A duecento anni esatti dalla sua nascita, il sommo compositore austriaco e la sua musica assumono un ruolo e un’importanza sempre più rilevanti, in grado di spazzare via le ultime incomprensioni, le ultime cattiverie e gli ultimi fraintendimenti che a lungo lo hanno separato ingiustamente dalla grandezza che meritano. Abbiamo voluto così ricordare questo anniversario, ricordando brevemente quegli aspetti che hanno causato al musicista tanta amarezza durante la sua vita e che hanno impedito di riconoscerne la sua genialità, oltre ad offrire a chi non conosce la sua produzione sinfonica una guida per saperla apprezzare e ammirare e, da ultimo, anche una discografia selezionata, con le migliori registrazioni da ascoltare
Di fronte a una figura, come quella di Anton Bruckner, così schiva, mite, timida, votata unicamente alla musica e alla fede verso Dio, e la cui vita è di una modestia a dir poco imbarazzante, il fatto di poterne parlare in occasione del secondo centenario della sua nascita fornisce la possibilità di abbozzare un quadro d’insieme, in cui i pochi eventi biografici si possono collegare con la sua geniale produzione sinfonica così a lungo sottostimata, incompresa, fuorviata e osteggiata più o meno apertamente. Ma anche adottando tale stratagemma, per presentare soprattutto a favore di coloro che non conoscono né Bruckner né la sua musica, non si può fare a meno di osservare che il compositore austriaco, come uomo e come artista, resta e resterà inevitabilmente un enigma misterioso e affascinante, la cui unicità storica rischia di essere ancora fraintesa. D’altronde, indagando sugli eventi che hanno contraddistinto la sua vita e la sua opera, non ci si può meravigliare del fatto che il musicista di Ansfelden ebbe solo pochissimi amici che cercarono di sostenerlo a ritagliarsi il suo spazio nel mondo della musica di quell’epoca, in un ambiente così colmo di rivalità, di invidia, di gelosia e di vendetta, al punto da spingerlo, in un momento di grande delusione e di profonda amarezza, nonostante la sua incrollabile fede cattolica, a pensare addirittura al suicidio. Quel piccolo nucleo di sinceri estimatori, di cui fecero parte un giovane Gustav Mahler e i direttori d’orchestra Hermann Levi, Arthur Nikisch, Felix Mottl e Ferdinand Löwe, riuscì infine a farlo apprezzare al pubblico del tempo, specialmente a Monaco, cercando allo stesso tempo di creare anche una sorta di “cordone sanitario” per preservarlo dagli attacchi, a volte perfino meschini, che i sostenitori brahmsiani, acerrimi oppositori dell’universo musicale bruckneriano, così come l’influente Liszt dalla sua “roccaforte” di Weimar e il famoso direttore d’orchestra Hans von Bülow, oltre al temuto “critico dei critici”, Eduard Hanslick, Hanslickperiodicamente gli lanciarono.
Questi strali furono lanciati contro un uomo decisamente remissivo, un artista rimasto ancorato alla cultura contadina del Vorarlberg, il territorio a nord dell’Austria nel quale era nato, dotato di una cultura limitata e senza alcuna pretesa intellettualistica e che, a livello musicale, oltre alla già citata cerchia di amici e ammiratori, fu difeso solo dal critico viennese Theodor Helm. Ma, al di là del fatto che solo alcune sinfonie di Bruckner cominciarono ad essere apprezzate soltanto verso la fine della vita del compositore, è indubbio che la sua fama di artista fu solo postuma, grazie ai diversi circoli bruckneriani che dopo la sua morte su sono diffusi e moltiplicati un po’ ovunque nel vecchio continente.
Così, a duecento anni dalla sua nascita e a centoventotto dalla sua morte, è il caso di fare finalmente un po’ di chiarezza sulla grandezza della figura bruckneriana, che si può condensare con una sentenza dello stesso compositore austriaco, che suona come un ironico ossimoro, ossia un “genio senza talento”, liberandolo da inevitabili luoghi comuni accumulatosi inevitabilmente nel tempo e fissando meglio, prima di affrontare il suo corpus sinfonico, quei punti sui quali si basa la sua unicità creativa. È indubbio che le nove sinfonie di Bruckner (anche se il loro numero effettivo è di undici, se consideriamo la Sinfonia n. 00 in fa minore risalente al 1863 e la Sinfonia n. 0 in re minore detta Die Nullte, composta sei anni più tardi) si fondano e si riallaccino sotto l’egida della grande tradizione classica austriaca e più precisamente a quella schubertiana ma, a differenza della visione del compositore viennese, risulta lampante in Bruckner una strumentazione orchestrale più roboante e marcata, anche per via del fatto che il musicista di Ansfelden fu influenzato da Wagner nell’elaborare una tecnica armonica più ricca e articolata, plasmata anche dall’uso di particolari strumenti della famiglia degli ottoni, come il corno-tuba e la tuba bassa, capaci di esaltare quella tipica forma architettonica votata alla grandiosità e alla magniloquenza. Questa peculiarità, applicata alla materia sinfonica, ha fatto sì che la musica di Bruckner in tale genere musicale rappresentasse un unicum, un’unicità che, come si è già accennato, il musicista austriaco ha pagato a carissimo prezzo (non è un mistero che, prima di una fredda, diplomatica e tardiva conciliazione avvenuta durante un pranzo, Brahms avesse definito testualmente il collega un emerito «idiota» e che si fosse fatto beffe della sua religiosità, affermando che la sua musica era soltanto degna di «quei fratacci di Sankt Florian», riferendosi all’abbazia agostiniana dove Bruckner fu sempre di casa).
A proposito della religiosità bruckneriana che si è riversata sulla sua musica, anche su quella squisitamente profana, come quella sinfonica: un annoso luogo comune punta il dito sulla tipica concezione organistica rintracciabile nella timbrica orchestrale del musicista austriaco. Questa affermazione è sorta osservando come Bruckner abbia plasmato sulla partitura la strumentazione dividendola soventemente per famiglie, ricreando così quelle tipiche contrapposizioni di registri presenti nella musica organistica del secondo Ottocento (si pensi a un César Franck); inoltre, si è notato come il sontuoso flusso sinfonico si bloccasse improvvisamente trasformandosi in autentici muri sonori, dando vita a effetti timbrici simili a quelli dati da un organo attraverso la sovrapposizione delle tastiere e della pedaliera in più raddoppi; e, ancora, su come Bruckner abbia saputo creare delle combinazioni di due o più linee melodiche, spesso affidate alla famiglia dei legni, in grado di dialogare contrappuntisticamente fra loro, cosa che si può fare con un organo che dà avvio a un divertimento di fuga suddiviso fra i due manuali. In realtà, quando Bruckner componeva in sede sinfonica non pensava all’organo, ma metteva a disposizione della sua strumentazione una dimensione metafisica, spirituale, addirittura liturgica, se vogliamo, capace di trasformare la massa orchestrale in un “respiro divino” in grado di trasmettere una vera e propria “febbre creatrice”.
