(Salisburgo, 1756 – Vienna, 1791)

E’ umanamente impossibile dire qualcosa di nuovo, o meglio, di originale intorno alla figura di Mozart. La bibliografia che lo riguarda è enorme. Si va dalla più vaste e complesse biografie ai cataloghi tematici per specialisti, dagli epistolari commentati a saggi di taglio psicologico, sociologico, persino misterico e iniziatico. L’Occidente ne ha fatto mito buono per tutti gli usi: dall’innocuo fanciullino rococò al testimonial di gadget pubblicitari; dal cicisbeo stampato su confezioni di cioccolatini al rapper effigiato sui manifesti punk; dal personaggio cinematografico in bilico tra genio e volgarità al modello di seriosi busti collocati nei vestiboli delle sale da concerto. Tutti, insomma, hanno detto tutto e fatto tutto attorno a una delle figure, insieme, più banali e inarrivabili della storia della cultura occidentale. Ho detto banale e so bene quel che intendo: non era pro-vocazione. Banale perché la vita di Mozart – salvo gli esordi – lo è. Non c’è nulla di sublime, o addirittura di trascendentale, in un bambino prodigio che diventa un giovanot-to accaldato e velleitario, al quale, più che la musica, interessano le donne, il denaro facile, le carrozze e i bei vestiti. E buon per noi che grazie alla cattiva sorte a Mozart toccò di produrre musica soprattutto per campare. Il denaro – e gliene passò parecchio per mano – non lo sapeva amministrare e finì per morire sui bordi della miseria. Era bruttino e vanesio, platealmente volgare e apparentemente superficiale, ma era abitato da un dio. Di grandezze manifeste non gliene si riconoscono. Sfruttato ignobilmente da un padre mediocre e artisticamente impotente, arrivò all’estuario dell’adolescenza sfinito dalla vita peripatetica che il genitore gli aveva imposto fin quasi ad ammazzarlo. Se ne andò allora dalla codina corte Salisburghese in cui sarebbe finito come Haydn, ma a Vienna, nonostan-te tutto, non riuscì mai a mettere insieme qualcosa di solido. Sposò una donna fonda-mentalmente stupida (una volta respinto dalla sorella di quest’ultima) e spesso lottò con-tro le connessioni mafioso-musicali che dominavano la capitale austriaca, di fatto soccom-bendo. Morì sfinito dallo spreco creativo proprio quando la maturità intellettuale e umana si profilava davanti a lui, e senza aver mai sfiorato quello status sociale a cui ambiva: far la vita libera, arrogante e dissipata dei veri nobili. Banale, no? In fondo, anche se in modo più goffo, fa il paio con tanti avventurieri del suo tempo: Casanova, Cagliostro, Rousseau, Byron e i gotici maledetti. Eppure quest’ometto tutto sommato ridicolo – capiterà anche a Schubert – faceva parte della schiera degli schizofrenici ontologici, di quegli esseri cioè dominati da due essenze contrapposte e antagoniste. Così, insieme all’omino che già a trent’anni invecchia precocemente, perennemente alterato dal desiderio erotico, dissipatore e infantile, abbia-mo un opale di sensibilità suprema, di equilibrio assoluto, di eleganza inarrivabile, di creatività inesauribile. Le pagine della sua musica sembrano trascritte direttamente da quello che Borges definiva il Libro dello Spirito: non una cancellatura, non un ripensamento: tutto d’un blocco, nella più chiara visione d’insieme possibile, come se quella Sinfonia, quel Quartetto, quel Melodramma fossero stati lì da sempre in attesa che qualcuno li copiasse. I manoscritti di Beethoven sono il frutto di una lotta mortale e quello che di lui ci sembra perfetto in realtà è ciò che resta di una tettonica musicale sconvolta e rifatta mille volte. Con Mozart no. Mozart opera sulla base di un dna la cui catena strutturale ci è ignota, o è quantomeno rarissima nella specie umana. Quando ci si avvicina a un catalogo come il suo e non se ne conoscono i confini si resta quantomeno disorientati. Cosa ascoltare? Sono tutti capolavori imprescindibili? E’ possibile? Risposta: no, non sono tutti capolavori. Per quanto inarrivabile, anche Mozart operava dall’interno di un sistema che aveva delle regole condivise, e non a caso, come Bach, è collocato tra i geni assimilatori e non tra quelli innovatori, ai quali appartiene, per esempio, Beethoven. Non fu nemmeno la classica sensibilissima conchiglia che riecheggia una tradizione secolare come in genere usa dire. D’accordo, in lui vengono a convergere le conquiste collettive più disparate, soprattutto quelle della musica italiana del secolo XVIII (al punto da farne il più insigne compositore italiano del Settecento). Ma è altrettanto vero che i processi creativi di quest’uomo non sono perfettamente razionalizzabili con i metri della scienza musicologica. Che dietro le spalle egli abbia i figli di Bach, Haydn, Cimarosa o quant’altri gliene si vogliano riconoscere importa veramente poco. Il mostruoso rapporto che lo lega alla creazione musicale trova un parallelo solo in rarissimi processi sistematici del genio. Al pari di un Leonardo e di un Tesla, Mozart non conquista le sue opere, le trascrive dall’interno di un cosmo perfettamente compiuto, sintesi definitiva di equilibrio e armonia. Non basta una vita per far nostro il catalogo mozartiano. Ne fa testo, tra le migliaia, un piccolo libro pubblicato in Italia da Mondadori nel 1960: Mozart, di Jean Victor Hocquard, il quale contiene non già una biografia quanto una dotta, vanitosa, illuministica disputa tra un fervente mozartiano e un appassionato competente. Magistrale per sottile ironia, brio, profondità e perfidia. Vi rimando caldamente a tale lettura, che tra l’altro ha anche una buona discografia d’epoca. Noi intanto, però, che cosa dobbiamo assolutamente ascoltare di Mozart? Allora: partiamo dal fondo, dalla Sinfonia, genere allora non ancora in voga. Come è noto, Haydn ne produsse qualcosa come 104, ma il vero padre di queste genere è stato un italiano: Sammartini, che ne scrisse quando lo stesso Haydn veniva al mondo. Ancora non veicolavano quell’abnormità compulsiva che sarà poi la Forma-Sonata, ma in nuce c’era già tutto, in forma tripartita di Allegro-Adagio-Allegro. Ai