Questo compositore bolognese, che ebbe vita sciagurata e che fu vittima dell’alcol, è ancora sconosciuto ai più e con una scarna discografia a lui dedicata. Ma ora, grazie a un’interessante e coinvolgente registrazione effettuata dall’ensemble Archipelago, che ha inciso le sue Sonate a Tre Opus V per la Da Vinci Classics, si può apprezzare finalmente la sua raffinata ed elegante scrittura musicale, in attesa che vengano riscoperti anche i suoi capolavori operistici

Nel nutrito campionario dei compositori dimenticati dalla storia, vi trova sicuramente un posto in prima fila il bolognese Giuseppe Antonio Vincenzo Aldrovandini, nato nel 1671 e morto a soli trentasei anni, per i motivi che poi andrò a descrivere. La prima fila, quella che viene riservata solitamente a personaggi di spicco e di prestigio, gli può essere allegoricamente attribuita per un semplicissimo motivo, in quanto le sue poche composizioni giunte fino a noi in forma manoscritta o stampata sono tuttora in attesa di essere debitamente valorizzate, e qui mi riferisco soprattutto al lascito operistico, oppure sono state registrate in ambito discografico con un’attenzione e con una sensibilità che sfiorano il nirvana, ossia il niente.

Qualcosa, però, fortunatamente sta cominciando a mutare, visto che la casa discografica Da Vinci Classics, dopo aver pubblicato nel 2022 in un CD collettivo, dal titolo Vivi felice, suonator cortese. 18th Century Italian Sonatas from Gaspari Music Collection, Bologna, la Prima Sonata dell’Opus V di Aldrovandini (e senza, naturalmente, dimenticare il misero e sconsolante apporto dato precedentemente da soli altri sette dischi collettivi da parte di sei etichette), ora grazie ai componenti dell’ensemble Archipelago, formato da Lorenzo Colitto alla direzione e primo violino, Lisa Kawata Ferguson al secondo violino, Marcello Scandelli al violoncello, João Janeiro e Chiara Tiboni all’organo e al clavicembalo, e Francesco Romano all’arciliuto e alla chitarra, ha confezionato il primo CD dedicato completamente a una raccolta cameristica del compositore bolognese, incidendo per l’appunto le dieci Sonate a tre per due violini e violoncello e basso continuo che formano l’Opus V.

Ma prima di affrontare la registrazione in questione, ovviamente in prima assoluta mondiale, vediamo di focalizzare un po’ meglio la figura “maledetta” di Aldrovandini. Lo stesso Colitto, che ha curato anche le note di accompagnamento al disco, ci ricorda che sebbene il compositore bolognese sia vissuto solo trentasei anni, sono tanti se si considera che li trascorse in condizioni di povertà assoluta e dissipando i pochi guadagni ottenuti nell’alcol. Senza tenere conto della sua morte, avvenuta nel febbraio 1707 in modo tragico, poiché uscito da una taverna a Navile, all’epoca porto canale di Bologna, completamente ubriaco fradicio, cadde in acqua e annegò miseramente, senza che nessuno potesse aiutarlo. Da quelle poche notizie biografiche che parlano di lui, possiamo comprendere che Aldrovandini passò la vita componendo e, allo stesso tempo, inseguendo ossessivamente il denaro, quel poco denaro che potesse permettergli di mettere in fila un giorno dopo l’altro, dando così modo al motore della sua potente vena creativa di essere attivo grazie al carburante del vino, del quale fu ben presto schiavo. Queste notizie, è ancora Colitto che lo fa presente, sono in principal modo concentrate in sei missive, conservate attualmente nella Biblioteca Nazionale di Parigi, scritte da Aldrovandini tra il 1697 e il 1701 e spedite a Bernardino Fabri, cavaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro di Savoia, nella quali descrive la precarietà in cui era costretto a vivere, oltre all’obbligo di recarsi in quelle città dove di volta in volta venivano rappresentate le sue opere liriche, ossia Torino, Napoli, Piacenza e Genova, con l’obiettivo di poterle pubblicizzare meglio, nella speranza di ottenere un guadagno maggiore.

