alcune considerazioni estetiche e musicali (parte III)
A beneficio soprattutto delle nuove generazioni che non conoscono ancora la grandezza del direttore tedesco e prendendo spunto dalla registrazione dal vivo dell’integrale sinfonica di Johannes Brahms, messa a disposizione nel formato liquido dalla CBH MUSIC, ecco alcuni spunti che possono far comprendere meglio la sua visione interpretativa, sempre in bilico tra classicismo apollineo e romanticismo dionisiaco, alla ricerca di un gesto che non fosse solo eminentemente tecnico, ma votato ad esprimere un’insondabile spiritualità
La sovrana capacità interpretativa di Furtwängler si manifestò proprio nel sapere individuare queste componenti, di compositore in compositore, di epoca in epoca. Se il virtuosismo fine a se stesso rappresentava la via più facile e immediata, quella di maggior presa nei confronti del pubblico (non per nulla Furtwängler, dopo aver diretto alcuni concerti per pianoforte in America con Horowitz, ebbe modo di definirlo il musicista «più antimusicale che abbia mai conosciuto»), la ricerca esasperata dell’aspetto armonico si avviava ad intraprendere il cammino più difficile e arido (penso ad alcune interpretazioni delle musiche di Wagner, in particolar modo del Parsifal, effettuate negli anni Settanta da Pierre Boulez, glaciali, oggettive e prive di ogni sentimento). Al contrario, da parte sua, Furtwängler cercò d’indicare una terza via, quella in cui «la vera potenza creativa, la vera arte, non ha nulla a che fare con la pura esercitazione tecnica». Questa visione, che ha fatto superficialmente definire il musicista e direttore germanico un «romantico per eccellenza», Wilhelm Furtwängler l’ebbe presente fin dal suo ingresso nel mondo dell’interpretazione orchestrale. Ecco perché, tra i tanti rimpianti che ebbe durante la vita, il più grande fu quello di non aver potuto conoscere Wagner, non solo come compositore, ma soprattutto come direttore d’orchestra. Dopo aver letto tutto quello che il compositore di Lipsia aveva scritto sull’arte del dirigere, e aver ascoltato da alcuni le testimonianze del suo modo di interpretare, Furtwängler si convinse ben presto che Wagner, come direttore d’orchestra, era stato semplicemente unico, archetipo incontrovertibile del modo d’intendere la ri-elaborazione musicale. Non per nulla, nel 1918, quando Furtwängler scrisse un saggio su Beethoven, precisò che Wagner era stato «il primo a indicare quel lieve e pur costante cambiamento nella misura di tempo, che è il solo in grado di fare quel pezzo di musica rigido, classico e, per così dire, “suonato secondo la copia stampata”, qualcosa che nasce e cresce, un fenomeno vivo… ». Insomma, per Furtwängler Wagner era stato di fondamentale importanza perché fu tra i primissimi a capire che il compito di un interprete è di «dirigere ciò che sta dietro le note». Da qui la celebre suddivisione furtwängleriana di un’interpretazione che si basa sulla “fedeltà alle note” ed un’altra che mira, invece, “al senso” dato dalle note stesse.
Questa fedeltà al senso delle note, alla ricerca di quel filo unitario, occulto e misterioso che presiede alla riuscita di un’interpretazione orchestrale è alla base di quel rapporto unico, affascinante e “perverso” che si viene a creare, come affermò Furtwängler, tra direttore, orchestra e pubblico. Proprio l’ultimo elemento di questa “triade” nella visione furtwängleriana assunse un’importanza fondamentale. Non è un caso, infatti, che le migliori interpretazioni del musicista e direttore tedesco siano state quelle effettuate in sala di concerto, tra il pubblico, e non quelle registrate in studio (all’inizio, Furtwängler fu assai scettico sui sistemi di incisione a 78 giri, in quanto su un lato del disco si potevano appena registrare quattro minuti di musica, obbligando interprete ed esecutori ad interrompere la prova per riprenderla in seguito; lo scetticismo del musicista e direttore si placò quando, a partire dal 1948, si cominciò a incidere le registrazioni sui dischi a microsolco, i famosi 33 giri, già sperimentati, in sede di ricerca in Germania, durante la Seconda guerra mondiale dai tecnici della Telefunken).