tempi di Mozart, i tre generi di musica dominanti erano la musica liturgica, quindi al servizio della chiesa; la musica da camera, eseguibile appunto in una camera; il melodramma, che allora equivaleva al cinema nella nostra società. E su questi tre generi si basa – incluso quello concertistico – il catalogo mozartiano. Chi non sa nulla di musica e controlla le disponibilità commerciali a questo punto rimane meravigliato. Ma ci sono 41 Sinfonie di Mozart, 32 in più di Beethoven! E’ vero, ma non è come appare. In genere, almeno sino a un certo punto, si tratta di brani sinfonici occasionali, utilizzati – come tutti facevano – per gli usi più disparati: come Sinfonie operistiche, Ouvertures da concerto, pezzi che venivano montati e smontati e seconda dell’occasione e dell’esigenza, e di sovente privi di spessore creativo originale. Mozart, tanto per fare un solo esempio, trasformò quella che attualmente è catalogata come Sinfonia KV 45 (ovvero Köchelverzeichnis, il catalogo di tutte le opere di Mozart compilato da Ludwig Köchel nel 1862) nell’Ouverture di una sua stessa Opera, il Lucio Silla. In tal modo, di 41 Sinfonie, se ne possono considerare non più di 8 o 9 da intendersi nello spirito che sarà, ma solo in parte, quello di Beethoven: diciamo quelle numerate come (lasciamo stare il KV, che quando posso ne faccio a meno) 25, 29, 35, 36, 38; poi la triade delle ultime tre: 39, 40, 41, composte nel 1788 e con ogni probabilità mai eseguite durante la vita del loro autore. Non mi dilungo su tali composizioni, sintesi perfetta di classicismo e sentimento protoromantico, coronato dalla chiusa olimpica della Sinfonia numero 41, non a caso consacrata a Giove, e vediamo da chi possiamo sentirle. Le opzioni sono veramente tante: si va da Richard Strauss ai direttori contemporanei, passando praticamente per tutti i grandi del podio. Ma anche qui, attenzione: diffidate delle versioni filologiche. L’orchestra mozartiana e il disegno sinfonico che manifesta non sono quelli di Händel o di Vivaldi: gli strumenti antichi impoveriscono immancabilmente tale disegno e danno l’idea di composizioni dalla struttura di vetro. E’ ovvio che l’orche-stra bruckneriana di certi Kapellmeister fa anche di peggio, ispessendo la portata stru-mentale e di fatto ledendo la natura ritmica delle Sinfonie. Pertanto tutta una serie di interpreti, massimamente gli esemplari della scuola tedesca di metà Novecento, va esclusa senza scrupoli. Detto dunque che i vari Jacobs, Herrewege, Pinnock, dottissimi professori di filologia sono inadatti quanto i vari Furtwängler, Knappertsbusch e Celibidache vediamo chi resta: ovvero, e massimamente, Bruno Walter, James Levine e Riccardo Muti. Del primo, sono disponibili le interpretazioni delle ultime Sinfonie, esempi illustri di osmosi intellettuale tra creatore e ricreatore. Walter, con le sue edizioni stereo delle ultime 6, incise a pochi anni dalla morte per CBS, tocca un vertice per molti versi ineguagliato: trasparenza strumentale, grandezza (non gravità!) architettonica, tenerezza ineffabile, calore umano, capacità di passare dalla perorazione alla confessione intima in poche battute, fraseggio ora solenne ora incalzante, qualità del suono di ineffabile bellezza. Questo è l’elenco. Macchie? A mio giudizio, nessuna. Lo stesso vale per Levine e Muti, che a Mozart hanno dedicato buona parte del loro genio teatrale. Levine e Muti partono in effetti dalla lezione di Walter e vi aggiungono quella carica teatrale ed emotiva che nel vecchio mitteleuropeo si celava ormai sotto una patina di stupenda malinconia. Il risultato emotivo è però lo stesso: luminosità timbrica, brio, eleganza del fraseggio, lirismo insi-stito, inquietudine temperata da un più alto senso della Forma. Trattandosi di musica molto registrata da sempre, parecchie altre versioni sono ovviamente di grande rilievo: Fricsay, Krips, lo stesso Karajan fino a metà anni Sessanta, per esempio, per cui ogni scelta interpretativa non è altro che un’adesione a una precisa idea che ci siamo fatti di Mozart e del suo mondo espressivo. Oltre alle ultime 6 Sinfonie sarà doveroso conoscere le Serenate Haffner e Gran Partita, la consacratissima Eine kleine Nachtmusik, nata per formazione cameristica e poi trascritta per orchestra. Trascrizione per trascrizione, con quest’ultima meglio dunque essere infedeli tanto allo spirito quanto alla lettera e ascoltarla ancora da Bruno Walter, che la deforma numinosamente, consegnandola ai mani della notte più lunare, e dandole connotati quasi cosmici, con una potenza d’accento che la traspone in un clima fa-scinosamente funebre. Una breve scelta di Danze tedesche vale la pena ascoltarla in una ormai remota (seppure magistralmente registrata) lezione di Herbert von Karajan del 1959. Niente di austriaco e nemmeno di tedesco, in Karajan, niente danza, niente di niente. Ci si muove come in sogno, senza peso, senza età, senza trivialità tirolesi, e ci si sveglia solo alla fine del disco. Mozart stesso sarebbe rimasto stupito di fronte a tanto. Per le due multiformi Serenate KV 250 & 361 restiamo, per carità, all’elegante manierismo di Karl Böhm: moderato quel tanto che nessuno fa del male a nessuno, a Mozart per primo. Per la Sinfonia Concertante KV 364, conosciuta soprattutto per il malinconico movimento lento, a voi la scelta. Nessuno esce dalla palude di quel tempo centrale buono per tutti gli usi, esattamente come l’Adagio di Barber. Ma proprio per questo va conosciuta. Come va conosciuta l’Ode funebre massonica, ovvero la Maurerische Trauermusik, composta da un Mozart quasi trentenne in omaggio alla sua adesione alla massoneria. Si tratta di un brano che già prefigura le lugubri prospettive del primo Romanticismo, tessuto di foscoliana rassegnazione a un disegno fatale a cui nessuno sfugge. Va ascoltata ancora da Walter, che si china su questo misterioso testamento mozartiano con la rassegnazione e l’angoscia con cui Tucidide si china sulla tragedia di Atene che declina dopo Pericle e la guerra del Peloponneso.

