Una recentissima produzione de La Bottega Discantica vede l’affermato duo pianistico formato da Tiziana Moneta e Gabriele Rota affrontare due pagine dei grandi compositori romantici, la celeberrima Serenata op. 22 e l’affascinante Bilder aus Osten op. 66, che mettono in luce l’opposto approccio estetico ed esistenziale dei due autori
Quanti compositori sanno incarnare con la massima aderenza il concetto di humus, sia nel significato pagano di “terra”, sia di quello successivo dato dal cristianesimo, ossia di colui che è “umile”? Personalmente, ho sempre accostato a questo duplice significato etimologico solo il nome del boemo Antonín Dvořák, poiché nessun altro, a mio avviso, è stato capace di rappresentare in modo così autentico e meraviglioso la dimensione di una “musica della terra”, della propria terra e, allo stesso tempo, facendolo in un modo schietto, votato a un’umiltà unica, assoluta, al punto che perfino un compositore geniale come Johannes Brahms, burbero, scostante e perfino spietato con i colleghi, non poté che provare una sincera e fraterna amicizia nei suoi confronti.
Questa duplice umiltà si formò nel musicista boemo fin dalla primissima infanzia, quando a causa della povertà in cui versava la famiglia, fu costretto ad aiutare suo padre, un macellaio che gestiva anche una locanda. Così, oltre ad andare alla scuola del villaggio, dove ebbe modo di imparare anche il canto e a suonare il violino, il piccolo Antonín, finiti gli studi quotidiani, faceva la spola tra la bottega paterna e la locanda, dandosi da fare per essere d’aiuto alla famiglia. Come ricordò in seguito lo stesso Dvořák, la povertà e il duro lavoro non distolsero ogni slavo dall’amare la musica, persino quando era costretto a spezzarsi la schiena tutto il giorno nei campi o fra i buoi, in quanto era proprio «lo spirito della musica a renderlo felice». Ecco, se vogliamo comprendere in profondità le affascinanti pagine di Dvořák, a cominciare dalle sinfonie (che, vi prego, non sono rappresentate soltanto dall’annosa Nona, la cosiddetta “Sinfonia dal Nuovo mondo”), non dobbiamo mai dimenticare questo “spirito”, questo humus che permea ogni sua partitura, che si ricollega incessantemente alla tradizione del suo popolo e del suo folklore, ma non nel modo eminentemente “scientifico” ed etnomusicologo come poi fece l’ungherese Béla Bartók, bensì come autentica riproposizione del suo cuore e del suo sentimento più puri.
Un perfetto esempio di questo “spirito musicale della terra” viene fornito dalla Serenata per archi op. 22 che fu scritta dal compositore boemo nel 1875, a trentaquattro anni, in soli dodici giorni. Come ricorda giustamente il massimo studioso di Dvořák, Otakar Šourek, autore della splendida biografia Antonín Dvořák: His Life and Works, che attende naturalmente ancora una debita traduzione in italiano, il 1875 fu un anno di grazia per il nostro musicista, sia perché rappresentò una svolta per il suo riconoscimento internazionale, sia perché prodigo di altri capolavori da lui creati; in primo luogo, il governo austriaco per merito di una speciale commissione di cui fecero parte, fra gli altri, il temuto critico Eduard Hanslick e lo stesso Johannes Brahms, gli concesse una borsa di studio che permise a Dvořák di essere finalmente conosciuto nei più importanti circoli musicali europei (se Hanslick, che non concedeva facilmente il suo plauso, rimase colpito dalla straordinaria capacità compositiva del nostro autore, da parte sua Brahms rimase commosso dalle sue partiture, al punto di raccomandarlo al prestigioso editore Simrock, che da quel momento stampò tutte le opere principali del compositore di Nelahozeves). Inoltre, in quello stesso anno videro la luce opere fondamentali, quali la Quinta Sinfonia, il primo Quartetto con pianoforte op. 23 e il primo Trio con pianoforte op. 21. La Serenata fu eseguita in prima assoluta il 10 dicembre dell’anno successivo a Praga con la direzione di Adolf Ciech. Oltre alla versione originale, grazie all’immediato successo ottenuto della composizione, nel 1877 l’editore praghese Stary diede alle stampe la versione per due pianoforti, mentre lo stesso Dvořák volle trascrivere questa pagina anche nella versione per pianoforte a quattro mani.
Proprio quest’ultima versione è stata recentemente registrata dal duo pianistico formato da Tiziana Moneta e Gabriele Rota per l’etichetta discografica Bottega Discantica (attenzione, però, perché il prodotto è disponibile solo in formato liquido, con le tracce musicali e la cover tramite le piattaforme digitali e senza la presenza di un booklet), unitamente a una pagina concepita proprio per tale organico, ossia i Bilder aus Osten op. 66 di Robert Schumann.