Altro punto da chiarire è quello che riguarda i presunti influssi wagneriani sulla scrittura compositiva di Bruckner, al di là delle “citazioni” e dei tributi al sommo collega tedesco che il musicista austriaco immise nelle Sinfonie n. 3 e n. 7. Si è fatto spesso riferimento a come il compositore di Ansfelden abbia musicalmente applicato l’arte della transizione di tradizione wagneriana; ebbene, che Bruckner abbia ammirato Wagner non ci piove, ma che abbia mutuato tale tecnica per i propri fini non proprio: la sua architettura monumentale e metafisica non avviene attraverso una fase di transizione della componente armonica e melodica che non ha nulla a che fare con Wagner, né tantomeno nel copiare lo sfruttamento della sezione degli ottoni secondo le modalità del musicista tedesco. Che in ambito sinfonico nessuno abbia utilizzato strenuamente gli ottoni come Bruckner è pacifico, ma questo non significa che tale uso ricalchi il modello wagneriano, in quanto il timbro evocato dalle partiture bruckneriane trasfigura quello fatto dal collega tedesco. Se quest’ultimo inserisce gli ottoni nello sviluppo orchestrale, è il musicista austriaco ad ampliare ulteriormente la loro paletta espressiva, portando a una loro risolutiva emancipazione a scapito della loro usuale complementazione.
Le sinfonie
Al di là delle due primissime sinfonie, le già citate n. 00 in fa minore e la n. 0 Die Nullte, che non rientrano nel computo effettivo, forse per rinnovare il mito delle colonne d’Ercole relativo alla Nona sinfonia beethoveniana, che non avrebbe mai dovuto essere oltrepassato dai futuri compositori, la Sinfonia n. 1 in do minore, composta tra il 1865 e il 1866, rientra tra quelle ingiustamente più sottovalutate del corpus bruckneriano. Al di là di innegabili influssi provenienti da Beethoven e da Schubert, fin da questa prima prova “ufficiale” sono già lampanti le caratteristiche dello stile del nostro autore, nella fattispecie grazie alla già evidente costruzione polifonica e per via dei tipici crescendo, che si manifestano come una forza primigenia nel primo e nell’ultimo tempo. E che questa prima creazione sinfonica sia già importante, è confermato dal fatto che Bruckner la considerò negli ultimi anni della sua vita tra le opere migliori e più difficili da lui composte per l’audacia di alcune idee e di alcuni sviluppi strumentali, al punto che la sua esecuzione, all’inizio, risultò pessima proprio per le difficoltà tecniche che gli orchestrali furono costretti ad affrontare. Un’audacia che si manifesta sin dalle prime battute del primo tempo, un Allegro, contraddistinte da un ritmo di marcia che si tramuta in un trascinante irrompere dei tromboni che assurgono a una visione eroica, spezzata dal sorgere del secondo tema, intriso da un intenso sentore lirico. Allo stesso modo di grande impatto è il motivo che contraddistingue l’Adagio che segue, la cui caratteristica è data da una sorprendente ricchezza della linea melodica, dietro la quale, grazie all’indubbia efficacia della strumentazione orchestrale, si celano venature di rara efficacia psicologica. Lo Scherzo, poi, ha in sé quelle caratteristiche formali e timbriche d’impatto che saranno uno dei punti di forza assoluti del sinfonismo bruckneriano; qui, a dominare la scena, è l’esplosione di temi di chiara matrice popolare, così cari all’immagine legata alla cultura contadina e rurale vissuta dall’autore fin dalla primissima infanzia, mentre il Trio centrale fa quasi da controcanto al tema iniziale di questo tempo, visto che il compositore si lascia andare ad atmosfere danzanti che richiamano il gusto viennese. Ma è con il tempo conclusivo, il Finale, che questa sinfonia raggiunge il climax assoluto; la sua struttura e la sua drammaticità portano l’orchestra a dare vita a picchi timbrici di straordinaria efficacia, i quali lasciano poi campo a un segmento cantabile atomizzato dall’irruzione di un portentoso fugato, la cui funzione porta a una conclusione nella quale l’orchestra raggiunge il punto massimo di espansione timbrica.
Con la Sinfonia n. 2 in do minore si viene a realizzare uno dei classici modi di operare in ambito sinfonico da parte di Bruckner, ossia la volontà di revisionare diverse delle sue opere in questo genere musicale, dando origine a differenti versioni di uno stesso lavoro. Nello specifico, questa sinfonia fu realizzata fra il 1871 e l’anno successivo, mentre nel biennio 1875-76 fu sottoposta a una revisione radicale da parte dell’autore con l’aiuto di Johann von Herbeck e una terza ed ultima versione fu ancora apprestata nel 1877, la quale rappresenta quella che viene normalmente eseguita e registrata. Ora, rispetto alla Sinfonia n. 1, questa seconda opera rappresenta un passo indietro, in quanto Bruckner dovette far fronte a problematiche non indifferenti, le quali possono essere riassunte nella perniciosa influenza degli ambienti intellettuali viennesi e, di conseguenza, nel timore di agire in contraddizione con lo spirito conservatore incarnato dagli esponenti della cultura accademica dell’epoca, senza dimenticare la preoccupazione da parte del nostro autore di rendere il proprio linguaggio troppo difficile attraverso una scrittura strumentale alla quale gli orchestrali del tempo non erano di certo avvezzi. Alla luce di questi fattori, risulta chiaro il fatto che Bruckner dovette sentirsi in un certo senso “paralizzato” nel poter esprimere ancora quello stile aggressivo e “rivoluzionario” che aveva caratterizzato la sua Prima sinfonia. Questa specie di “paralisi” creativa può essere chiaramente percepita dal fatto che Bruckner si preoccupò di semplificare il flusso del discorso strumentale ricorrendo all’espediente di usare ampie pause nel corso della divisione dei singoli elementi o nello sviluppo tematico (ecco perché quest’opera fu ben presto soprannominata dalla critica Pausen-symphonie). Ma, con il senno del poi, non dobbiamo forzatamente considerare tale espediente un limite, ma inquadrarlo sia nei confronti della sinfonia in questione, sia in una prospettiva futura a largo raggio, nel senso che tale artificio fu argutamente utilizzato da Bruckner senza castrare la sostanziale originalità che contraddistingue l’intera arcata della Sinfonia n. 2, così come considerando l’espediente della pausa in sé quale elemento equilibratore del quale fece ampiamente uso nelle sinfonie successive. Ma, al di là di tali aspetti, vi sono altri elementi presenti in questa sinfonia che meritano di essere evidenziati, a cominciare da quello generale, dato dall’esaltazione di un clima musicale che risente dalla tradizione popolare. Basterà ricordare il secondo tema del primo tempo, con il gioco enunciato dai secondi violini, il quale ha un sentore eminentemente folkloristico, quello dello Jodel dell’Alta Austria, già sfruttato in passato da Haydn e da Schubert. Un altro spunto interessante è fornito dall’Andante che segue, la cui forma ricalca quella del rondò e il cui impiego diventerà usuale nei tempi lenti delle successive sinfonie bruckneriane. Il sapore popolareggiante emerge ancora nello Scherzo, contraddistinto dalla ormai tipica possente struttura orchestrale all’unisono, un sapore che appartiene alla tradizione musicale della Bassa Austria, incarnato dal tema principale di questo terzo tempo. Infine, il Finale si fonde sull’equilibrio formale del rondò con la sonata; tutto questo ultimo tempo presenta un’arcata che si esprime mediante tre temi e una citazione (altrettanto importante in Bruckner è la pratica del rimando, quasi sempre originata da una citazione proveniente da una sua opera sacra); in questo caso, il rimando proviene dall’Eleison finale della Messa in fa minore, composta nel 1868.
