Tre allievi della celebre chitarrista e didatta Laura Mondiello, Marco Emmanuele, Alessia Mattiazzi e Roberto Zadra, hanno registrato per l’etichetta Stradivarius le trascrizioni per il loro strumento delle Suites n. 2, 4 & 1 per violoncello del sommo Kantor in ossequio di una pratica esecutiva che, pur nel rispetto delle rispettive individualità, si ricollega idealmente al fecondo insegnamento della loro illustre docente

Il termine “trascrizione” trova ovviamente in Johann Sebastian Bach e nella sua musica il pieno valore semantico, la sua concretizzazione assoluta in chiave concettuale e ci permette di cogliere la realizzazione di un procedimento multiversale che ha origine in un punto per poi trasmutarsi in un altro punto senza tradire, nel corso di questa fase di trasmigrazione, il suo contenuto e la sua essenza, come a dire che l’essere continua a manifestarsi in un altro divenire. Il fascino di tale mistero fu colto pienamente da colui che avvertì come nessun altro ciò che si cela nella pratica della Bearbeitung bachiana, vale a dire Ferruccio Busoni, il guardiano della trascrizione del sommo Kantor, colui che tradusse sul piano di un sapere estetico la dimensione del mutamento, del cambiamento in un infinito processo di rinnovamento attraverso lo sfruttamento della materia armonica e contrappuntistica che è insita in ciò che dev’essere, per l’appunto, trascritto.

Un’ulteriore testimonianza di questo miracolo artistico, di questo processo di transustanziazione sonora ci viene adesso offerto da un disco, pubblicato dall’etichetta Stradivarius, che rappresenta il risultato di un progetto didattico/formativo voluto dalla chitarrista Laura Mondiello, la quale, nel suo ruolo di docente di chitarra presso il Conservatorio Monteverdi di Bolzano, ha voluto premiare e, allo stesso tempo, responsabilizzare tre suoi studenti, già avviati al sentiero dell’attività artistica e concertistica, coinvolgendoli nella registrazione di altrettante Suites per violoncello bachiane trascritte per chitarra. Così il ventisettenne trevigiano Marco Emmanuele ha inciso la Suite n. 1 BWV 1007 in sol maggiore (trascritta per chitarra in re maggiore), mentre la ventottenne veneziana Alessia Mattiazzi ha registrato la Suite n. 2 BWV 1008 in re minore (trascritta per chitarra in si minore) e il ventiseienne bolzanino Roberto Zadra ha eseguito la Suite n. 4 BWV 1010 in mi bemolle maggiore (trascritta per chitarra in sol maggiore), per questo progetto che è stato dedicato in memoria del liutaio tedesco Fritz Ober, scomparso prematuramente nel 2020.

La chitarrista e didatta Laura Mondiello, fautrice di questo interessante progetto discografico.

Perché la scelta è caduta proprio su queste tre Suites? La trascrizione non è solo restituzione, ma prima di tutto esplorazione. Ed esplorare vuol dire trasmissione di ciò che è epifanicamente concepibile nella sua realizzazione materica e, in questo caso, nella fase di passaggio tra il violoncello e la chitarra classica, la volontà di tale scelta, a mio modo di vedere, è stata quella di scansionare la materia sonora di questi capolavori in un risultato che fosse contemporaneamente votato a un’immagine ologrammatica dell’architettura armonico/contrappuntistica e alla fissazione “scultorea” della delicatezza melodica che li contraddistingue, senza dimenticare che nella tracklist del disco in questione, si è voluto fornire simbolicamente una visione che dal discendente aspira all’ascendente, visto che l’ordine di esecuzione prevede dapprima la Suite n. 2, seguita dalla Suite n. 4 e, infine, dalla Suite n. 1. È come se le tre chitarre avessero voluto imbastire un senso figurativo nel teatralizzare il passaggio “dalle stalle alle stelle”, che a livello linguistico/semantico assume la trasmutazione di ciò che è scatologico in e/scatologico, vale a dire di un qualcosa che proietta sentori di escrementi, che ha in sé una dimensione volgare, propriamente terrena, emanazione simbolica di un’orizzontalità appiattente, in un progressivo cambiamento che, mutando la linea orizzontale in una verticale, porta alla manifestazione di un principio che è il cuore stesso di un fine ultimo destinato a fissarsi nell’immensità del cielo stellato, emanazione di un uno che tutto è e tutto racchiude. Dunque, questo è un viaggio che è la proiezione di un imbuto rovesciato, con l’apertura rivolta verso l’alto e con il collo che ne rappresenta l’ingresso dal basso, similitudine di un corpo umano la cui materia si affina salendo dagli intestini fino ad ascendere alla massa cerebrale, sede anche di un afflato mistico destinato a purificarsi dallo σκῶρ intestinale per potersi finalmente approssimare alle stelle.