E che Aldrovandini sia stato un fior di musicista è attestato fin dagli studi, che effettuò con Giacomo Antonio Perti, maestro di cappella a Bologna per più di sessant’anni, prima a San Pietro e poi a San Petronio, con il quale approfondì la conoscenza del contrappunto e della composizione (è il caso di ricordare che Perti fu insegnante anche di altri due “pezzi da novanta” come Giuseppe Torelli e Giovanni Battista Martini, tanto per far comprendere che cosa fosse la Bologna musicale di quel periodo). Aldrovandini, grazie alla sensibilità e alla capacità compositive, seppe assimilare al meglio quell’aura temporale e creativa, soprattutto nell’ambito del teatro musicale. Diciassette sono le opere di sua produzione, comprese quelle che gli sono attribuite senza essere certi della sua paternità, ma solo due sono giunte integre nella partitura e nel libretto, i cui manoscritti sono conservati nella biblioteca del Conservatorio di Napoli, ossia Semiramide e, soprattutto, quello che viene considerato il suo capolavoro operistico, Cesare in Alessandria, che esordì nell’estate del 1699 al Teatro San Bartolomeo della città partenopea. Come riporta ancora Colitto nelle note di accompagnamento, in una lettera datata 29 gennaio 1700 e indirizzata sempre a Bernardino Fabri, riguardo lo straordinario successo ottenuto da quest’opera, Aldrovandini ricorda che la richiesta di repliche era stata così pressante da ritardare le prove e l’esecuzione di un lavoro di Alessandro Scarlatti (probabilmente Gl’inganni felici, su libretto di Apostolo Zeno, che debuttò in quello stesso 1699), in quanto quest’ultima opera non veniva giudicata, rispetto al Cesare in Alessandria, confacente al gusto che imperava all’epoca a Napoli.

 

Ritratto di anonimo di Giacomo Antonio Perti, il maestro di Aldrovandini, oltre che di Giuseppe Torelli e di padre Martini.

Al di là della produzione di oratori sacri, tutti eseguiti al tempo in quel di Bologna, il resto del catalogo di Aldrovandini, stampato e in gran parte conservato nel Civico Museo Bibliografico Musicale di Bologna, comprende anche la raccolta registrata dal CD della Da Vinci Classics, ossia l’Opus V, dapprima pubblicata in caratteri mobili da Silvani sempre a Bologna nel 1706 e poi, nel 1710, ad Amsterdam dal famoso editore Mortier, questa volta utilizzando la tecnica ad intaglio. Di queste dieci sonate, sette sono in tonalità maggiore e, tranne la Quinta e la Sesta che ne hanno tre, sono suddivise nei canonici quattro tempi, di cui il primo, otto volte su dieci, è rappresentato da un movimento lento, ossia il Grave o il Largo, sulla falsariga di un incipit orchestrale appartenente al genere operistico, al punto che Colitto sostiene che queste Sonate possono essere ascoltate come una sorta di “preludio” alle opere liriche del bolognese. Ergo, un massiccio impatto melodico, con inevitabili rimandi alla lezione corelliana, fissata soprattutto nell’inizio del secondo tempo Allegro della Sonata IX in fa maggiore, il quale risulta identico all’incipit del secondo tempo della Sonata XII in re maggiore dell’Op. 1 di Corelli (storicamente, è interessante notare come questa raccolta corelliana sia stata ristampata ben cinque volte tra il 1682 e il 1714, in particolare a Bologna dallo stesso Silvani esattamente nel 1704, quindi appena due anni prima della pubblicazione dell’Op. V di Aldrovandini).

Proprio l’insistito apporto dato dal tempo lento iniziale in quasi tutte le Sonate dell’Opus V dà modo ad Aldrovandini di plasmare il decorso espressivo con una maggiore capacità di sfumature timbriche e di coups de théâtre, in grado di coinvolgere in modo empatico l’attenzione dell’ascoltatore. Ma c’è soprattutto un aspetto, grazie al quale queste Sonate si distaccano per qualità e raffinatezza dal calderone cameristico dell’epoca, sia in ambito italiano, sia in quello internazionale (la mia è un’affermazione “forte”, lo so), e che è rappresentato dalla straordinaria capacità da parte di Aldrovandini di fornire un equilibrio formale e temporale ad ogni strumento, quindi che non coinvolge solo il primo e il secondo violino, e dal sapere assemblare ogni singolo equilibrio strumentale dando vita a un supremo equilibrio collettivo. Ciò comporta un altro aspetto positivo e di per sé affascinante, quello di dare così l’illusione di generare non tanto un suono cameristico, quanto orchestrale, proprio grazie a questo incessante alternarsi di pesi e contrappesi timbrici, in modo da una parte di esaltare l’incalzante apporto ritmico nei tempi veloci e, dall’altra, di creare un’atmosfera sofisticata, rarefatta, a volte persino densa di tensione emotiva, in quelli lenti (e ciò lo si può constatare, tramite un ascolto attento e compartecipe, nel work in progress che Aldrovandini affina sempre più dalle prime fino alle ultime Sonate).