Affrontando il discorso che riguarda la Sinfonia n. 3 in re minore non si può non raccontare quanto avvenne nel corso della sua prima esecuzione, diretta dallo stesso Bruckner la sera del 16 dicembre 1877 a Vienna. Prima, però, è il caso di ricordare che la prima versione della Terza sinfonia, dedicata con ammirazione a Richard Wagner, risale al dicembre del 1873, poi Bruckner apprestò una seconda versione nel 1877, ossia quella presentata miseramente alla Musikverein di Vienna e, infine, una terza versione che il compositore di Ansfelden effettuò nel 1889 e che fu diretta il 21 dicembre dell’anno successivo a Vienna da Hans Richter con esito decisamente più felice. La resa dei conti che avvenne, a discapito del povero e avvilito Bruckner, tra il compositore e l’establishment musicale viennese durante quella serata del 1877, fu soltanto l’ultimo anello di una infausta catena che aveva preso forma allorquando il musicista era approdato nella capitale asburgica nove anni prima. Fin da subito, l’altezzoso e intellettualistico ambiente musicale viennese aveva fatto fatica ad accettare Bruckner, la cui figura impacciata e contadinesca, a dir poco trasandata nel vestire, talvolta rozza nel proporsi e nell’atteggiarsi, aveva suscitato ilarità e ammiccamenti ironici nelle aule dell’università e delle sale del conservatorio. Ma nell’autunno del 1877, la Gesellschaft der Musikfreunde offrì finalmente a Bruckner l’opportunità di presentare il suo ultimo lavoro, ossia la Sinfonia n. 3, in un concerto dei Wiener Philharmoniker diretto da Josef Hellmesberger. Quel lavoro stava particolarmente a cuore dell’autore, poiché era stato creato come un atto di venerazione nei confronti di Wagner, con lo stesso compositore austriaco che era arrivato al punto di recarsi personalmente a Bayreuth per offrire con deferenza la partitura a Wagner, il quale, anche in quella occasione non si smentì in fatto di arroganza e di protervia, visto che Bruckner fu costretto ad aspettare per qualche ora nell’anticamera, ricevendo alla fine elogi da parte del dedicatario, anche se non siamo per nulla certi che fossero sinceri. Prima di arrivare a quella famosa sera di dicembre del 1877 avvennero però due fatti che minacciarono di far saltare il concerto: la morte improvvisa di Johann von Herbeck, ossia di colui che aveva fortemente caldeggiato l’esecuzione del nuovo lavoro sinfonico di Bruckner, e la rinuncia di Hellmesberger a dirigerlo sul podio della Musikverein viennese. A quel punto, lo stesso Bruckner decise che sarebbe stato lui a dirigere l’orchestra. Ma quello che avvenne poi ha quasi dell’incredibile, visto che buona parte degli orchestrali, anch’essi nemici dichiarati della musica che avrebbero dovuto eseguire, decisero di boicottare la partitura durante l’esecuzione, inserendo volutamente note sbagliate sotto lo sguardo disperato e furioso del suo autore. Ne venne fuori un’interpretazione che praticamente non aveva nulla della partitura originaria, con il risultato che nel giro di qualche minuto ci fu una sanguinosa fuga da parte di quasi la totalità degli spettatori in sala, i quali, andandosene, si lasciarono perfino andare ad insulti e a scherni proferiti ad alta voce nei confronti di Bruckner. Rimasero solo una decina o poco più di presenti, in maggioranza suoi allievi di Conservatorio del compositore, fra i quali Gustav Mahler e Hugo Wolf, i quali lo applaudirono mentre Bruckner piangeva a dirotto. A completare il quadro catastrofico di quella serata da incubo, ci pensò la velenosa recensione di Hanslick pubblicata due giorni dopo sulle pagine del quotidiano Neue Freie Presse. Basterà leggere le poche righe che seguono e che riguardano quella celeberrima stroncatura per poter comprendere meglio come quello scritto intinto nel vetriolo diede di fatto inizio alla guerra tra Hanslick, in nome di Brahms, e lo stesso Bruckner che, volente o nolente, si trovò gettato inconsapevolmente in questa logorante e per certi versi vergognosa querelle per molto tempo. Quel passaggio di Hanslick recita testualmente: «Ci rincrescerebbe molto arrecare un dispiacere al compositore da noi sinceramente stimato come uomo e come artista, che tanta onestà dimostra nel fatto artistico da cimentarvisi raramente, perciò preferiamo confessare in tutta modestia che non abbiamo capito la sua gigantesca sinfonia. I suoi intenti poetici non ci sono risultati chiari – forse una fusione tra la Nona di Beethoven con la Valchiria di Wagner, che finisce di precipitare sotto gli zoccoli del suo cavallo – né siamo riusciti a comprendere la vera coerenza musicale».
Ad ogni modo, entrando nello specifico della cosiddetta Wagnersymphonie, come fu poi soprannominata, non mancano momenti davvero memorabili, come quello offerto dall’incipit, solenne e grandioso, con cui ha avvio il primo tempo, Mehr langsam, con il tema principale enunciato vigorosamente dalla tromba, il quale lascia poi spazio a un nuovo materiale tematico annunciato dalle trombe e dai tromboni e che si estende a tutta la compagine orchestrale coinvolta in un crescendo di grande effetto timbrico. L’Adagio che segue è suddiviso in tre temi: il primo delicatamente cantabile, il secondo più marcatamente sentimentale e il terzo più introspettivo e spirituale. Ma è, ancora una volta, nello Scherzo che si presenta il Bruckner più autentico e geniale, grazie a un’atmosfera di danza di spiccato gusto viennese che percorre l’intero tempo, che culmina in un nostalgico Ländler. Il Finale, al contrario, rappresenta il tempo meno convincente di tutta la sinfonia; se il tema principale è assai simile a quello iniziale del primo tempo, in modo da evidenziare la natura ciclica della sinfonia, prima che prenda avvio la maestosa coda affiora un ritmo di danza su un corale enunciato dagli ottoni, anche se il risultato appare alquanto magniloquente e poco efficace nella resa orchestrale.
