Dopo aver registrato per Urania Records un primo CD dedicato al compositore viennese, il mezzosoprano Albane Carrère e l’Ensemble Mark Rothko hanno inciso, sempre per la medesima etichetta di Noemi Manzoni, un secondo disco che vede il Sestetto per archi, il Quartetto n. 6 e il Lied Ein Stelldichein, opere che certificano ulteriormente la grandezza di questo musicista, allievo di Alexander Zemlinsky
Ho già avuto modo di scrivere di Karl Weigl e della sua musica su questa rivista e ora, in occasione della pubblicazione di un secondo CD da parte dell’Ensemble Mark Rothko e del mezzosoprano Albane Carrère sempre per l’etichetta Urania Records, torno a farlo con indubbio interesse. Un interesse che scaturisce dal fatto che questo autore viennese è ancora in attesa di un dovuto riconoscimento, soprattutto da parte degli ascoltatori del nostro Paese, ascoltatori alquanto pigri e abituati a riciclare musicalmente i soliti compositori, le solite opere e i soliti andazzi propinati, spesso e volentieri, da cataloghi discografici fabbricati con lo stampino. Quindi, sia dato merito sia agli interpreti in questione, sia a Noemi Manzoni per aver offerto alle orecchie assuefatte dagli annosi clichés sonori le pagine cameristiche di questo compositore tra i più stimolanti e coinvolgenti del primo Novecento.
In questo secondo disco la playlist è formata da tre pagine cameristiche quali Ein Stelldichein per voce acuta e sestetto per archi, risalente al 1904, il Sestetto per archi in re minore, composto due anni più tardi e qui proposto in prima assoluta mondiale, e il Quartetto per archi n. 6 in do maggiore, scritto nel 1939. Prima di affrontare la disamina di questi pezzi, è bene che ricordi ancora una volta le particolari peculiarità compositive di Weigl, del tutto uniche nel panorama di quella musica viennese che tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento si stava lentamente sganciando dalle strutture del linguaggio tonale attraverso progressive conquiste dissonantiche e, di riflesso, con un incidente annullamento dell’aspetto melodico ancora presente nel vasto arcipelago tardoromantico germanico dell’epoca. Questo significò per la nuova generazione musicale viennese, che prese a modello gli insegnamenti e le lezioni di Alexander Zemlinsky (del quale lo stesso Weigl fu allievo privato), cercare di mediare la tradizione brahmsiana con le innovazioni armoniche wagneriane, avviando un processo compromissivo tra queste due opposte tendenze compositive.
Un esempio di tale processo, come scrive giustamente Benjamin Bernstein nelle note di accompagnamento al disco, è dato dal sestetto per archi Verklärte Nacht di Arnold Schönberg, composto nel 1899 e ispirato da una poesia di Richard Dehmel, uno dei poeti di riferimento per la musica liederistica della Seconda scuola di Vienna (sempre restando a Schönberg, quest’ultimo compose tre dei suoi Lieder op. 2 sui versi di questo poeta, uno che appartiene all’op. 3 e un altro anche nell’op. 6). Il padre della dodecafonia avviò anche la composizione di un brano basato sui versi di un’altra poesia di Dehmel, Ein Stelldichein (Un appuntamento) per violino, violoncello, oboe, clarinetto e pianoforte, ma che rimase incompiuto. A quel punto, Weigl assunse l’incarico e, a livello di ideale “germinazione”, completò una pagina per voce acuta e sestetto per archi nel 1904. Il fatto che Weigl abbia raccolto il testimone di quell’opera incompiuta schönberghiana non deve meravigliare, in quanto lo stesso Weigl fu tra coloro che assistettero alla prima esecuzione di Verklärte Nacht, avvenuta il 18 marzo 1902 alla Wiener Tonkunstlerverein, difendendola a spada tratta quando il concerto si tramutò in un vero e proprio scontro fisico tra chi osteggiò la composizione e chi, invece, ne prese le difese.