«Il pubblico è donna: vuol essere costretto ad essere felice», scrisse argutamente Furtwängler. E questa felicità ha un prezzo molto alto che può sfociare nell’incomprensione, nell’indifferenza e nel rifiuto dell’opera presentata, se non si rispettano alcune leggi che, anche in questo caso, il musicista e direttore germanico ebbe modo di cogliere perfettamente nel segno. Il pubblico concertistico, nato sulla spinta data dalle sinfonie di Beethoven e dal virtuosismo di Paganini e Liszt, con il passare del tempo è divenuto sempre più esigente e, in un certo senso, anche più competente. È proprio la presenza del pubblico a cementare l’unione tra direttore e orchestra: senza di esso tutto il “rito” dell’esecuzione musicale perde ogni significato, ogni spirito di unificazione e di elevazione. Su questa base si comprende facilmente il rapporto reciproco che lega il pubblico all’artista stesso, in questo caso il direttore d’orchestra. Se, da una parte, il musicista è stimolato dalla presenza del pubblico e deve soddisfare le richieste artistiche ed estetiche di quanti sono presenti, dall’altra, il pubblico, senza la presenza espressiva dell’artista, non può raggiungere, secondo la definizione data da Furtwängler, la «coscienza di sè». Non si deve dimenticare il fatto che il pubblico, inizialmente, non è che una massa composta da individui del tutto scollegati tra loro. Questo, però, non è il solo problema che deve affrontare l’interprete. Difatti, si deve tenere conto anche di un altro aspetto, quello che il pubblico ha bisogno di un certo lasso di tempo per «prendere posizione di fronte ad un artista o ad un’opera d’arte e ciò più quanto maggiore ne è l’importanza e l’incommensurabilità».
Il “prendere posizione” di fronte ad un’esecuzione musicale appartiene solo alla storia recente e prende avvio, con il sopravvento dell’espressione virtuosistica, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. È in questo periodo che cominciano a manifestarsi quelli che Richard Wagner definiva “effetti”, le cosiddette emozioni che colpivano solo esteriormente la fantasia del pubblico, trasformandolo in una massa inebriata, senza portarlo, però, verso una vera e sentita unità spirituale. Furtwängler intuì giustamente che questi “effetti senza causa” divennero predominanti con Paganini prima e Liszt dopo: il virtuosismo fine a se stesso prese a scavare un fosso tra il pubblico e il significato spirituale della musica.
«Sorse allora il crescente straniarsi tra pubblico e artista, che oggigiorno è uno dei maggiori pericoli che minacciano la nostra vita musicale», scrisse a tale proposito il musicista e interprete germanico. «L’affannosa ricerca dell’effetto, principiata al tempo di Wagner-Liszt, è un segno palese dell’inizio di questo reciproco straniarsi». Di fronte all’esaltazione estrema della forma, il contenuto viene emarginato, relegato in un punto di non comunicazione. Ma se con l’inizio dell’interpretazione che evidenziava esclusivamente la forma, la musica perdeva progressivamente la propria capacità di circolazione, di penetrazione spirituale, ciò significava che il processo di straniamento sarebbe divenuto inarrestabile? Non necessariamente, rispose Wilhelm Furtwängler. Esistono esempi che lasciano pensare e credere l’esatto contrario. È sufficiente ascoltare la musica sinfonica di Beethoven per rendersi conto che lo straniarsi tra pubblico ed interprete può annullarsi improvvisamente. «Le sue opere [di Beethoven] agiscono appunto esclusivamenteperquello che sono e non per quello che rappresentano; esse agiscono per la loro natura ed essenza e non per il loro aspetto esteriore. Che Beethoven agisca in modo così particolare deriva dalla chiarezza con la quale egli esprime ciò che ha da dire. La massima chiarezza dell’espressione è appunto il modo – anzi l’unico modo – dato dall’artista per dominare il fattore “pubblico”», fece presente Furtwängler. Prima di tutto, dunque, ci vuole chiarezza espositiva da parte dell’interprete: solo così si riesce ad instaurare nuovamente quel contatto con il pubblico, rendendolo meno “ambiguo” e contorto. L’essere si distacca risolutamente dalla rappresentazione, e l’interpretazione non viene più veicolata esclusivamente dalla materia e dalla tecnica, vincolate da quella forma virtuosistica e sterile della musica. Questo distacco, che permette di precisare e focalizzare il corretto modo di interpretare e condurre un brano musicale, diede modo a Furtwängler di continuare tale analisi. Prendendo spunto dall’apparente diverso approccio interpretativo tra la musica strumentale e quella operistica, il musicista e direttore d’orchestra germanico si schierò apertamente per l’ideale dell’interprete che non preclude alcun tipo di esecuzioni (qui si evidenzia, in modo marcato, l’educazione musicale ricevuta da Furtwängler e la sua volontà di proseguire nella tradizione del Kapellmeister, dell’esecutore capace di spaziare tra diversi tipi di musica).