All’interno del corpus sinfonico di Anton Bruckner, solo la Sinfonia n. 4 in mi bemolle maggiore, oltre ad essere con la Sinfonia n. 7 la più conosciuta ed eseguita, vanta un titolo di carattere descrittivo voluto dall’autore, ossia quello di Romantica. Ed è proprio con questo celeberrimo lavoro sinfonico, creato nel corso di uno dei periodi più difficili e incerti della sua vita, che il compositore austriaco ottenne il primo, timido successo nel corso di un’esecuzione pubblica, permettendogli di dare avvio a quel lento ma progressivo consolidamento della propria professione e a rendere più accettabile la sua situazione economica. La Sinfonia Romantica venne ultimata alla fine del novembre 1874, ma subito dopo, ancora una volta, Bruckner decise di rimettere mano alla partitura, intervenendo pesantemente per rendere l’opera più fruibile, sia a livello esecutivo, sia sotto l’aspetto dell’ascolto. Questa prima revisione si protrasse fino alla fine del settembre 1878, senza dimenticare che nel novembre di quello stesso anno il compositore confezionò un nuovo Scherzo, quello che descrive l’azione della caccia, destinato a diventare uno dei più celebri tempi della storia del genere sinfonico. Neppure questa nuova versione, però, riuscì a soddisfare l’esigente compositore, che volle riscrivere buona parte del Finale. Finalmente, il 20 febbraio 1881, la Romantica fu eseguita in prima assoluta alla Musikvereinsaal viennese, diretta da Hans Richter. Ma le vicissitudini della partitura, nonostante il successo di quella prima esecuzione, non finirono, visto che a rimetterci mano, più o meno arbitrariamente, furono dapprima il direttore Felix Mottl (nel dicembre 1881 a Karlsruhe, con la prima esecuzione di un lavoro sinfonico di Bruckner in Germania) e il collega Anton Seidl. Inoltre, la prima edizione a stampa, curata dal musicologo Ferdinand Löwe, ritoccata nella strumentazione con il consenso dello stesso Bruckner, fu sostituita da quella stabilita nel 1936 da Robert Haas, sulla base del materiale relativo alla prima esecuzione, a sua volta soppiantata dalla nuova edizione critica e definitiva di Leopold Nowak uscita nel 1975. Ancora una volta, Eduard Hanslick ci mise lo zampino, cercando di boicottare Bruckner e la sua musica. Infatti, nel 1875, ossia pochi mesi dopo aver terminato la prima stesura della Sinfonia Romantica, il potente critico viennese fece in modo che fosse respinta la richiesta del compositore di ottenere un incarico all’Università di Vienna, cosa che lo avrebbe anche aiutato a risollevare i suoi magrissimi introiti. A parte queste traversie, per quale motivo Bruckner ha voluto intitolare Romantische questa sinfonia, tale da farla rientrare, volenti o nolenti, nella cosiddetta “musica a programma”? Dagli appunti e dalle didascalie vergate dallo stesso autore, ma che non furono poi riportati nella partitura, il musicista di Ansfelden tracciò una sorta di intreccio di ispirazione storico-letterario, in cui visioni narrative di letterati come Ludwig Tieck e Ernst Theodor Amadeus Hoffmann si stemperano nei tipici soggetti avventurosi dei dipinti di Moritz von Schwind, proseguendo con l’epopea delle maestose cattedrali gotiche, fino al Lohengrin di Richard Wagner. Tuttavia, tutti questi riferimenti e le immagini che ne scaturiscono e che farebbero effettivamente pensare a una rappresentazione musicale squisitamente “romantica” non devono trarre in inganno, poiché l’apporto letterario e mitologico di chiara matrice germanica non appartiene alla visione estetica e culturale del compositore di Ansfelden, sempre che possa essere definita tale in Bruckner, uomo molto semplice e umile, anche per ciò che riguarda la sua formazione intellettuale. Semmai, bisogna concentrarsi solo sull’evocazione in sé della musica, un suggerimento, questo, che avrebbe reso felice un formalista di ferro come lo stesso Hanslick. E, a proposito di musica, vediamo quali sono i punti-cardine di questo capolavoro sinfonico. L’incipit del primo tempo, Mosso, non troppo veloce (Bewegt, nicht zu schnell), è racchiuso dalla coinvolgente esposizione del magnifico richiamo del corno, che si dipana sopra l’inquieto tremolo degli archi (una tipica soluzione del comporre bruckneriano). Ne segue un’articolata elaborazione orchestrale, al termine della quale prende forma il secondo gruppo motivico esposto dagli ottoni e che dà avvio al celebre “tema della cinciallegra”, formato da una suadente frase enunciata dalle viole e da un efficace disegno dei violini, destinato a farsi sempre più imperioso, con la marcata presenza della tromba e dei corni. A questo punto, dopo un breve passaggio in ppp, segue il rullo dei timpani e un suadente dialogo tra il flauto e il clarinetto, il quale introduce la ripresa dei vari motivi fino a quel momento esposti, per giungere infine alla coda, che si conclude sul fff dei corni, che ripropone nuovamente il corale “eroico” del motivo iniziale. Un fraintendimento ha sempre accompagnato il secondo tempo, un Andante quasi Allegretto, in quanto spesso considerato alla stregua di una “marcia funebre”. In realtà, questo brano è intriso di reminiscenze schubertiane. Se il primo tema viene evidenziato da un’accorata esposizione da parte dei violoncelli, il secondo motivo, enunciato dalla viola, passa agli archi con rapidi interventi fatti dai corni. Come già accennato sopra, il cosiddetto Jagdscherzo, oltre ad essere il tempo più famoso di tutta la sinfonia, è anche quello che si avvicina maggiormente al genere della musica a programma. Attraverso un tempo Mosso (Bewegt), agli occhi di chi ascolta si delinea una fantastica scena di caccia, simile a quelle raffigurate dal già citato von Schwind, con la muta che insegue la preda, le fanfare degli ottoni che richiamano i corni da caccia e i richiami dei cacciatori. All’inizio dello Scherzo, sono i corni a emergere su un tipico tremolo degli archi, culminante in un fff in cui ai corni si uniscono anche i tromboni e la tuba. Da ricordare anche il Trio centrale, formato da un Ländler dai consueti richiami rustici e agresti. Il Finale è il tempo più esteso della sinfonia e porta l’indicazione Mosso, ma non troppo veloce (Bewegt, dock nicht zu schnell) e prende avvio dapprima su una frase nebulosa, quasi indistinta, che ben presto viene sostituita da un’affermazione orchestrale di chiara matrice eroica. Degno di nota (e di ammirazione) lo sviluppo di proporzioni vastissime, il quale è genialmente assemblato dapprima dai singoli segmenti motivici che poi vengono riproposti modificando i loro principi armonici, alternati da telluriche esplosioni timbriche. La Coda si presenta con un tema esposto dalla tromba e dalla tuba e porta alla visionaria conclusione della sinfonia, basata ancora sul prorompente intervento “eroico” dei corni che va a investire tutta la massa orchestrale.