Le ultime 6 Sinfonie n. 35 KV 385 “Haffner”; n. 36 KV 425 “Linz” n. 38 KV 504 “Praga”; n. 39 KV 543; n. 40 KV 550; n. 41 KV 551 “Jupiter” Columbia Symphony Orchestra Direttore: Bruno Walter (CBS-SONY, 1959-1960)

Orchestra Filarmonica di Berlino Direttore: Riccardo Muti (Decca-Philips, 1985-1991)

” Orchestra Filarmonica di Vienna Direttore: James Levine (Deutsche Grammophon, 1986-1989) Serenata “Eine kleine Nachtmusik” KV 525 Columbia Symphony Orchestra Direttore: Bruno Walter (CBS-SONY, 1958)

3 Danze tedesche KV 600-602-605 Orchestra Filarmonica di Berlino Direttore Herbert von Karajan (Columbia-EMI-WARNER, 1959)

Serenata n. 7 KV 250 “Haffner” & n. 10 KV 361 “Gran Partita” Orchestra Filarmonica di Berlino Direttore: Karl Böhm (Deutsche Grammophon, 1972)

Ode funebre massonica (Maurerische Trauermusik KV 477) Columbia Symphony Orchestra Direttore: Bruno Walter (CBS-SONY, 1961)

Anche soltanto a volo d’uccello, col Köchelverzeichnis non ce la caveremmo con meno di 770 pagine: le stesse che Poggi e Vallora hanno compilato nell’illustre edizione Einaudi del 1991 dedicata al catalogo mozartiano. Per cui, stringendo, diciamo quel che segue. Per Pianoforte solo. Aldilà della Sonata KV 331, che contiene la cordiale e inebriante Marcia turca, ma che comunque è bella di suo, delle 17 o 23 Sonate del canone mozartiano (come delle Variazioni o brani solistici di varia natura) c’è ben poco da aspettarsi. E’ musica che non disturba mai, più adatta ad essere suonata con garbo e diligenza che ad essere ascoltata: non cerca il pubblico ma ti sta attorno come una presenza gentile, tesse nell’aria trasparenti ragnatele di suono nelle quali, se ti alzi e cammini, rischi di passare attraversandole senza accorgertene. Pulviscolo, gradevole come un velo di polvere che si eleva da un pavimento irrorato di luce. Nient’altro. Fa eccezione la Fantasia KV 475, che già configura in sintesi il mondo tormentato di Beethoven e Schubert. Ma rimane musica per ascoltatori raffinati, di quelli che hanno sulle spalle migliaia di ore d’ascolto. La musica da camera, ovvero Quartetti e Quintetti per Archi, Trii e Quartetti con Pianoforte e via dicendo. Si tratta di una sezione monumentale, con decine e decine di composizioni che fanno ancora la gioia di allenate formazioni cameristiche e di un pubbli-co molto raffinato. Si tratta però di musica che parla essenzialmente alla ragione. Al cuore, salvo qualche movimento lento, non arriva mai. E’ come quei meccanismi perfetti, lucidi, che presiedono al movimento di certi leggendari automi del Settecento; o meglio, una specie molto rara di opale che mostra lati sempre diversi, spesso accecanti, altre volte stranamente opachi. Trattandosi di Mozart, l’amabilità e la sapienza architettonica si danno per scontate, e lo sono, ma il potere di fascinazione di queste composizioni si è di molto indebolito nell’ultimo mezzo secolo: anzi, diciamo che è un potere che è spirato con la società borghese così come l’Europa l’ha espressa dalla fine dell’Antico Regime a tre quarti di Novecento. E’ evidente che non scoraggio nessuno dall’accedere a quest’ala del palazzo mozartiano. Tutt’altro. Ma lo si faccia quando già si è data un’occhiata ai vasti saloni, alle scale, alla biblioteca, ponendo mente soprattutto ai due Quintetti per Archi KV 515 & 516 e almeno a uno tra i Quartetti per Archi dedicati a Haydn (il KV 465). Accedere in modo impreparato a questi salottini defilati equivale spesso a restare delusi, o peggio, annoiati: il che, oltre che disagevole, con Mozart è ingiusto. La musica sacra. Imponente, come sempre, la sezione. C’è di tutto, o meglio, fu costretto a scrivere di tutto il povero Mozart: Messe, Mottetti, Litanie, Vespri, Te Deum, Miserere, Osanna, Antifone. Si va dai KV più remoti, quando il ragazzo aveva tredici o quattordici anni, al Requiem incompiuto. Si tratta perlopiù di musica composta per le cappelle gentilizie dell’aristocrazia cattolica salisburghese, e non credo che Mozart ci si ap-passionasse più di tanto, anzi. Il fatto che poi finisse per sposare la teologia ermetica dei massoni, con gli influssi sumero-accadico-egizi che reggono tale fede iniziatica, la dice lunga sul tipo di misticismo che può o non può averne permeato la produzione liturgica. Siamo però di fronte, come sempre, a musica soprattutto bella, un eufonico bagno negli ori rococò del cattolicesimo austriaco, con altari accarezzati da un sole cortese e pregni d’in-censo puro, corali di spiriti che l’inferno non hanno nemmeno messo in conto, martiri già assurti nell’empireo dei santi, vergini che hanno onorevolmente assolto il loro compito trascendentale. La stessa Messa in Do minore KV 427, maestoso torso incompiuto, non è altro che bella. Nel sacro, Mozart si muove esattamente come quegli artigiani creatori di polittici lignei che al sommo degli altari maggiori di solito illuminano l’intera cattedrale. L’anima – lo dico e lo sottoscrivo – non c’è, o almeno, ce n’è solo un embrione. C’è, come nel caso della Messa in Do maggiore, persino la fede in un voto fatto alla Divinità (quale, il Dio di Mosè!?); c’è la sublime capacità del genio di porre sulle ellissi della scienza creativa classica tutti i pianeti abitabili dell’universo rituale: un equo senso della pietà, il ripie-gamento nostalgico necessario al dettame sacro, l’erompere della luce negli ammassi di nubi delle Fughe, le perorazioni plastiche. Ma non cercate, per esempio, la nostalgia che percorre la Messa di Beethoven, la forza epica di certe pagine dello Stabat Mater di Rossini, l’orrore dell’Ade verdiano. Cerchereste invano. Tuttavia quella Messa KV 427, scritta – non dimentichiamolo – da un ragazzo ventisettenne, il Mottetto Ave verum Corpus KV 618, nato a ridosso del Requiem (vaga traccia di ciò che sarebbe stata, da allora, la produzione liturgica mozartiana) e il supervalutato Requiem vanno messi per forza in discoteca. E comunque sì: considero il Requiem KV 626 un’opera fallita, la quale, proprio perché suggella drammaticamente la fine del suo autore è assurta ai fasti della leggenda, ma un capolavoro non è, anzi, rappresenta un notevole passo indietro in confronto alla Messa KV 427. E’ impressionante solo nella prima sezione, il multiforme Kyrie; poi si sfalda in un convenzionalismo di maniera nel quale si è forzatamente voluto vedere una quieta accettazione della morte da parte di Mozart. Ma il Dies irae e il Rex tremendae sono la negazione di qualunque conflitto, e lungi dall’essere un’adesione obtorto collo ai dettami divini che impongono di morire, sono la fiacca esposizione di un mestiere già logoro. Il resto, sino al Lacrymosa è roba già sentita e risentita in Mozart, soprattutto nell’uso delle voci, più figliate dalle Arie da Camera che dal contesto infernale. Il Lacrymosa, poi (ov-vero il pezzo più dimostrativo e famoso, con quell’Amen scagliato contro i cieli eterni) piaccia o non piaccia è farina del sacco di Süssmayr, che il Requiem concluse più che dignitosamente seppure sui brogliacci del suo maestro. Insomma, il grande Mozart non cercatelo qui. Lo troveremo altrove. In quanto agli interpreti, attenzione! Cassate senza pietà i retori, Bernstein, Celibidache & C., capaci di postdatare Mozart quantomeno di un secolo e di gravarlo di pesi monumentali, stravolgendone lo spirito pur di equipararlo al più turgido e ridondante dei Bruckner. Meglio affidarsi a direttori privi di velleità messia-niche: Riccardo Muti, per esempio, o Carlo Maria Giulini: il primo oscuramente classico, il secondo di intima essenzialità, talora sereno e certamente non enfatico. E questo vale anche per la Messa KV 427 nella recente lezione di Paul MC Creesh per Archiv.