Il cuore del problema non sta nello scegliere e privilegiare interpretazioni concertistiche, sinfoniche od operistiche. Potrà sembrare lapalissiano o banale, ma il punto di fondamentale importanza sta nel come impostare il tipo di interpretazione da dare a un particolare brano. «Il musicista d’oggi, che suoni in un’orchestrina o in una sala di concerto, che sia violinista o direttore d’orchestra, è raramente disposto e raramenteècapacedicogliereerenderecolsentimentonessidiunacertavastità,vale a dire gli episodi spirituali dai quali essi scaturiscono», fece giustamente notare Furtwängler. «Egli è impreparato a questo compito: gliene manca la preparazione preliminare, sia per la forma d’educazione che gli vien data dalla vita pratica e dal conservatorio, sia per il carattere di gran parte della musica contemporanea. Di conseguenza egli è portato a fare una distinzione fra la musica che gli dà adito ad essere “se stesso”, nella quale egli “vive” e in un certo senso esprime se stesso musicalmente, e quell’altra musica alla quale egli sta solo di fronte e della quale non fa che “riferire”. Egli ritiene che questo distanziarsi sia un attenersi allo “stile”».
Attraverso questo passo, si capisce come e perché la filosofia interpretativa di Furtwängler abbia sempre seguito un cammino ben preciso: esecuzioni emozionanti, palpitanti, mai ripetitive (persino in quelle che avevano in programma le sinfonie di Beethoven, delle quali il musicista e direttore tedesco fu sempre fedele; per comprendere meglio questo punto, ci si deve ricordare di quanto successe dopo l’ultima apparizione di Furtwängler a Londra nel 1954, a pochi mesi dalla sua morte: il suo programma beethoveniano comprendeva la Quarta sinfonia, l’Ouverture Leonoren.2 e la Quinta sinfonia. Dopo il concerto, un critico lo raggiunse in camerino e si lamentò con lui del fatto che presentasse quasi sempre musiche di Beethoven, al che Furtwängler, mostrando la massima meraviglia, rispose laconicamente: «Questo non lo capisco, per me non sono mai le stesse opere»).
Sotto questo aspetto, infatti, Furtwängler fu un assertore dell’interpretazione che “vive”, mai di quella che “riferisce” oggettivamente, soprattutto quella composta per “impressionare”, per “inebriare”. Non per nulla «… deriva che oggigiorno un valzer di Strauss, un brano di Debussy o di Čajkovskij vengono suonati a prima vista e in qualsiasicondizionemegliodiun’operadiBachodiBeethoven», continuò a spiegare Furtwängler. Nel regno incondizionato della materia, dove le interpretazioni “vive” e trasudanti spiritualità sono bandite, fu ovvio che una certa musica (quella composta in concomitanza dell’inizio degli “effetti senza causa” di wagneriana memoria) prese il sopravvento “emotivo” nel pubblico. Per questo, presentando stabilmente nei suoi programmi composizioni di Bach, Mozart, Haydn, Beethoven e Brahms, Furtwängler dovette affrontare critiche a non finire, come quella del critico britannico di cui si è detto sopra. Ma ciò, come si sa, non gli impedì di farsi riconoscere, proprio da un suo “avversario” teorico e musicale quale il filosofo e musicologo tedesco Theodor Wiesengrund Adorno, con il titolo di “sacerdote della musica”. Quest’espressione, al di là della generalizzazione retorica, assume un significato più preciso e aderente se si constata, dopo aver conosciuto la vita e l’opera del musicista e direttore d’orchestra germanico, come in effetti Furtwängler abbia non tanto impersonato, ma soprattutto “vissuto” il ruolo di guardiano della musica.