Se, in certo senso, la Sinfonia n. 4 fece da spartiacque tra le prime tre e le cinque che vennero dopo, permettendo a Bruckner di uscire finalmente e timidamente dal dimenticatoio in cui lo aveva confinato l’establishment musicale viennese, con Hanslick alla testa della muta dei paladini brahmsiani, è anche vero che la Sinfonia n. 5 in si bemolle maggiore, composta tra il 1875 ed il 1877, rappresenta una sorta di presenza isolata rispetto al resto del corpus sinfonico del musicista di Ansfelden. A puro titolo di esempio, proprio per far comprendere come questa sinfonia sia stata in parte travisata e fraintesa, basterà ricordare che dai contemporanei fu definita “fantastica”, oppure “tragica”, fino alla denominazione di “Sinfonia dei pizzicati”. Queste definizioni, tutte votate ad esprimere concetti opposti, ci fa capire come la Sinfonia n. 5 sia in fondo una sorta di “ibrido”; giustamente, il più grande studioso italiano della musica bruckneriana, Sergio Marinotti, ha fatto notare come nella Quinta Sinfonia convivano «accesi contrasti timbrici e dinamici» con «una altrettanto avveduta e puntigliosa attenzione contrappuntistica, un’altrettanta accurata connessione tematica», dando così modo di focalizzarne la sua essenza in una composizione, decisamente imponente ed estesa, che «appare quasi paradossalmente più sobria e severa, anche più segreta, insomma più classica». Ma per Bruckner il valore e il significato del termine “classico” ha un aspetto che aderisce con quello di “etico”, una specie di richiamo all’ordine, sia in ambito artistico, sia in quello esistenziale. E che questa sinfonia si distacchi in ciò da tutte le altre lo dimostra anche da come il compositore di Ansfelden la fa iniziare, quasi fosse un porgere la guancia in ossequio al tipico formalismo di impronta viennese, così caro a Hanslick, ossia con un’introduzione lenta nella quale l’autore, attraverso un apparato contrappuntistico, presenta di volta in volta tutti quegli elementi tematici inseriti nel contesto di questa sinfonia. A questa introduzione segue un ampio Allegro che presenta tre temi distinti, ma sottilmente concatenati, in modo da offrire all’ascolto una sorta di flusso ininterrotto; se il primo tema, pur contraddistinto dal “tradizionale” tremolo d’archi, si lascia andare a improvvisi impeti timbrici, il secondo è invece più tenue, perfino sconfinante nel cantabile, e che si chiude sulle note di una fanfara esultante che annuncia l’irruzione del terzo ed ultimo tema, votato, contrariamente ai primi due, a un vigore ritmato. Se il primo tempo è un flusso indistinto, l’Adagio che segue evidenzia una frattura nella proposizione dei due temi che lo formano e che si alternano tra quello che trasforma la massa orchestrale in momenti di fermento timbrico e quello, opposto, nel quale le varie sezioni strumentali si abbandonano a ritagli riflessivi, quasi di raccoglimento religioso. Lo Scherzo, sempre un punto di forza e di riferimento nell’universo bruckneriano, attinge dal primo tema dell’Adagio e lo adatta alle necessità plastiche e formali date dal contesto nel quale è ospitato, quindi esasperando quel fermento in un affanno che, a tratti, tracima in eruzioni timbriche che rasentano sentori collerici, anche se il Trio centrale, condito dal sottile dialogo tra flauti e corni, cerca di rasserenare e di stemperare il costrutto musicale. Il Finale della sinfonia è stato definito, reputo giustamente, un esempio supremo di come Bruckner fosse in grado, anche per via della sua padronanza della scrittura organistica, di maneggiare l’arte della fuga e del contrappunto, sulla quale aleggia lo spirito della Sinfonia Corale di Beethoven, visto che per instillare un afflato di ciclicità, il compositore austriaco immette gli elementi introduttivi dei temi precedentemente utilizzati. Inoltre, desumendo dalla grandiosa complessità di questo Finale, non si può fare a meno di rimarcare la genialità di quel passaggio, conchiuso nella prima cellula motivica, rappresentato da una fuga che si trasfigura, passando al tema successivo, in un delizioso incedere viennese per poi articolarsi, eroicamente, in un imperioso corale enunciato dai fiati.
Se si dovesse utilizzare un approccio fornito dal pensiero filosofico di Søren Kierkegaard, si potrebbe affermare che se la Sinfonia n. 5 rappresenta, come si è visto, il cuore etico della visione bruckneriana, la Sinfonia n. 6 in la maggiore incarna il passaggio a una dimensione religiosa, non tanto sotto l’aspetto meramente fideistico del termine, quanto di apertura futura alle dimensioni, alle concezioni, alle profondità offerte dal fantasmagorico trittico delle ultime tre sinfonie. Non per nulla, dopo aver ultimato la stesura della Sinfonia n. 6, che lo tenne occupato tra il 1879 e il 1881, Bruckner, quasi sorretto da un supremo anelito creativo, mise subito mano alla composizione della Sinfonia n. 7. Forse, anche per via di questa simultaneità che lo portò a dare vita a quello che viene considerato, soprattutto tra i musicofili, il suo capolavoro assoluto, la Sinfonia n. 6, per via della sua ricerca espressiva, del linguaggio che la permea e perfino per le sue dimensioni ridotte rispetto alle altre opere del corpus sinfonico bruckneriano, è sempre stata vista e recepita come una pagina minore, se non addirittura il “brutto anatroccolo” della situazione. Semmai, questa, tra tutte le sinfonie del compositore di Ansfelden, resta tuttora la più incompresa, in quanto va a ispessire ulteriormente quel senso di ripiegamento riflessivo che già aveva contraddistinto la Sinfonia n. 5. Un universo riflessivo tale da tramutarla in quella maggiormente confidenziale e intimistica (è nota la battuta con la quale lo stesso Bruckner volle identificarla, «Die Sechste ist die Keckste», vale a dire “la Sesta è la più sfacciata», nel senso “la più sincera”). Questa sincerità, espressione di un profondo sentimento sacro, non viene resa attraverso il consueto sfarzo orchestrale, soprattutto dalla sezione degli ottoni, anche se non mancano i fff, al punto di poter affermare che questo lavoro, in fondo, ricalca maggiormente lo schema di una sinfonia storico-ottocentesca più che quello marcatamente bruckneriano. Ma quali possono essere i momenti memorabili di questa sinfonia? I tre temi che formano l’architettura del primo tempo, quello che Bruckner, con un italiano maccheronico definì “Majestoso”: il primo tema, che si forma sotto il pulsare dei violoncelli e dei contrabbassi, straordinariamente solenne, e che lascia poi campo al secondo tema, il quale colpisce per la sua indubbia cantabilità e la cui lentezza espositiva rappresenta quasi una specie di trampolino dal quale prende slancio il terzo tema, contraddistinto da un clima eroico, il cui incipit è dato da un fff di tutta l’orchestra. Alcuni aspetti dell’Adagio che segue, poi, sembrano già presagire le atmosfere magiche, ipnotiche, atemporali di quello della Sinfonia n. 7, anche se qui la materia sonora vira improvvisamente in una desolata marcia funebre. Lo Scherzo è un piccolo, mirabile capolavoro, originale nella sua esposizione, con una prima enunciazione in cui la sezione dei violini, sotto il pulsare sommesso dei bassi, viene “disturbata” dai continui interventi dei legni, prima che irrompa un episodio la cui massa timbrica coinvolge tutta l’orchestra. Infine, il Finale, il quale non è stato esente da critiche (giustificate) per via di una costruzione non immune da pecche formali e stilistiche. Questo perché i tre temi dai quali è formato tendono a sovrapporsi talvolta in modo disordinato, poiché il gioco di pesi e contrappesi che sovrintende le idee esposte sfugge di mano a Bruckner, senza però svilire l’essenza più pura di tutta la sinfonia.