Messa in Do minore KV 467 Tilling, Connolly Gabrieli Consort & Players Direttore: Paul Mc Creesh (Archiv-Deutsche Grammophon, 2010)

Requiem KV 626; Mottetto “Ave verum Corpus” Pace, Meier, Lopardo, Morris Coro della Radio di Stoccolma e Orchestra Filarmonica di Berlino Direttore: Riccardo Muti (EMI-WARNER, 1987)

Requiem KV 626 Donath, Ludwig, Tear, Lloyd Coro e Orchestra Philharmonia Direttore: Carlo Maria Giulini (EMI-WARNER, 1979)

I Concerti per Pianoforte, per Violino e altri strumenti. Maestro indiscusso d’eleganza ed equilibrio, Mozart è riuscito a far coesistere, spesso pacificamente, il Divo-Solista con l’Orchestra. Destreggiarsi qui, riassumendo anche in breve le centinaia di vicissitudini, occasioni, malintesi e protagonisti che ruotano intorno ai più che 50 Concerti che Mozart, oltre che ai suddetti strumenti, ha dedicato al Clarinetto, all’Oboe, al Corno, al Fagotto, al Flauto, alla Tromba, destreggiarsi in tale sezione senza attingere continuamente dalla biografia di Mozart è praticamente impossibile. Il numero, già da solo, atterrisce, ma non è il caso di preoccuparsi. Tra i 27 Concerti per Pianoforte non c’è uno – nemmeno tra i primi, che sono miscellanee arrangiate da Sonate altrui – che non valga la pena di essere ascoltato: ma una scelta si impone. Quindi, ecco: il n. 9 KV 271, il famoso Jeunehomme-Konzert, per il quale stravedeva l’Einstein fino al punto da considerare questa compo-sizione addirittura l’Eroica in forma di Concerto. Dove va mai a finire Beethoven! Poi quel dittico comunque memorabile che sono i Concerti del 1785, l’anno delle Nozze di Figaro: ovvero i numeri20 e 21, KV 466 & 467. Poi ancora, dopo queste agrodolci confessioni di un trentenne in carriera, ecco il perfettissimo Concerto n. 23 KV 488, composto l’anno dopo e, a detta degli storici del pianismo, punto terminale delle possibilità espressive del concer-tismo settecentesco. Indicare, sia pure vagamente, chi suona bene, o meglio, queste graziediddio è quantomeno espressione di arroganza intellettuale. Per cui mettiamola così: eliminiamo i divi della tastiera che, vi assicuro, non aggiungono e non tolgono nulla a ciò che Mozart ha scritto, e restiamo a quei buoni artigiani (che poi sono altissimi artisti) che non si sovrappongono alla scrittura e allo spirito del compositore: nel nostro caso quel magnifico pianista che è Christian Zacharias (qui anche direttore: quindi senza risvolti conflittuali tra tastiera e podio). Come ho detto prima, parlando del pianismo mozartiano, il numero di interpreti di questi Concerti è veramente grande: almeno 90 anni di regi-strazioni e cinque generazioni di pianisti. Per cui – qui come altrove – vale il detto classico De gustibus… L’importante è non dimenticare che si sta ascoltando Mozart e non, che so?, Pollini, Rubinstein, Michelangeli o Arrau. E’ un rischio che quando si ascolta musica si corre troppo spesso. Tra gli altri strumenti, i 4 Concerti per Corno, quello perClarinetto KV 622 e quello per Flauto e Arpa KV 299 sono imprescindibili se si vuol dire di conoscere Mozart e la civiltà di cui fu portatore; anzi, se si vuol conoscere il legame tra Mozart e qualche sorta di divinità che ne reggeva la mano. Riconosco che tale asserzione puzza di retorica otto-centesca del peggior stampo, ma l’ascolto vergine di tali opere non può non indurre a tale riflessione tanta è la facilità creativa, la spontaneità – quella dell’acqua che scorre – che schiude questi fiori musicali che incantano l’umanità da due secoli. Alla suddetta serie di Concerti va – appendice assolutamente necessaria – allegato il prezioso Quintetto con Clarinetto KV 581 (in genere va in accoppiata col KV 622): qui una divinità boschiva, forse ominosa, per certo benigna, si aggira negli scorci paesaggistici che Mozart scopre ogni volta per la nostra innata mostruosità. Restano i Concerti per Violino. Non andiamo lontani. C’è un’edizione diretta da Bruno Walter e interpretata dal violino di Zino Francescatti: sono il Concerto n. 3 KV 216 e il n. 4 KV 218. Avvengono qui gli stessi portenti che accadono nella registrazioni delle ultime sei Sinfonie: non sentirli non è peccato, è sacrilegio. L’ascolto dei Concerti per Fiati presup-pone tuttavia una conoscenza anche tecnica dello strumento solista. Ora, per quanto aduso all’ascolto degli interpreti più disparati, se dicessi di essere uno specialista di questi strumenti nessuno mi crederebbe, e farebbe bene. Il mio giudizio di ascoltatore si limita quindi al lato puramente estetico, evocativo. Bene, restando a tanto, posso dire che i Concerti per Corno li ho trovati immortali – ovvero quasi privi di ogni connotato di gravità – soprattutto nell’immateriale edizione diretta da Herbert von Karajan (no, non l’edizione Columbia con Brain, ma quella suonata da Gerd Seifert a Berlino). Il Concerto per Flauto e Arpa trova invece nel solito Karl Böhm un compendiatore (solisti: Schulz e Zabaleta) capace di evitare struggimenti da tardoromanticismo cinematografico. E tanto vale per il Clarinetto del Concerto. Per quello col Quintetto, abbiamo invece un immortale che viene addirittura dal pianeta del Jazz.