Ein Stelldichein rappresenta indubbiamente un capolavoro di densità e di emozione e ha inizio con un’introduzione enunciato dal sestetto degli archi, simile a quello utilizzato da Schönberg in Verklärte Nacht, con la tensione, che è presente in tutto il brano, che è fornita dal contrasto tra gli intervalli cromatici e quelli di maggior respiro. Il testo della poesia, che tende a riflettere le tipiche atmosfere grigie ed espressioniste di Georg Trakl, senza però raggiungerne la medesima intensità e profondità, presta alla voce che fa la sua apparizione dopo l’incipit del sestetto quasi un timbro spettrale e richiama lo stato d’animo del narratore al quale appare il fantasma di una persona cara, apparentemente morta, attraverso la nebbia nella foresta, da cui si comprende il titolo del Lied. La struttura del brano porta ad ispessire la dimensione drammatica, con gli accenni al sentimento, al dolore e a un senso di colpa che vengono resi tramite un esasperato uso dei cromatismi. Alla fine, torna il tema iniziale, colmo di dolore, con la parola finale Tod (morte) sottolineata da un imperioso cluster. Ein Stelldichein fu eseguito per la prima volta al Musikfest di Salisburgo nel 1922, con Erika Wagner-Stiedry che cantò il Lied e con il quartetto Amar, in cui Paul Hindemith suonava la viola, che faceva parte del sestetto.
Il sestetto per archi in re minore è un altro gioiello stilistico, denso, esasperante nella tensione che esprime anche nei momenti di stasi e di apparente calma timbrica, in cui il costrutto armonico, sebbene ricco di dissonanze, non perde mai contatto con un linguaggio tonale spinto fino all’estremo delle sue leggi. A tratti, soprattutto all’inizio si avverte ancora l’influenza sia di Verklärte Nacht, sia dello stesso Stelldichein, anche se poi lo sviluppo si sgancia da quelle opere precedenti e si fissa su due distinti temi di cui uno è eminentemente di tradizione beethoveniana, il che non porta Weigl ad abbracciare gli sviluppi armonici escogitati da Schönberg, ma di seguire un solco, soprattutto alla fine del Sestetto, decisamente e sorprendentemente “lirico”. È interessante notare come lo stesso autore realizzò una versione di questo sestetto per orchestra d’archi, pubblicata nel 1933, la Rapsodia in re minore op. 30, proprio sulla scia di quanto fatto dallo stesso Schönberg, che creò una versione orchestrale di Verklärte Nacht nel 1917, rivista poi nel 1943. La prima esecuzione del Sestetto in re minore ebbe luogo a Vienna il 13 novembre 1907 su raccomandazione di Gustav Mahler, con il quartetto Rosé, il violoncellista e compositore Franz Schmidt e Franz Jelinek come seconda viola, nella Bösendorfer Saal. Anche qui ci fu una sorta di zampino della Verklärte Nacht, poiché tutti gli interpreti furono gli stessi che avevano eseguito in prima assoluta questo lavoro cinque anni prima.
Anche Weigl, come altri diversi artisti austriaci e tedeschi per via del fatto di essere ebrei, fu costretto con la famiglia a lasciare la sua terra. Ciò avvenne all’indomani dell’Anschluß, a causa del quale il musicista viennese si vedeva negato ogni status sociale e l’impossibilità di guadagnarsi da vivere. Così, con la moglie Vally e il figlio, Weigl arrivò a New York nell’ottobre del 1938, aprendo di fatto un nuovo capitolo nella sua vita di uomo e di artista. Il trauma dell’emigrazione comportò differenti reazioni da parte di chi lo subì; se alcuni, come lo stesso Alexander Zemlinsky, che una volta giunto negli USA, dopo una fuga problematica e angosciante attraverso Praga e Rotterdam, non riuscirono più a comporre una sola nota, incapaci di integrarsi con una realtà e una lingua sconosciuti, altri, come Weigl, reagirono con rinnovata forza ed energia, adeguando la loro arte in una terra del tutto nuova e sconosciuta.