Tale consapevolezza, anche se mai espressa esplicitamente, fu la compagna più fedele che Furtwängler ebbe durante tutta la vita. La sua posizione estetica, inscindibile dal valore eminentemente spirituale della musica, lo pose, volente o nolente, come una sorta di baluardo, di custode appunto. In veste di “sacerdote” si trovò in una terra musicale di nessuno, tra la grande tradizione del passato con i suoi amati compositori classici (da Bach a Mozart, da Haydn a Beethoven, da Schubert a Brahms) e l’innovazione del futuro, causata con l’avvento di Wagner e l’inevitabile dissoluzione del tardoromanticismo. Da lì prese avvio la “filosofia della musica moderna”, riprendendo, per l’appunto, il titolo di uno dei più celebri testi musicologici di Adorno, pubblicato nel 1949. Ma, nonostante ciò, Furtwängler non volse lo sguardo solo al passato. Da spirito libero, da instancabile ricercatore quale fu, non disdegnò di interpretare anche diversi brani del repertorio contemporaneo. Se ebbe, infatti, parole durissime, come si è visto, verso quel modo d’interpretare che favoriva la musica “riferente”, il musicista e direttore germanico difese e fece conoscere brani di compositori allora dapprima incompresi, durante il periodo della Repubblica di Weimar, e poi apertamente osteggiati dal regime nazionalsocialista perché ritenuti “degenerati”. Tra coloro che vennero aiutati da Furtwängler ci furono soprattutto Paul Hindemith e Arnold Schönberg. Inoltre, diresse anche opere di Bartók, Bloch, Casella, Glazunov, Honegger, Kodály e Stravinskij. Questo repertorio così vasto, tipico del Kapellmeister appunto, fu per lui una sorta di promontorio dal quale osservare indisturbato gli sconfinati panorami della musica di ogni tempo. Le sue infaticabili capacità di indagine, confronto e osservazione furono risolutive per sviluppare quel senso critico, teorico e applicato, nei confronti delle interpretazioni.
Leggendo proprio i suoi contributi teorici e i suoi saggi, e facendo fede sulle parole e sui ricordi della seconda moglie Elisabeth, si ha la netta sensazione che Furtwängler fu un uomo e un artista profondamente solo, effettivamente conscio della sua missione. Anche sotto questo aspetto, l’espressione di “sacerdote della musica” è più che giusta. Situato nell’infelice e affascinante posizione di chi sta tra il prima e il dopo, punto di coesione tra il passato e il futuro, senza avere modo di vivere compiutamente il presente, Furtwängler s’identificò non solo nel suo amato Beethoven, nelle sue emozioni e nelle strutture del linguaggio musicale, ma umanamente, esistenzialmente anche in Johannes Brahms. E non è un caso, quindi, che uno degli scritti di Furtwängler più belli e intrisi di un velato Sehnsucht sia proprio quello intitolato Brahms e la crisi del nostro tempo. Questo brevissimo saggio, scritto nel 1934 e appartenente alla raccolta intitolata Ton und Wort (Suono e parola), risulta, considerato a priori e soprattutto alla luce dello stile di vita e di arte di Furtwängler, una specie di rispecchiamento, di tributo involontario verso se stesso. In effetti, la lucidissima analisi che il musicista e direttore d’orchestra germanico fece su Brahms, è la stessa che noi oggi possiamo fare su di lui. «L’opposizione di Brahms al suo tempo si espresse soprattutto nel fatto che egli, conformemente alla sua natura, non divenne con gli anni più monumentale, come Beethoven, ma, al contrario, si fece sempre più asciutto, più calmo, più contenuto e concentrato», scrisse Furtwängler. «Ma i tempi, a loro volta, permeati dalle strutture gigantesche del dramma musicale wagneriano, spingevano verso le forme elefantiache e verso la dilatazione del linguaggio musicale di Strauss, Mahler, Reger e via dicendo. Anche quest’epoca è nel frattempo trascorsa: ma la quieta lotta della musica di Brahms con lo spirito dei tempi non è ancor oggi finita».