Non è un caso che questo viaggio ascensionale prenda corpo con un simbolico incipit definito dal Prélude della Suite n. 2, la cui consistenza si realizza attraverso la sua frammentazione in brevi incisi il cui moto ascendente si evidenzia soprattutto quando vengono sottoposti a cesure e sospensioni sulla nota più alta, e con le successive Allemande e Courante che rappresentano la fase di contrazione e di distensione, facendo sì che la scansione metrica da loro espressa diventi sempre più scorrevole e tranquilla. L’irradiazione concentrica di tali pulsioni si permea, si circonfonde nella Sarabande centrale, cuore del tragitto intestinale, luogo nel quale albergano le tormentate articolazioni ritmiche e melodiche, puntellate dalle mirabili istanze polifoniche, articolazioni che hanno uno scopo ineludibile, la trasmissione di un dolore che viene solo parzialmente redento, innalzato dal secondo dei due Menuets, l’unico tempo dei sei che formano la Suite ad essere in tonalità maggiore, a diffondere un balsamo di distensione. Anche la Gigue finale, dopotutto, termine del tratto scatologico di questo viaggio iniziatico, vanta un carattere che cerca di evidenziare uno strappo, una sorta di forzatura al clima oscuro che ammanta la composizione, una pompa che, per via delle sue bizzarrie ritmiche, dà l’impressione di spingere verso l’alto, ossia verso la tappa successiva.

È la volta della Suite n. 4, la “terra di mezzo” tra la parte bassa e quella alta, suprema. Anche qui, il DNA della composizione è fissato, stabilito dal Prélude iniziale, pietra miliare che indica la via, le cui istruzioni possono essere lette chiaramente, poiché la luce è più diffusa, più forte, grazie all’energia fornita dalla centrale elettrica rappresentata dal sol maggiore (qui trasposta sul mi bemolle maggiore). Luce calda rasserenante e, soprattutto, depurante, i cui filtri sono dati da quella serie di episodi che si formano nell’alternarsi di riprese dello spunto ritmico iniziale con quelle che possono essere definite delle cadenze intrise di sagace virtuosismo. Per danzare bisogna che la scena sia illuminata a dovere, per sapere dove poggiare i piedi, per vedere i confini di ciò che si calpesta, e i tre tempi che seguono, l’Allemande, la Courante e la Sarabande, nulla hanno a che vedere con quelli della Suite precedente. Una danza che prende avvio con la patina di raffinata eleganza dell’Allemande, per poi farsi più ardita, più audace grazie a una Courante che incoraggia la dimensione ritmica per via delle sue figurazioni in terzine e vivacissima, mentre la Sarabande è un profluvio di lirismo in cui i mastri gotici hanno innalzato arcate melodiche, facendo forza sulle fondamenta date dei ritmi puntati. Come non notare, a questo punto, come la materia musicale diviene, a partire dalle due Bourrées fino alla Gigue finale, un trionfo di acquisita lievitazione, di soffice innalzamento in cui primeggia l’albume del chiarore? L’incalzare dell’ultimo tempo, difatti, non ha nulla di invadente, di tellurico, ma è un incedere di scorrevolezza, un ruscello le cui acque, sfidando le leggi gravitazionali, scorrono verso una sorgente posta su alture che ancora non si possono vedere, spinte da un delizioso metro di 12/8. Ed è lì, su quelle alture che inizia il regno della Suite n. 1.