Per introdurre la Sinfonia n. 7 in mi maggiore, ci possono ancora aiutare le parole al vetriolo che, tanto per cambiare, Eduard Hanslick scrisse in sede di critica l’indomani della prima esecuzione dell’opera a Vienna nel 1886, dopo quella assoluta, avvenuta alla Neues Gewandhaus Großer Saal di Lipsia il 30 dicembre 1884. «Certo non era mai capitato a nessun compositore di esser chiamato alla ribalta quattro o cinque volte dopo ciascun movimento. Bruckner è il nuovo idolo dei wagneriani. […] Ammetto senza giri di parole di non essere in grado di giudicare con equilibrio questa Sinfonia di Bruckner, tanto mi sembra innaturale, rigonfia, malaticcia e putrescente. Come tutte le composizioni maggiori di Bruckner, anche la Sinfonia in mi maggiore contiene intuizioni geniali, passi interessanti, persino belli – qui sei, là otto battute – tra questi lampi però si spalanca un buio impenetrabile, una noia pesante come piombo e un’eccitazione febbrile». Al di là della consueta perfidia, il temuto critico viennese colse nel segno, poiché è indubbio che questa sinfonia presenta, e visto che parliamo di Bruckner potrà apparire a dir poco incredibile, un sentore quasi malsano, se non addirittura intriso di un’insospettabile sensualità, cosa che rappresentò il tipico fiammifero acceso all’interno di una polveriera, se teniamo conto del putiferio che scoppiò, quando questa sinfonia fu eseguita in Germania e in Austria, tra i paladini wagneriani (ormai già morto e sepolto) e, conseguentemente, bruckneriani, e quelli che parteggiavano per Brahms e, quindi, per Hanslick. Inoltre, non si devono dimenticare i motivi che portarono un regista quale Luchino Visconti, raffinato cultore della musica mahleriana e bruckneriana in un momento storico in cui nel nostro Paese i nomi di questi due compositori erano ancora quasi del tutto sconosciuti ai più, a scegliere proprio passaggi di questa sinfonia come colonna sonora nel 1954 per il suo film Senso. Ma, a dirla tutta, questa sinfonia avrebbe potuto essere perfino la colonna sonora ideale, in termini letterari, per accompagnare quel capolavoro della letteratura scapigliata qual è Fosca di Igino Ugo Tarchetti, trionfo dell’amore malsano, patologicamente irresistibile, che spinge un giovane ufficiale dell’esercito sabaudo a innamorarsi perdutamente di una donna di rara bruttezza e irrimediabilmente malata. Visconti, e ciò vale anche per Tarchetti se avesse avuto la possibilità di ascoltare questa sinfonia, comprese perfettamente che lo sprigionarsi, l’eruttarsi, lo srotolarsi coinvolgente e affascinante di quest’opera è basato sull’ammaliante e disturbante toccarsi degli estremi, di ciò che apparentemente a prima vista sembra inconciliabile, ma che poi, invece, diventa possibile, attuabile, con il logico capace di accettare in sé l’illogico (Hugo Wolf, che fu allievo di Bruckner e che morì a soli quarantatré anni in un manicomio, fu un entusiasta sostenitore della Sinfonia n. 7, nella quale si riconosceva totalmente). E, come se non bastasse, questo capolavoro fu dedicato da Bruckner a un altro personaggio passato alla storia più che altro per la sua “pura pazzia”, ossia Ludwig II di Baviera, ossessionato dalle sue esaltazioni e dalle sue patologiche fragilità. Come, dunque, non dare ragione a Hanslick quando cercava di mettere in guardia dalla meravigliosa e putrescente malia che si annida nella partitura di questo memorabile lavoro sinfonico? Come ci ricorda la storia, la prima esecuzione della Sinfonia n. 7, diretta da Arthur Nikisch, fu un vero e proprio evento, poiché non solo fu accolta con ovazioni da parte del pubblico, ma ricevette anche nei giorni successivi recensioni entusiastiche. Questo successo fu ulteriormente confermato, pochi mesi dopo, dall’esecuzione di Monaco, quando la sinfonia fu diretta da un direttore “wagneriano” come Hermann Levi. E ciò non può stupire se si considerano gli indubbi richiami che avvolgono questo capolavoro in nome del grande musicista tedesco, a cominciare dal fatto che Wagner morì proprio durante la stesura di questa sinfonia, proseguendo poi nell’incipit del primo tempo, l’Allegro moderato, con la sua proiezione di “melodia infinita”, la quale sale come una cattedrale timbrica e che ricorda le atmosfere parsifaliane e che sembra cedere alla fine da un momento all’altro per poi riprendere il suo estenuante cammino, anche se, a un attento ascolto, in realtà si comprende che ci si trova davanti a una straordinaria struttura che si suddivide, di volta in volta, in vari frammenti, ognuno dei quali rappresenta una creatura musicale perfettamente autonoma che si sovrappone a quella precedente e pronta ad essere fagocitata da quella successiva. Lo stemperarsi, il rendersi liquido trova poi elemento solido in due elementi motivici contrapposti, il primo di chiara matrice organistica, irradiato dai fiati, e l’altro, che coinvolge soprattutto la massa degli archi, maggiormente risolutivo e incisivo. Il leggendario Adagio che segue, una delle vette assolute della storia del sinfonismo, è un orizzonte sconfinato che non conosce limiti e che oscilla infinitamente tra due poli tematici che sono altrettanti sentieri emotivi da percorrere con il cuore trepidante, in balia dell’innocenza più pura da una parte e di abissi riflessivi dall’altra. Da qui inizia la scala di Giacobbe nella forma di un crescendo dato dalle spire degli archi che portano al dilaniante climax di questo tempo, al traumatico punto di rottura in cui l’orchestra letteralmente si ribella e che coincide, simbolicamente, con la notizia della morte di Wagner appresa da Bruckner; qui ha avvio la commemorazione funebre che il musicista di Ansfelden enuncia con commozione in memoria del suo “maestro”, un passaggio magico sorretto idealmente dalle quattro tube che Bruckner volle utilizzare proprio in nome di Wagner. Dalle acque stagnanti della rimembranza luttuosa all’olimpica positività: così può essere simboleggiato il passaggio dall’Adagio allo Scherzo che segue, nel quale il ritorno alla vita, al riassorbirsi del “tempo che diviene spazio”, avviene nel nome di una “classicità” che viene attuata su un modello compositivo votato alla semplicità dei mezzi utilizzati, il che rimanda inevitabilmente a Beethoven, soprattutto a quell’impulso ritmico che permea tutto lo Scherzo della Sinfonia Eroica e che ancora vede il galoppare della sezione degli ottoni prima che, all’improvviso, appaia alla vista un’oasi rarefatta sottoforma del Trio centrale. Il Finale è invece la consacrazione definitiva del “marchio di fabbrica” bruckneriano, frutto di un plasmare continuo dell’unità tematica che lo vitalizza di passaggio in passaggio. Ciò avviene con un perfetto e ininterrotto meccanismo di crescendo di tensioni che conducono fino all’affermazione conclusiva, satura di eroismo mistico.