Così Weigl, negli ultimi undici anni di vita in America, morirà sette anni più tardi del suo maestro e mentore Zemlinsky, ossia nel 1949 a New York, ebbe modo di comporre diverse opere, come i Quartetti per archi nn. 6, 7 & 8, le Sinfonie nn. 5 & 6 e la Sonata per viola. Proprio il Quartetto n. 6 in do maggiore, che conclude il disco in questione, rappresenta un lampante esempio di come Weigl, nel suo periodo di “cattività” statunitense, seppe mantenere viva la testimonianza del grande retaggio della musica austriaca attraverso una pagina cameristica carica di Classicismo e di nobiltà strutturale. Sebbene sia stata scritta nel 1939, quando ormai la crosta del linguaggio tonale stava per essere staccata dalla ferita musicale, questa pagina quartettistica rappresenta un tributo dal sapore haydniano, e ciò soprattutto nel primo tempo, l’Allegro, in cui Weigl sprigiona un entusiasmo che sfiora un’esaltazione vitalistica, nonostante l’anno in cui fu scritto fosse già tra i più oscuri di tutto il Novecento. Il dolore, l’amarezza, la tragedia dell’esilio, però, traspaiono chiaramente nel secondo tempo, un Adagio “De profundis”, il cui richiamo ai tempi lenti degli ultimi Quartetti beethoveniani è altrettanto chiaro e immediato, con una netta scissione tra la prima e la seconda parte, con quest’ultima che si tramuta in un contrasto drammatico, quasi disperato, anche se poi ci pensa il tempo successivo, un Allegro ma non troppo di cui si veste lo Scherzo, dalle connotazioni mahleriane per via di sapori che virano sull’umoristico, a riequilibrare la dimensione “ottimistica” e positiva del Quartetto, sancita definitivamente dal Finale, un Allegro molto, la cui continua instabilità armonica rende questo tempo un esempio perfetto delle capacità compositive di Weigl.
Se il primo disco dedicato a Weigl dall’Ensemble Mark Rothko e da Albane Carrère era stato oltremodo convincente, questo è ancor più superbo ed entusiasmante. Cominciamo dal mezzosoprano francese che ha accettato e stravinto una sfida a dir poco ostica: affrontare con il suo registro una parte in Ein Stelldichein che non è per niente agevole, anzi. Questo perché la tessitura del canto porta a restare sul registro acuto con la volontà di trasferire alla voce la caratura di un “urlo”, di un grido che non deve restare strozzato o snaturato, ma restare canto in tutto e per tutto. E Albane Carrère lo fa benissimo, calandosi nel ruolo richiesto e sfornando una lettura che fa trasparire perfettamente la “spettralità” della pagina. Da parte sua, l’Ensemble Mark Rothko, formato da Carlo Lazari e Giada Visentin al violino, da Benjamin Bernstein alla viola e da Marianna Sinagra al violoncello nella formazione di quartetto, ai quali si sono aggiunti Chiara Foletto alla viola e Carlo Teodoro al violoncello in quello del sestetto, dev’essere entrato in contatto medianico con l’entità di Karl Weigl per come è riuscito a immedesimarsi nelle composizioni affrontate nel disco. L’intensità, la capacità di resa timbrica, la perfetta coesione delle parti (che nel Quartetto n. 6 raggiunge praticamente la dimensione ideale), l’equilibrio dato tra intensità espressiva e resa tecnica (Weigl è un autore dannatamente difficile in ciò), fanno della loro interpretazione un punto di riferimento davanti al quale inchinarsi e togliersi rispettosamente il cappello.
Questo è il mio Disco del Mese di dicembre, senza se e senza ma.Anche il lavoro effettuato a livello di presa del suono da parte di Gabriele Zanetti è di ottima fattura, questo grazie a una dinamica oltremodo energica, velocissima, ma anche dotata della necessaria naturalezza per esaltare la timbrica degli archi e le tessiture di Albane Carrère. Il palcoscenico sonoro ricostruisce bene sia la formazione cameristica nell’ambito del quartetto e del sestetto, con la presenza corretta del mezzosoprano leggermente avanzata in occasione di Ein Stelldichein, posti a una discreta profondità e con il suono capace di irradiarsi adeguatamente in altezza e ampiezza. L’equilibrio tonale si fa apprezzare per la messa a fuoco dei registri, che risultano essere sempre scontornati e il dettaglio vede dosi rassicuranti in quantità di nero intorno agli strumenti e alla voce, restituendo una matericità più che confortante.
- Karl Weigl – Chamber Works
- Albane Carrère (mezzosoprano) – Ensemble Mark Rothko
- CD Urania Records LDV 14118
Giudizio artistico 5/5
Giudizio tecnico 4,5/5
Correlati
Iscriviti alla nostra newsletter per rimanere sempre aggiornato.