Qual è il mistero che testimonia quest’ultima composizione, che in codesto disco è da intendersi come punto di approdo? L’idea di sconfinatezza, di un orizzonte che non ha inizio e non ha fine, dato dal supremo Prélude (chi ha visto quel meraviglioso film di François Girard, Thirty Two Short Films About Glenn Gould, sa perfettamente a che cosa mi riferisco), poiché qui il tempo cessa di manifestare i suoi effetti. Tutto viene assorbito, implode, regno di un’entropia rigenerante e mai dissolvente, nel quale un’idea semplicissima, una serie di arpeggi spezzati, sprigiona un’energia che è fatta di stasi, edificando una linea la cui tessitura è un cerchio melodico che non ha volume, come se fosse prodigiosamente sospeso nel nulla, un puro nirvana sonoro. Se vogliamo intendere tutto questo viaggio come un’esperienza alchemica, questo è il momento nel quale la materia comincia a dissolversi, per dare inizio al processo del dissolvimento, ossia della merda (σκῶρ) che si trasforma in profumo che nutre un giardino celeste. Ma anche il paradiso, evidentemente, ha un suo ordine, una sua logica, come quella richiamata e manifestata dalla filosofia medievale, ordine del numero che genera perfezione metafisica. Ecco, allora, che l’Allemande assolve tale funzione: la sua formulazione ritmico-melodica dà sostanza acustica alla logica di tutto il costrutto, arricchita da un’ornamentazione in chiave ascendente, come dire che in questo luogo lo spazio ha un senso ultimo, matematico, perfetto. Anche l’alterazione, il mutamento subitaneo della forma, la sua elasticità geometrica possono rientrare in tale dominio di perfezione spaziale, come dimostra la successiva Courante, dove i nuclei tematici ricompaiono a tratti speculari, ma sempre con un colore diverso e rinvigoriti dal geniale mutamento dei registri. A proposito di specularità, simbolo di una perfezione che si riflette all’infinito, ecco la Sarabande, il cui tessuto introverso, come un fiore che chiude i suoi petali, non perde un’oncia della sua cantabilità, scolpita dalla struttura di otto battute presentate specularmente per due volte. I due Menuets rappresentano l’ultima manifestazione di quella materia solida che il processo di dissolvimento sta mutando in modo irreversibile, testimonianza di lontane danze, melanconiche, in cui i danzatori si confrontano nella loro terrena solitudine prima di ascendere alle sfere empiree. E la Gigue finale è il compimento dell’opera: nulla di trascendentale nella forma, poiché la sostanza ormai si è dissolta, lasciando spazio solo a un sentore di spirito, il cui sapore rimanda a note di larvata dolcezza. Forse, lo stesso sapore che fa da collante all’immagine che abbiamo delle stelle.

All’ombra rassicurante e stimolante di Laura Mondiello. Così potrei definire la lettura fatta da Marco Emmanuele, Alessia Mattiazzi e Roberto Zadra, in quanto le loro interpretazioni vantano a mio avviso quel chiaro marchio di fabbrica che contraddistingue la loro illustre docente: lucidità del fare esecutivo, bellezza espressiva del gesto che si riflette sulla pulizia timbrica, capacità di esaltare un fraseggio in grado di mettere in rilievo la dimensione melodica e l’articolazione contrappuntistica. Inoltre, tutti e tre, pur nelle loro debite caratteristiche esecutive individuali, il che ci fa comprendere come Laura Mondiello abbia saputo proporre e non imporre gli strumenti didattici per affrontare al meglio il fascino e il mistero dell’arte interpretativa, propongono un quadro d’insieme delle Suites da loro affrontate in cui viene mantenuta salda ed espressa compiutamente la concezione della danza/tempo bachiana, ossia quel saper gestire lo svolgimento espressivo del segno con il pieno rispetto del senso ritmico che le avviluppa. Questo perché non si può affrontare in modo pienamente convincente la musica del sommo Kantor se non si comprende, prima di tutto, la sua visione d’insieme, la sua portata sempre in bilico tra dimensione tecnica e profondità spirituale (e questo vale anche per ciò che riguarda il suo repertorio profano), la sua ricerca di riproposizione (e in ciò rientra anche la pratica trascrittiva che ne deriva) di un materiale sonoro che viene sondato, esplorato, mutato sulla base di una matematica che in Bach fa sempre rima con anima.

Il liutaio tedesco Fritz Ober, scomparso prematuramente nel 2020 e al quale è stata dedicata in sua memoria questa registrazione.

La presa del suono, curata da Andrea Dandolo e avvenuta nella Sala Michelangeli del Conservatorio Monteverdi di Bolzano, è indubbiamente di ottima fattura. La dinamica è adeguatamente energica, assai veloce e presenta una piacevolissima naturalezza, il che permette di apprezzare la bellezza del timbro delle due chitarre utilizzate per la registrazione, entrambe create proprio da Fritz Ober. La ricostruzione dei tre interpreti, per ciò che riguarda il parametro del palcoscenico sonoro, li vede al centro dei diffusori, anche se in modo alquanto ravvicinato, senza però che ciò pregiudichi la correttezza spaziale. Altrettanto assai valido è l’equilibrio tonale, la cui importanza, per questo tipo di registrazioni, è fondamentale; il registro acuto e quello medio-grave sono sempre perfettamente riconoscibili e messi a fuoco, senza la minima presenza di sbavature o di improvvidi sbilanciamenti. Infine, il dettaglio vede la presenza di moltissimo nero, capace di scontornare gli strumenti e gli esecutori, restituendo di conseguenza una notevolissima matericità, con il risultato di offrire un ascolto decisamente “tattile” e realistico.

Andrea Bedetti

  • Johann Sebastian Bach – Three Cello Suites transcribed for guitar
  • Marco Emmanuele – Alessia Mattiazzi – Roberto Zadra (chitarra)

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