giornate -, né quello di Bergonzi, che, abituato a leggere i segni d’espressione dell’autore e a rispettarli, estrasse dall’opera il significato autentico del protagonista di essa.
Leontyne Price costruisce Elvira quasi connaturandola alla proprio debordante sensualità. La parte, del resto, si scollava dal modello codificato della donna come oggetto passivo tanto caro al primo romanticismo. E qui sta la trappola per l’interprete, dato che per questo personaggio l’interpretazione esige una duplicità d’espressione. Da una parte, l’accento deve essere rovente, intenso, serrato: deve esprimere risolutezza. Dall’altra, deve sapersi raccogliere nelle sfumature di un fraseggio lieve, dolce, toccante: deve esprimere quel lato soave, quasi impalpabile di un’anima rapita dal sentimento. Di certo, la Price per molti versi riesce nell’intento, per quanto l’aspetto imperioso e determinato lo si avverta ma non convinca completamente, mentre rifulge quello amoroso nel tripudio di una vocalità rotonda e palpabile. E fu un punto d’arrivo, spesso ineguagliato negli anni a seguire.
Diseducati da letture orchestrali rinforzate dalle barricate milanesi del Quarantotto, ovvero da un Ernani che lancia mareggiate e blocchi di pietra, la lettura che Schippers diede dell’opera, all’epoca deluse più di un recensore. Il direttore statunitense, tuttavia, del tutto immune da psicosi ritmiche, si misura invece col lirismo pre-risorgimentale che intride quest’opera. Del resto, basta leggere il libretto per capire che con l’unità nazionale un simile lavoro non condivide nulla. In fondo, Verdi aveva già dato anche troppo con Nabucco e Lombardi, e il fatto di aver scelto Venezia per la sua nuova opera, allontanandosi dalla fortunata formula corale realizzata con Solera alla Scala, definisce storicamente origine e natura di Ernani, che risulta essere davvero il primo melodramma da lui scelto e realizzato in piena autonomia. Che poi i fermenti patriottici abbiano arruolata l’opera sotto il tricolore è un’altra storia.
Alieno da sentimentalismo nazional-popolare, Schippers mette dunque in scena quell’Ernani passionale e blasonato che a Verdi premeva, dando aria all’orchestra, spazio al canto e al lirismo. Ne venne un’edizione che ancora oggi rappresenta una delle versioni di riferimento, con buona pace di quella critica che annoverava l’opera tra quelle dei servizi ausiliari di un esercito per nulla sabaudo e per certo nemmeno italiano.
Su questa edizione restaurata, potete leggere la recensione del doppio CD uscito in questi giorni per la Urania Record, nel nostro web magazine a questo link. (N.d.R.)
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