Se, quindi, da un lato il tempo spinge verso la consapevolezza, la mitezza e la condiscendenza è perché l’elemento temporale impone la sua volontà, la sua forza, il suo vigore (ed è proprio quella che Furtwängler nel saggio in questione definì con il termine di “volontà del tempo”), dall’altro c’è l’uomo e l’artista incurante di tutto, pronto a sfidare, a lottare contro lo stesso tempo, dilatando e ampliando il respiro delle proprie opere, come fece appunto Beethoven nella sua epoca (un comportamento, questo, secondo Furtwängler, che denota invece la “volontà dell’artista”). Indubbiamente, Brahms ha lasciato che la “volontà del tempo” avesse la meglio, ma non per questo ha cessato di fare musica, di comporre brani che rappresentassero la quintessenza della fine di un’epoca vinta e annichilita, appunto, dal nuovo elemento temporale. «Brahms è il primo grande musicista nel quale la funzione storica e la statura artistica non coincidono più», proseguì nella sua analisi Furtwängler. «La colpa di questo non è sua, ma del suo tempo. Persino le concezioni formali più abnormi di Beethoven erano scaturite dai tempi di Beethoven, avvalendosi del linguaggioe delle possibilità espressive di quei tempi. La volontà di Beethoven, per quanto non soggetta al tempo e gravida di conseguenze per il futuro, era in qualche modo “conforme” alla volontà dei tempi: Beethoven era “sostenuto” dal suo tempo. […] Con Brahms, e con lui per la prima volta, queste volontà divergono. E non perché Brahms non fosse, e profondissimamente, uomo del suo tempo, ma perché le reali possibilità musicali del suo tempo avevano preso vie diverse, non erano sufficienti al suo volere. Egli è il primo ad essere, come artista e creatore, più grande della sua funzione storico-musicale».
Furtwängler individuò brillantemente questo distacco tra la musica brahmsiana e la visione temporale della sua epoca. Non per nulla composizioni che appartengono alla maturità del musicista di Amburgo, come la Quarta sinfonia e il Doppelkonzert non vennero assolutamente comprese dal pubblico e dalla critica. Brahms, l’ultimo dei grandi compositori del XIX secolo, l’ultimo grande rappresentante della musica germanica di quel secolo, visse all’ombra del proprio tempo, opponendosi ad esso, ma non reagendo in modo plateale. Fu un uomo moderno, senza capirne il perché. E Furtwängler, come il grande compositore anseatico, ebbe lo stesso destino. Moderno inconsapevole tra moderni consapevoli, il musicista e direttore germanico non oppose alla “volontà del tempo” un comportamento ostile, un atteggiamento caparbio e iconoclasta. Lui, nipote del passato e figlio del presente, unico vero continuatore della grande lezione di Arthur Nikisch (il mitico fondatore dei Berliner Philharmoniker), custodì sempre gelosamente la propria solitudine, l’avvilente incapacità di adattarsi non solo ai travolgenti elementi temporali, ma anche alle stesse esigenze ed interpretazioni artistiche. Il significato dell’espressione “sacerdote della musica” si cela proprio in questa visione, che non identifica soltanto una componente ieratica, ma anche emarginata, scomoda e intransigente.
FINE TERZA PARTE – QUARTA PARTE QUI
- Johannes Brahms – Symphony No. 1 in C Major, Op. 68
- Berliner Philharmoniker – Wilhelm Furtwängler
- Live Berlino, 15 settembre 1953
- CBH Music CBH 218
- Johannes Brahms – Symphony No. 2 in D Major, Op. 73
- Berliner Philharmoniker – Wilhelm Furtwängler
- Live Vienna, 28 gennaio 1945
- CBH Music CBH 219
- Johannes Brahms – Symphony No. 3 in F Major, Op. 90
- Berliner Philharmoniker – Wilhelm Furtwängler
- Live Torino, 14 maggio 1954
- CBH Music CBH 220
- Johannes Brahms – Symphony No. 4 in E Minor, Op. 98
- Berliner Philharmoniker – Wilhelm Furtwängler
- Live Salisburgo, 15 agosto 1950
- CBH Music CBH 221
Giudizio artistico:
Giudizio tecnico:
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