Raramente si può ascoltare un risultato compositivo cameristico, agli inizi del XVIII secolo, così intriso di eleganza, di raffinatezza, di gioco psicologico, di rimandi e sviluppi timbrici, segno di un dominio della materia musicale da plasmare e da dérouler a favore di chi, buon per lui, ha modo di ascoltarla. A ciò si aggiunge la felice, felicissima capacità di lettura e di interpretazione da parte dei cinque componenti dell’Archipelago, i quali, anche su ammissione dello stesso Colitto, hanno voluto adottare delle strategie esecutive tese a rimarcare la genialità e l’originalità compositive dell’autore bolognese, a cominciare dalla precisa scelta ritmica e agogica di certi passaggi o tempi, come quando si è trattato di dirimere l’indicazione del “punteggiato”, ossia una sequenza di note di pari valore che devono essere eseguite alternativamente lunghe e brevi, simile alla pratica legata al ritmo inégal francese (come accade, in questo caso, nell’affrontare a livello esecutivo la Sonata IX), oppure come declinare la condotta data dalla sprezzatura, vale a dire il tipo di “contegno” da rendere in termini esecutivi. Così come l’attenzione data a determinati aspetti storico-musicali, offerti, per esempio, dal fatto che Aldrovandini fu a Napoli durante il dominio spagnolo, con la debita assimilazione di suoni, modalità ed espressività cari alla cultura musicale iberica, come si evidenzia nel terzo tempo, il Largo e staccato, della Sonata X, e ancora il fatto che a Napoli si diede all’epoca una grande importanza al violoncello, con il risultato di veder fiorire una vera e propria scuola di raffinati violoncellisti, come nel caso di Francesco Paolo Supriani, destinato a diventare primo violoncello del Teatro di San Bartolomeo, che probabilmente stimolò il compositore bolognese a scrivere la parte solistica per questo strumento nei tempi veloci della Sonata II.

 

I componenti dell’ensemble Archipelago, durante una pausa della registrazione del CD.

Ma, al di là di questi accorgimenti e di queste scelte tecnico-interpretative, il mondo sonoro di Aldrovandini che Lorenzo Colitto e gli altri componenti dell’Archipelago hanno saputo ricreare è a dir poco sontuoso, pregno di una pulizia timbrica e di una naturalezza dell’eloquio e del dialogo da emozionare. E poi, la restituzione di quell’equilibrio individuale/collettivo del quale ho già accennato prima, con una resa corale delle parti che fluisce e concretizza una proiezione spaziale/temporale del suono da tramutarlo in qualcosa di magico, impregnato di una fluidità scultorea. A questo punto, c’è solo da sperare che la “Aldrovandini Renaissance” possa proseguire con altri tesori strumentali, e in attesa che qualche ente coraggioso possa mettere in scena Cesare in Alessandria, dando magari modo di fissarlo anche a livello discografico.

 

L’interno della Igreja Matriz de Santa Catarina da Fonte do Bispo, dove è stata effettuata la presa del suono del CD Da Vinci Classics.

Per quanto mi riguarda, quello confezionato da Archipelago per la Da Vinci Classics, è il mio Disco del mese di luglio.

Molto buona anche la presa del suono effettuata da Luis Marques in Portogallo, che colpisce prima di tutto per la pronunciata dinamica, velocissima e, allo stesso tempo, foriera di naturalezza. La ricostruzione del palcoscenico sonoro, poi, è in grado di vedere proiettati i componenti dell’ensemble a una discreta profondità, senza che ci siano presenze esiziali di riverbero (la cattura del suono è avvenuta nella Igreja Matriz de Santa Catarina da Fonte do Bispo, nel distretto di Faro), e con un suono capace di irradiarsi piacevolmente in altezza e in ampiezza. Allo stesso modo, l’equilibrio tonale non tradisce, con una riproposizione della gamma medio-grave e di quella acuta sempre perfettamente scontornate e mai sovrapposte tra gli strumenti chiamati in causa. Infine, il dettaglio offre un’ottima matericità, ottenuta grazie a una pregevolissima messa a fuoco degli strumenti, restituendone così la loro tridimensionalità.

Andrea Bedetti

 

    • Giuseppe Antonio Vincenzo Aldrovandini – Trio Sonatas Op. V

 

    • Archipelago Ensemble: Lorenzo Colitto (direzione e primo violino) – Lisa Kawata Ferguson (secondo violino) – Marcello Scandelli (violoncello), João Janeiro & Chiara Tiboni (organo e clavicembalo) – Francesco Romano (arciliuto e chitarra)

 

 

Giudizio artistico 5/5

Giudizio tecnico 4,5/5

Iscriviti alla nostra newsletter per rimanere sempre aggiornato.

×