Dopo le esecuzioni della Sinfonia n. 7 che ebbero luogo a Vienna e all’estero, si venne a creare una situazione alquanto particolare e paradossale; se da una parte la fama di Bruckner aumentava sempre più al di fuori dei confini austriaci, non solo nel vecchio continente, ma anche in America, come dimostra la direzione della Settima da parte di Theodore Thomas a New York nel 1886, acconta con entusiasmo e ammirazione, a Vienna, anche per via dell’implacabile legge critica dettata da Eduard Hanslick, le opere del compositore di Ansfelden continuarono ad essere considerate maggiormente con le molle, con il risultato salomonico di guardare sempre con sospetto alla sua produzione sinfonica, mentre sorte migliore fu riservata alla sua musica sacra, come nel caso del Te Deum, giudicato positivamente perfino dallo stesso Hanslick. Certo, i riconoscimenti cominciavano ad arrivare, visto che l’imperatore conferì al nostro autore la croce di cavaliere dell’Ordine di Francesco Giuseppe, e perfino il burbero e irascibile Brahms, conscio ormai del fatto che non era più il caso di portare avanti la diatriba tra i fautori della sua musica e quelli del suo “nemico”, decise di incontrare Bruckner in un pranzo organizzato appositamente, nell’ottobre del 1889, all’Istrice rosso, in una sorta di riconciliazione pubblica, con il compositore di Ansfelden che fu il primo a rompere l’inevitabile imbarazzo grazie a un motto di spirito che proferì, quando vide che Brahms aveva ordinato un piatto di Knödel: «C’è almeno un punto in cui ci troviamo d’accordo!». In questo clima che potremmo definire di accorta diplomazia musicale, avvenne a Vienna la prima esecuzione della Sinfonia n. 8 in do minore, esattamente il 18 dicembre 1892 alla Großer Musikvereinsaal, programmata da un ex nemico, ossia il brahmsiano Hans Richter. Ovviamente, in sala c’era ancora Hanslick, il quale, però, si alzò e lasciò la sala prima dell’esecuzione dell’ultimo tempo. Cinque giorni dopo, nella sua recensione apparsa su un quotidiano viennese, scrisse testualmente: «Peculiare anche nella nuovissima sinfonia… è il tentativo di fusione di un’asciutta erudizione contrappuntistica con una squilibrata esaltazione sonora. Così gettati qua e là tra ebbrezza e deserto, non raggiungiamo mai un’impressione stabile, un vero godimento artistico. Tutto scorre via senza sosta, disordinatamente, prolissamente… In ciascuna delle quattro parti, soprattutto nella prima e nella terza, c’è qualche spunto interessante, qualche lampo geniale che attrae, se non ci fosse tutto il resto! Può anche darsi che il futuro appartenga a questo frenetico stile… un futuro che certo non invidiamo». La solita dose di veleno stemperata con una zolletta di zucchero. Ad ogni modo, la Sinfonia n. 8 rappresenta la più vasta e ambiziosa opera concepita da Bruckner e non meraviglia, dunque, che la sua stesura gli abbia richiesto sei duri anni di lavoro, che iniziano nel 1884 e che vanno avanti con le consuete revisioni del 1887 e del 1890. Al di là del sentiero tracciato con la Sinfonia n. 7, quella successiva riprende in tal senso il principio della dilatazione spaziale e temporale del costrutto compositivo. Ciò avviene tramite un sapiente e maturo smantellamento del materiale motivico, che viene incessantemente ripreso, ampliato, ristretto, manipolato, ristrutturato, al punto che in un primo momento si pensò che Bruckner era ricorso al tipico artificio del Leitmotiv wagneriano. In realtà, con questo sistema compositivo Bruckner andò oltre tale artificio del suo “maestro”, in quanto la ripresa delle cellule motiviche non ha un valore di ripresa temporale, di rannodamento, bensì porta il costrutto a nuove varianti, che verranno poi riprese e perfezionate nel successivo sinfonismo mahleriano. Nel primo tempo, un Allegro moderato, colpisce come l’esposizione che prende avvio dal consueto tremolo dei violini, debba fare i conti con la presenza di improvvise pause che fomentano atmosfere tormentate, prima che l’orchestra prenda il sopravvento. Ma si tratta solo di un’impressione fine a se stessa, poiché anche il secondo tema, nonostante il suo evidente lirismo, non riesce ad avere la meglio sulla tensione accumulata precedentemente. Questo senso di gorgo opprimente continua con l’irruzione del terzo tema, che propone addirittura conclamate dissonanze. È qui che sorge, improvvisa, una fanfara esplosa dagli ottoni, ma che, contrariamente a quanto possa apparire, non ha un sentore di liberazione ma, come precisò lo stesso Bruckner, annuncia il sopraggiungere della morte. Da questo momento fino alla fine del primo tempo, la presenza della donna con la falce si irradia impregnando l’atmosfera sonora di una magmatica desolazione che si stempera dapprima nella dissolvenza e poi nel silenzio finale. Il secondo tempo non è un Adagio ma, come poi avverrà anche nella Sinfonia n. 9, lo Scherzo. Qui, abbiamo a che fare con un Bruckner decisamente “naturalistico”, con richiami isolati dei corni e con un sentore da banda montana data dagli ottoni che, alla fine, restituisce una connotazione umoristica, tipicamente “germanica” nella sua essenza, pur senza tradire o svilire tale atmosfera pastorale, quest’ultima rinvigorita nell’enunciazione del Trio centrale. L’ampio Adagio che segue sembra spazzare via sia l’opprimente atmosfera lugubre del primo tempo, sia l’ironia bucolica dello Scherzo; è come se l’autore si fosse voluto affidare alle pagine di un diario per annotare spunti intimi fatti di solitudine, di rassegnazione, così come di passione e di una mai sopita speranza, sotto la spinta del timbro scuro dato dagli ottoni (si noti, a tale proposito, la presenza rafforzativa delle tube). Da ciò, non si può fare a meno di notare come il tutto assuma un cromatismo di ascendenza wagneriana che prepara il territorio sonoro a un’immersione nelle profondità spirituali sulle quali si riflette l’anima ormai anziana del nostro autore. Se l’Adagio era stato di vaste proporzioni, il Finale è semplicemente enorme, le cui dimensioni sono ampiamente colmate dallo spessore eroico che lo contraddistingue. Un eroismo, dipinto dalle fanfare e da ritmi chiaramente marziali che non riescono a convincere completamente, ma che viene poi nobilitato da un suono più raccolto, meglio distribuito ed equilibrato che viene incarnato dal momento tematico centrale e che riprende nella sua classicità la grande tradizione sinfonica del passato. Sembra quasi di assistere a un atto di omaggio, con Bruckner, che inevitabilmente avverte il proprio tramonto esistenziale, che si volta per inchinarsi con deferenza, lasciando che gli eventi musicali che lo hanno preceduto possano scorrere davanti ai propri occhi e che, simbolicamente, vengano raggrumati, verso la fine dell’ultimo tempo, attraverso un processo di ricapitolazione tematica di quanto esposto nel corso del Finale.