Concerti per Pianoforte: n. 9 KV 271 “Jeunehomme n. 20 KV 466, n. 21 KV 467, n. 23 KV 488 Orchestra da Camera di Losanna Pianista e Direttore: Christian Zacharias (MDG, 2008)

Concerti per Corno: KV 412, 417, 447, 495 Gerd Seifert, cornista Orchestra Filarmonica di Berlino Direttore: Herbert von Karajan (Deutsche Grammophon, 1968)

Concerto per Flauto e Arpa KV 299 Wolfgang Schulz, flautista; Nicanor Zabaleta, arpista Orchestra Filarmonica di Vienna Direttore: Karl Böhm (Deutsche Grammophon, 1975)

Concerto per Clarinetto KV 622 Alfred Prinz, clarinettista Orchestra Filarmonica di Vienna Direttore: Karl Böhm (Deutsche Grammophon, 1972)

Concerti per Violino: n. 3 KV 216 & n. 4 KV 219 Zino Francescatti, violinista Columbia Symphony Orchestra Direttore: Bruno Walter (CBS-SONY, 1958)

Quintetto con Clarinetto KV 581 Benny Goodman, clarinettista Quartetto di Budapest (RCA, 1957)

In uno scorcio – ma mi è sfuggito – ho parlato del vero Mozart: cosa, questa, che di solito fa inorridire musicologi e vestali del Salisburghese. Ma io credo che un vero Mozart sia esistito, e adesso provo a dimostrarlo. Fatte le debite differenze, lo abbiamo già detto, il melodramma, inteso come fatto ricreativo nella società europea dei secoli scorsi, potrebbe essere paragonato al mondo del cinema attuale: il successo lo coglievi, o non lo coglievi, soltanto lì. Concerti, Quartetti e Messe potevano fruttarti qualche soldo, d’accordo. Ma in tale impresa riuscivano, e piuttosto bene, anche i più modesti maestri di cappella. La musi-ca religiosa e strumentale, in termini mondani, dava poco o nulla: se volevi essere ammira-to e volevi il trionfo e la gloria dovevi coglierli a teatro con l’Opera italiana. Ed è quello a cui massimamente ambiva Mozart, soprattutto a Vienna, dove l’egemonia della nostra lingua – sicuramente per l’ultima volta – era dogma imperante. Di Opere, Mozart ne scris-se una ventina (nemmeno tante se pensiamo ai numeri astronomici di altri compositori), e cominciò presto, con Apollo e Hyacinthus, un saggio accademico in latino scritto a 11 anni. Ma la prima vera Opera italiana verrà a Milano quattro anni dopo, su testo del Parini: Ascanio in Alba. Comunque, approssimativamente tra i 10 e i 25 anni Mozart compose non meno di una dozzina d’Opere che oggi si ascoltano proprio perché a scriverle fu lui. Ma non vale la pena di farlo: rimasticano, pur con sprazzi ovviamente geniali, il rimasticato, e sono assolutamente inferiori alla produzione contemporanea della cosiddetta scuola napoletana, che discograficamente è morta e sepolta, oppure illustrata da edizioni infelici e occasionali. Ci sono ottimi studi sull’Opera mozartiana, comunque, e non si può ridurre a una battuta il percorso che ha portato un giovane compositore dai primi tentativi ai fasti delle ultime produzioni. Limitiamoci dunque a guardare i capolavori indiscussi, che iniziano quando Mozart ha 26 anni con il Ratto dal serraglio e terminano nove anni dopo con il Flauto magico. Lasciando perdere frammenti incompiuti di quel periodo e quel centone aulico che è La clemenza di Tito (composto di malavoglia e su commissione), si tratta di cinque Opere in un decennio: poche se valutate sui metri produttivi di quel-l’epoca, ma di immenso peso specifico per l’intera storia della musica occidentale. E qui, a Mozart non ci sono limiti: la triade composta su libretti di Da Ponte (Le nozze di Figaro, Don Giovanni, Così fan tutte) più le due suddette (Singspiel in lingua tedesca) formano un blocco incandescente che fagocita l’intera produzione operistica di fine Settecento, di fatto an-nientandola. I due Singspiel sono i capolavori assoluti realizzati in lingua tedesca, e solo Der Frei-schütz di Carl Maria von Weber (che vedremo a suo tempo) può stare accanto a simili monumenti. Dopo di allora, lungi dal nascere – come una musicologia non meno falsa dei Padri della Chiesa sostiene –, l’Opera tedesca abortisce tragicamente se stessa, essendo Beethoven, Wagner e Richard Strauss dei fallimenti totali in senso drammaturgico (non musicale, sia chiaro!). Ma Mozart pianse e amò per tutti (in tedesco), e lo fece veramente toccato da Iddio in persona. Qui, anche solo sunteggiare i motivi, gli influssi, le coordinate psicologiche, l’impatto teatrale e la vita eterna di questi capolavori è impossibile: ci vuole un volume per farlo. Per cui passiamo decisamente alle produzioni discografiche, che sono tante ma… ma per noi italiani (e ovviamente solo con riferimento alla triade dapontiana) non così tante come sembrerebbe. Perché? Ma è semplice: i libretti di Da Ponte sono scritti in italiano e la drammaturgia mozartiana, omogeneizzato insolubile di recitativo e arioso, richiede una padronanza non solo della nostra lingua, ma del pensiero espresso in fonemi e accenti italiani con tutta un’infinita gradazione di sfumature, colori e ritmi tipici di una lingua, qualunque essa sia: in questo caso l’italiano, che, nella fattispecie, aveva già quasi due secoli di tradizione librettistica, quindi di osmosi parola-musica-teatro alle spalle.

Gutturali cantanti tedeschi o scipiti interpreti anglofoni, per quanto validi sotto il profilo tecnico e anche sentimentale, in genere massacrano i recitativi, rendono artefatta la re-citazione e inquinano le arie: la sovrumana fluidità mozartiana va a farsi benedire e in-sieme ad essa quel teatro umano a cui Mozart e Da Ponte ambivano. E’ successo – sia ben chiaro – per almeno 70 anni di registrazioni discografiche, non esclusi gli ultimi decenni, e ne hanno pagato le conseguenze tutti, ma proprio tutti, ivi compresi i grandi del podio. Per cui le indicazioni che darò terranno in considerazione soprattutto questo fatto: che le opere di Da Ponte siano soprattutto cantate e recitate in italiano e non in italiota. Questo comporterà dolorose omissioni di grandi interpreti e splendide riprese del suono. Ma fortuna vuole che in Mozart la discografia sia eccezionalmente articolata. Partiamo dal centro: da Don Giovanni, opera che inquietava il pudibondo Ottocento, tutto intriso di castità e ideali, e in modo speciale il mondo germanico romantico, per il quale il sorriso era il veleno stesso di un’arte virile, seria, responsabile. Non a caso, ancora a fine secolo, Gustav Mahler, direttore dell’Opera di Stato di Vienna, finiva l’Opera con don Giovanni trascinato negli inferi, non parendogli decorosa la chiosa illuminista (e atroce) con cui Da Ponte e Mozart suggellano questo Dramma giocoso. Appunto, Dramma giocoso. Ma vallo a spiegare soprattutto agli interpreti tedeschi che sino agli anni Sessanta del Novecento hanno continuato a inchiostrarlo di nerofumo patibolare! Basta vedere lo sfacelo operato caparbiamente da Furtwängler o da Klemperer o dallo stesso Böhm sul torso di questo ambivalente capolavoro, da loro ridotto a una lutulenta e soporifera farsa demoniaca, senza luce, senza sorriso, senza giovinezza, senza brio, consacrata a una tragedia cosmica di proporzioni mitiche. Col che sfido chiunque a capire lo spirito di due dongiovanni come Mozart e Da Ponte, che il dramma lo vedevano, eccome, ma non avevano bisogno di sottolinearlo a matita blu con pesanti forzature. In definitiva, la cultura tedesca, che ha informato di sé buona parte delle registrazioni discografiche del secolo scorso, ha mediato un Mozart che nega essenzialmente lo spirito dell’opera napoletana che sta alla base della triade dapontiana per sostituirlo col dramma musicale wagneriano. Per cui proviamo a cercare un paio di edizioni effettivamente cantate in italiano.

Don Giovanni (Taddei, Tajo, Valletti, Curtis Verna, Gavazzi, Ribetti) Orchestra Sinfonica e Coro di Torino della RAI Direttore: Max Rudolf (Cetra, 1953)

(Keenlyside, Terfel, Heilmann, Remigio, Isokoski, Pace) Coro di Ferrara Musica & Chamber Orchestra of Europe Direttore: Claudio Abbado (Deutsche Grammophon, 1997)

La prima delle due edizioni è decisamente d’epoca, di origine mono, ma ottimamente registrata. E’ l’unica versione di Don Giovanni interpretata completamente da cantanti italiani, per quanto la Curtis Verna fosse di origine americana. La triade femminile dell’edizione curata da Abbado è notevole ma non per questo migliore di quella della versione Cetra, mentre il trio maschile della Cetra non solo non è ancora stato eguagliato ma temo che non lo sarà mai. Infatti, aldilà del magistero vocale, la triade Taddei-Tajo-Valletti tocca vertici ineguagliati in termini di pura recitazione, di accentazione pertinente, di fraseggio cangiante, di variazioni illuminanti. Intere scene appaiono come ripulite dalle caligini linguistiche imposte dai cantanti stranieri e tutto è regolato dal più alto piacere della commedia, con un approfondimento, soprattutto del rapporto Don Giovanni-Leporello come mai si era visto, e, purtroppo, raramente si vedrà negli anni a seguire. L’edizione voluta da Abbado a Ferrara nel 1997 è tra le migliori prodotte negli ultimi vent’anni, e i cantanti (Keenlyside e Terfel soprattutto) appartengono già a quella generazione per la quale il rispetto della lingua originale è tale di produrre una versione perfettamente recitata nella nostra lingua. Ma veniamo alle Nozze di Figaro, la cui situazione non cambia, anzi, tende a peggiorare, perché se in Don Giovanni un coté tragico, a furia di cercare, un po’ lo si trova e lo si giustifica, nelle Nozze ogni appesantimento, ogni volgarità, ogni farraginosità di stampo teutonico fanno a pezzi tutto. Ne fanno fede bellissime produzioni diventate dei classici, una per tutte quella affidata a Fricsay nel ’60 dalla Deutsche Grammophon. Dal punto di vista orchestrale è un capolavoro di brio, passione ed eleganza. Ma nonostante cantino soprani come Maria Stader e Irmgard Seefried, i comprimari, nelle fondamentali scene di raccordo, rendono tutto quasi insensato e legnoso. Del resto, la fulmineità degli incisi parlati, la corrività delle frasi, l’esigenza di variare in continuazione colori e accenti, o sei madre-lingua oppure è impossibile alla lettera rendere Le nozze di Figaro. Basta ascoltare, sempre da questa edizione-campione, cosa accade quando cantano e recitano Renato Capecchi e Ivan Sardi: improvvisamente ti ritrovi a teatro, tutto scorre, prende fuoco, ha un senso logico. Non basta l’intenzione: ci vuole il totale dominio linguistico. Ed per questa ragione che le Opere di Da Ponte non mi sento di caldeggiarle nelle versioni date da Riccardo Muti, il quale le interpreta, alla lettera, nello spirito napoletano originario, ma si avvale – o è costretto a farlo – di cast internazionali che, aldilà della bontà dei cantanti, rendono vano proprio questo spirito con la monumentale inadeguatezza della recitazione. Per cui, scansando decine di produzioni e barcamenandoci tra il vecchio e il nuovo, due versioni di riferimento si possono indicare.