Secondo Sergio Marinotti, quando Bruckner affrontò la stesura della Sinfonia n. 9 in re minore, era ormai conscio del fatto che questa sarebbe stata la sua ultima creatura musicale. Quindi, nemmeno a lui il destino concesse il privilegio di superare la soglia del numero nove, fissata volente o nolente in precedenza da Beethoven con la sua Corale. Ma, in questo caso, il destino fu ulteriormente amaro per il compositore di Ansfelden, in quanto la morte lo colse prima ancora che finisse di scrivere l’ultimo tempo, lasciando così la sinfonia incompleta, incompiuta, come la celeberrima Sinfonia in si minore di Schubert. E poco importa, come invece avvenne in seguito per via di accesi dibattiti tra storici della musica e musicologi, se l’ultimo lavoro bruckneriano non fu ultimato dal suo autore per via del sopraggiungere della morte o se il musicista si rese conto di non essere in grado di proseguirne la sua elaborazione, facendo sì che la sua incompiutezza formale si trasformasse in una compiutezza creativa. Storicamente, sappiamo che Bruckner compose i primi tre tempi della sinfonia, partendo da abbozzi risalenti al 1887, tra il 1891 e il 1894, mentre altri abbozzi del tutto lacunosi, concernenti il tempo finale, possono essere databili tra il 1894 e il 1896, l’anno della morte. Resta, come testimonianza tangibile del fatto che questa fosse l’ultima creazione artistica prima che la porta della vita si chiudesse per aprire quella dell’aldilà, la dedica che Bruckner vergò sul frontespizio della partitura, Dem lieben Gott, ossia “Al buon Dio”, come se avesse voluto accomiatarsi dalla vita terrena, offrendo tale capolavoro a colui che avrebbe potuto accoglierlo in quella ultraterrena. Come a dire che, quando Bruckner affrontò la Sinfonia n. 9, il suo pensiero non era più legato alla materia, ma solo allo spirito assoluto. Anche per questo motivo, l’ultima sinfonia bruckneriana si trasforma in uno strumento straordinario per sfidare la dimensione temporale delle cose per essere elemento atemporale attraverso il primo e il terzo tempo che sono di una lunghezza abissale, dando così vita a un flusso ininterrotto nel quale l’ascoltatore viene avvolto, avviluppato, condotto per mano verso altri territori mai battuti prima. Tutto viene portato all’estremo, dilatato fino allo sfinimento più sublime dall’alternarsi dei temi che si succedono. Sorgendo misteriosamente mediante il solito tremolo d’archi, il primo tema del primo tempo, Feierlich. Misterioso, affiora e progressivamente prende vita, si espande tra minacce timbriche, come quello instillato dal richiamo dei quattro corni che sale e scende imperiosamente o dalle sciabolate telluriche esplose da tutta l’orchestra. Al contrario, il secondo tema è un cantabile enunciato dagli archi che si dipana tranquillamente, coinvolgendo in tale placidezza anche i legni e un corno in un continuo prendersi e abbandonarsi. Il proseguo del tempo fino alla conclusione si articola con eclatanti contrasti timbrici, pause improvvise che lasciano campo a ondate telluriche. Anche lo Scherzo che segue non è nel segno della tradizione bruckneriana adottata nelle precedenti sinfonie, ossia presentando atmosfere più distese, ma è impregnato da una serpeggiante inquietudine scolpita da un ritmo a dir poco ossessivo, incalzante. Perfino il Trio centrale è costruito su un continuo gioco di luci e di ombre che non rasserenano minimante il tutto. Ed eccoci all’ultimo tempo, l’Adagio, definito dallo stesso Bruckner in un’annotazione riportata sulla partitura l’“Addio alla vita”, in cui la sua costruzione avviene tramite segmenti che si materializzano in modo tale da offrire un quadro caotico, indistinto, nel quale la materia resta sempre a livello magmatico. Nel suo incipit colpisce, anzi atterrisce, un accordo dissonante di cinque note diverse che sembra fare piazza pulita di ciò che era stato gettato precedentemente, come a fare piazza pulita e offrire un qualcosa di completamente diverso, di più propositivo, enunciato da tutta l’orchestra con un anelito trionfante. E, dopo un ultimo momento di incertezza, ecco l’intervento provvidenziale dei corni che srotolano un tema pregno di metafisica serenità, che viene prontamente ripreso dagli archi: siamo al già citato “Addio alla vita” in cui Bruckner sembra annunciare al mondo la sua prossima dipartita. Ma, attenzione, oltre alla propria fine, il compositore di Ansfelden annuncia allegoricamente anche un’altra fine, quella che concerne un sapere musicale ormai prossimo a chiudersi la porta alle spalle, un addio a una visione artistico-culturale che riguarda un intero mondo, quello incarnato dal potere asburgico, avviato alla catastrofe del primo conflitto mondiale. Con la morte dell’Ottocento musicale, ci dice Bruckner, non finisce solo una tradizione sonora, ma è l’intero “mondo di ieri”, per citare il capolavoro letterario di Stefan Zweig, che si deve accomiatare per lasciare spazio alla barbarie del Novecento.
Alla fine di questo viaggio alla scoperta di Bruckner e della sua opera sinfonica, c’è un’immagine che dev’essere ricordata, annotata e riflettuta, quella che ci riporta all’ultimo incontro che avvenne a Bayreuth tra il compositore di Ansfelden e Wagner, avvenuto pochi mesi prima della morte di quest’ultimo, quando, al momento di salutarsi, il musicista tedesco, con commozione, mise le mani sulle spalle di Bruckner pronunciando parole a dir poco profetiche: «Io non conosco che un uomo che può avvicinarsi a Beethoven! Bruckner!». Conoscendo Wagner, non sappiamo quanto siano state sincere oppure di semplice circostanza ma, comunque sia, il tempo successivo ha dimostrato che erano giuste, mirate nell’affermare la grandezza di un “profeta” che non è stato solo l’ultimo cantore di un’epoca irripetibile, ma anche e soprattutto l’artefice di una visione che con lui ha raggiunto l’apice per poi tramutarsi in un soggiogante abisso. Così, la storia non si è dimenticata di questo figlio non riconosciuto, soprattutto nella sua patria, al punto che poi la tradizione, e questo sia nei Paesi di lingua tedesca, sia in quelli anglosassoni, ha fatto sì che nascesse la leggenda della celebre definizione che vede in Bruckner la “quarta B” della storia musicale, dopo quelle incarnate da Bach, da Beethoven e da Brahms.
E se quest’ultimo, che in fatto di commenti al vetriolo non fu certo secondo a Wagner, definì Bruckner «un pover’uomo privo di senno», oggi sappiamo che la realtà e la verità delle cose sono fortunatamente ben diverse. Il fatto che il nostro autore, a differenza di altri colleghi altrettanto famosi, abbia avuto una vita senza storia, anonima, fatta di una quotidianità incentrata solo sul suo lavoro umile e appassionato e sul pensiero rivolto costantemente al suo Dio, non significa che la mancanza di gesta eroiche, titaniche, eclatanti, di avventure da spezzare il fiato debbano relegarlo in una dimensione circostanziata e limitante, tale da influenzare il nostro giudizio a posteriori. Resta la sua opera, unica nel suo genere, e mentre guardiamo Bruckner, un’ultima volta, che alza leggermente e timidamente il braccio a mo’ di educato saluto, circonfuso da quel commovente accordo in mi maggiore, con il quale si conclude magicamente l’Adagio della sua ultima sinfonia, siamo consci del fatto che d’ora in poi, quando ci avvicineremo alle sue composizioni, dovremo pensare a lui come a un profeta che finalmente può e dev’essere ascoltato. In tutto e per tutto.
Discografia selezionata e consigliata
Integrale sinfonica: Eugen Jochum – Staatskapelle Dresden, Warner Classics (cofanetto 9 CDs)
Sinfonia n. 1: Herbert von Karajan – Berliner Philharmoniker, Deutsche Grammophon (2 CDs)
Sinfonia n. 2: Carlo Maria Giulini – Wiener Symphoniker, Testament (1 CD)
Sinfonia n. 3: Lovro von Matačić – Philharmonia Orchestra, BBC Legends (2 CDs) – Jascha Horenstein – London Symphony Orchestra, Urania Records (streaming)
Sinfonia n. 4: Wilhelm Furtwängler – Wiener Philharmoniker, Music & Arts (1 CD) – Otto Klemperer – Concertgebouw Orchestra, Tahra (1 CD)
Sinfonia n. 5: Hans Knappertsbusch – Munich Philharmonic Orchestra, Urania Records (streaming)
Sinfonia n. 6: Günter Wand – Sinfonieorchester des Norddeutschen Rundfunks, RCA (1 CD) – Wilhelm Furtwängler – Berliner Philharmoniker, Music & Arts (1 CD)
Sinfonia n. 7: Eduard van Beinum – Royal Concertgebouw Orchestra, Urania Records (streaming) – Giuseppe Sinopoli – Staatskapelle Dresden, Deutsche Grammophon (1 CD)
Sinfonia n. 8: Wilhelm Furtwängler – Berliner Philharmoniker, Urania Records (streaming) – Carlo Maria Giulini – Philharmonia Orchestra, BBC Legends (2 CDs)
Sinfonia n. 9: Evgenij Mravinskij – Orchestra Filarmonica di Leningrado, BMG (1 CD) – Siegmund von Hausegger – Wiener Philharmoniker, Urania Records (streaming)
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