Le nozze di Figaro (Wächter, Taddei, Moffo, Schwarzkopf, Cossotto) Coro e Orchestra Philharmonia di Londra Direttore: Carlo Maria Giulini (EMI-WARNER, 1959)

(Keenlydise, Regazzo, Ciofi, Gens, Kirchschlager) Concerto Köln e Collegium Vocale Gent Direttore: René Jacobs (Harmonia Mundi, 2003)

A guardare i nomi della distribuzione vocale dell’edizione Harmonia Mundi po-trebbero venire molti dubbi circa la correttezza dei dialoghi nella nostra lingua. Tuttavia, sotto il pungolo di René Jacobs, tutti cantano, recitano, strillano in buon italiano, per quanto il Figaro di Lorenzo Regazzo sia solo corretto, e solo con molta buona volontà può reggere il paragone con Capecchi. In quanto all’illustre edizione britannica curata da Giulini si ripete, con minime varianti, quanto detto per la Cetra del Don Giovanni, solo che qui i miracoli li fanno i quadrumviri Taddei-Moffo-Cossotto-Cappuc-cilli. Peccato che al posto della Schwarzkopf non ci fosse poi stata una Tebaldi e a quello di Wächter un Bruscantini. Avremmo avuto l’edizione definitiva di questo capolavoro. Ma passiamo al titolo meno compreso dalla musicologia germanica e più massacrato discogra-ficamente: Così fan tutte, l’Opera più sfacciatamente illuminista e disincantata tra i capo-lavori del melodramma, l’Opera in cui il mito dell’amore viene fatto a pezzi, in cui le protagoniste vengono derise da una servetta e invitate a tradire gli amati e a far sesso avidamente con chi capita. Ce n’era d’avanzo per far inorridire un secolo come l’Ottocento (e metà del Novecento), che dell’erotismo ha fatto un mostro repellente. Persino Beethoven – che qui si mostra solo un gran bacchettone – ne ebbe orrore, non potendo concepire tale aberrazione mozartiana. Ma Mozart – ecco perché io considero il Mozart operista quello vero – tra le pagine di questo capolavoro di Da Ponte si muove nel suo elemento naturale, anzi, ci sguazza, e tutto gli viene allora perfetto: la leggerezza, l’abbandono estatico, l’ar-ringa sarcastica, il dileggio, la catarsi funambolica: tutto. Dove trovare edizioni tali da traghettarci senza inciampi in un simile universo? Diciamolo subito: non esistono. Qui il problema linguistico, stante le dimensioni del recitativo, è difatti enorme. Di solito, l’inter-prete di Despina si incarica, con le abnormità di una pronuncia barbarica e la totale man-canza di fluidità prosodica, di demolire quel poco che bene o male gli altri tirano fatico-samente in piedi. Bastano i cognomi di alcune interpreti di questo ruolo: Eisinger, Loose, Steffek, Köth, Geszty ecc. per capire quanto la lingua biforcuta di una serva napoletana possa diventare scipita e incomprensibile in bocca a soprani dell’area tedesca o slava. Ma non è il solo caso: ora è Don Alfonso, disincantato e feroce filosofo vesuviano, a esprimersi come un gigante dell’Oro del Reno; ora è la coppia maschile, che – come accade spesso – se è composta da un italiano e da uno straniero rischia il comico a ogni battuta; ora è la coppia femminile, in genere fatta da vocaliste germaniche, le quali, fuori dalle arie si muovono come calpestando preziose aiuole con scarponi chiodati. E tant’è, ma con Così fan tutte non c’è possibilità di patteggiamento linguistico, e noi italiani, incapaci di produrne un’edizione nazionale, dobbiamo ascoltare questa summa del libertinaggio in versioni più o meno scorticanti.

Così fan tutte (Price, Troyanos, Raskin, Shirley, Milnes, Flagello) Coro Ambrosian Opera e Orchestra Philharmonia di Londra Direttore: Erich Leinsdord (RCA, 1967)

(Gens, Fink, Oddone, Güra, Boone, Spagnoli) Concerto Köln & Coro da Camera di Colonia Direttore: René Jacobs (Harmonia Mundi, 1998)

Per quanto possa sembrare incredibile, è il meglio di ciò che esiste tra le disponibilità discografiche, a meno che accettiate i recitativi dei divi tedeschi e inglesi, garanzia assoluta di una teatralità che a noi di lingua italiana appare addirittura inaccettabile oltreché vera-mente fastidiosa. L’edizione Harmonia Mundi non è folgorante, ma è vivace, incisiva e miracolosamente tutti cantano quasi in italiano. Quella RCA sfodera interpreti di gran nome e qualche incertezza linguistica, ma Leinsdorf garantisce la levità di un’orchestra stupenda e l’edizione è filologicamente completa. Con Die Zauberflöte e Die Entführung aus dem Serail il fatto linguistico, almeno per noi italiani, non è più un problema. Semmai se ne pone un altro, ed è quello della parte puramente recitata, che di solito occupa almeno un buon terzo dell’Opera completa. Che fare? A meno di essere germanofoni dichiarati, in genere nessuno capisce niente, si annoia e passa alla traccia successiva. Certo, può cogliere quale sia la situazione dal tono della recitazione, può intuire qua e là un colore, ma è esattamente come ascoltare L’opera da tre soldi di Brecht in originale e non in traduzione! E’ per questo che, a fronte di certe edizioni che coraggiosamente tagliavano la recitazione (ce ne sono di celebri, firmate addirittura da Karajan e da Klemperer) ho sempre trovato ridicolo che celebri critici si strappassero gli occhi per via di tale scelta produttiva. E’ un vecchio problema, che un’anima non certo semplice come Wagner risolveva con una dichiarazione di intenti granitica: le Opere van-no ascoltate nella propria lingua, poiché se non si capisce quello che accade in scena e quello che un personaggio esprime tanto vale ascoltare una Sinfonia o un Poema Sinfo-nico. Tuttavia, dal almeno mezzo secolo, è addirittura ingiurioso parlare di Opera in traduzione. E’ una vita che vorrei vedere un allestimento del Flauto magico o del Franco cacciatore in italiano, ma sembra che questo sia solo l’espressione di un provincialismo anacronistico. Veniamo allora ai due capolavori tedeschi di Mozart. Anche qua non sono tutte rose. Tanto per cambiare – eccitata dal sigillo massonico – la tradizione germanica ha finito per leggere il Flauto magico nella logica sacrale di un rito iniziatico: i soliti Furt-wängler e Klemperer lo hanno addirittura stemperato contro le dimensioni del cosmo, dilatandone il sembiante come si potrebbe fare con una maschera di plastica, con risultati non dissimili, in quanto a orrore surreale, proprio al celebre film di Chuck Russell, ovvero The Mask. Che io sappia, ancora una volta, il primo a tentare una lettura che rispettasse i tempi di Mozart è stato Arturo Toscanini, che a Salisburgo ne diede una lettura contro-corrente nel 1937. Quarant’anni dopo furono pubblicati i dischi di tale fortunosa regi-strazione e si gridò ancora allo scandalo, salvo poi, passati altri vent’anni, rendersi conto, attraverso la prassi filologica, che i tempi di Toscanini erano quelli giusti e somigliavano stranamente a quelli dei vari Christie, Harnancourt, Jacobs, che al Flauto magico stavano restituendo il loro volto. Perché poi, aldilà di tempi e dilatazioni, con quest’Opera si tratta di saper restare nei perimetri di una fiaba, di un piccolo meccanismo infantile fatto di colori tenui e agili marionette, che solo vagamente, per accenni, per rimandi iridescenti, per cupe inquietudini rivela dimensioni che investono con le domande capitali lo spirito stesso. Tra le grandi registrazioni del passato solo Karajan, nella remota Columbia del 1950 (non più in quella a seguire di trent’anni dopo) è riuscito in tale impresa di alleggerimento, quasi di smaterializzazione della più greve sostanza di cui ogni teatro è fatto. Tra quelle del presente, non so: il meccanismo c’è, ma la pudica tenerezza, i veli di poesia, la luce screziata, la malinconia… sì, ci sono, ma… Molto difficile dunque indicare registrazioni complete in disco che diano un’idea esatta di questo capolavoro. Comunque, ecco un elenco di tre produzioni che sarà bene conoscere.

Die Zauberflöte (versione senza parti recitate) (Dermota, Seefried, Kunz, Loose, Lipp, Weber) Coro della Società degli amici della musica di Vienna e Orchestra Filarmonica di Vienna Direttore: Herbert von Karajan (Columbia-EMI-WARNER, 1950)

(Wunderlich, Lear, Fischer-Dieskau, Otto, Peters, Crass) Coro della RIAS e Orchestra Filarmonica di Berlino Direttore: Karl Böhm (Deutsche Grammophon, 1964)(Behle, Petersen, Schmutzhard, Im, Kaappola, Fink) Coro da camera della RIAS e Akademie für Alte Musik di Berlino Direttore: René Jacobs (Harmonia Mundi, 2010)

Della versione Karajan si è detto. Böhm non è altro che corretto, lucido ed elegante, ma il cast vocale di quell’edizione Deutsche Grammophon resta il più alto tra quelli raccolti per una registrazione discografica. In quanto a René Jacobs, insigne controtenore passato alla direzione d’orchestra, si tratta sicuramente del più significativo interprete del teatro mozartiano degli ultimi anni, e ogni sua produzione aggiunge una tessera indispensabile alla comprensione di Opere che ci sembravano aver esaurito la loro carica rivoluzionaria. Per quanto riguarda infine il Ratto dal serraglio, il Singspiel esplosivo di Mozart, la rutilante turcheria capace anche di nere introspezioni, trovo che la grassa, pulsante e magni-loquente edizione di Georg Solti resti tra le migliori, tenendo conto che, senza doversi rivolgere alle recenti versioni filologiche, quella supremamente stilizzata, ancorché di vecchia data di Fricsay, resta degna di grande attenzione.

Die Entführung aus dem Serail (Stader, Streich, Haefliger, Franck, Greindl) Coro da camera e Orchestra della RIAS di Berlino Direttore: Ferenc Fricsay (Deutsche Grammophon, 1954)

(Gruberova, Battle, Winbergh, Zednig, Talvela) Coro dell’Opera di Stato di Vienna e Orchestra Filarmonica di Vienna Direttore: Georg Solti (Decca, 1986)

Da ultimo, e per chi cercasse di ritrovare il Mozart che va dal Ratto al Flauto altrove, dirò che è molto importante come appendice all’attività operistica conoscere la raccolta della Arie da Concerto curate dalla Decca e dalla Philips. Personalmente trovo migliore la prima, gremita di interpreti come Fischer-Dieskau, Berganza, Gruberova, Te Kanawa. Si potrà far conoscenza con tutte quelle grandi Arie da Concerto che nulla hanno da invi-diare a quelle inserite nelle Opere maggiori e che Mozart in pratica compose per tutta la vita.

Alessandro Nava

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