Tornando alla Serenata op. 22 del compositore boemo, quest’opera rappresenta il risultato di quel ripensamento creativo alla base della svolta effettuata da Dvořák dopo la giovanile infatuazione nei confronti dell’universo wagneriano, la quale si era manifestata nelle prime due opere liriche da lui scritte, ossia Alfred, risalente al 1870, e Il re e il carbonaio (composta l’anno successivo), che furono stroncate dalla critica e dal pubblico, decretandone il loro fallimento. Conscio di ciò, Dvořák abbandonò le pruderies wagneriane al loro destino e decise di volgere la propria creatività concentrando l’attenzione su due fattori che si sarebbero dimostrati vincenti, vale a dire il recupero della tradizione musicale popolare boema in particolare e slava in generale e l’aspetto melodico attraverso il quale fissarla ed elaborarla.
Siccome oggi mi sento stranamente ottimista, e quindi parto dal presupposto che una pagina così celebre sia già conosciuta e giustamente apprezzata da molti, mi concentro solo sulla versione presentata dai due interpreti. La trascrizione da una pagina così celebre e “fissata” nell’ascolto collettivo in una versione “prosciugata”, come può appunto esserla questa per pianoforte a quattro mani, può comportare un inevitabile rischio, quello di depauperarne la resa timbrica. Cosa che qui non avviene, poiché il prosciugamento che avviene con questa versione non pregiudica assolutamente il risultato offerto all’ascolto; ciò è possibile per una serie di cause che si possono evidenziare prima di tutto nella sapienza certosina della scrittura del compositore boemo, la quale viene esaltata anche tramite esecuzioni a “scartamento ridotto”, ossia con una presenza strumentale ridotta all’osso. Ciò significa che la materializzazione dell’afflato melodico non ne soffre minimamente, anche se viene a mancare, per ovvi motivi, quell’apparato di sfumature che solo gli archi possono evidenziare. Ma dove si viene a cessare, grazie alla mirabile struttura armonica, si viene parallelamente a presentare, con la rassicurante esaltazione data dalla linea ritmica che riesce, per così dire, a tamponare la falla, permettendo di conseguenza un’esecuzione che è sempre avvincente e affascinante.
Non dimentichiamo che questa Serenata è una Suite spalmata in cinque tempi e che nelle intenzioni del suo autore doveva, pur non appartenendo al genere della musica programmatica, dare modo all’ascoltatore di immaginare scene e situazioni, tutte riconducibili al mondo contadino e paesano della sua terra. Ebbene, tale prerogativa, sia grazie alla dimensione armonica, sia grazie al già citato elemento ritmico, assai più pronunciato e percepibile rispetto alla versione originale, non svanisce, non si annulla, ma si fissa in una percezione che, usando una raffigurazione cinematografica, dal colore passa al bianco & nero. Il lavoro timbrico, quindi, viene scansionato da una progressiva scala di grigi che la capacità interpretativa del duo Moneta & Rota riesce sempre a far rivivere in modo convincente e plausibile. Così, il celeberrimo tema del primo tempo, il Moderato, che originariamente viene espresso e arricchito dal rimbalzarsi tra violini e violoncelli, non perde un’oncia di efficacia e di magia, così come nel tempo che segue, lo struggente Valse, in cui il succo di una dolce e malinconica nostalgia non viene mai meno, proprio perché l’imbastitura ritmica non si limita a fissare agogicamente il tutto, ma diviene tramite la geniale scrittura elemento insostituibile di raffigurazione immaginifica. E poi lo Scherzo, nel quale il registro medio-grave e quello acuto della tastiera riescono a decodificare lo svolgersi delle imitazioni contrappuntistiche svolte, come prescritto nella partitura originale per archi, dalle diverse sezioni strumentali, mentre nel successivo Larghetto le quattro mani pianistiche prendono letteralmente il soave canto che viene evocato e lo pennellano sapientemente, scolpendolo mediante un’asciuttezza timbrica che però non lo scheletrizza nemmeno in una nota o in un accordo. Infine, il quadro del Finale, nel quale la briosità della tessitura fornita dagli staccati discendenti a canone viene restituita dal felice respiro della tastiera che si identifica pienamente con l’afflato fornito all’origine dalla sezione dei violini.
Se la pagina di Dvořák è all’insegna della fama e della popolarità, la stessa cosa non si può certo affermarla per quanto riguarda gli schumanniani Bilder aus Osten, una composizione che rappresenta il tipico modus operandi del grande romantico tedesco, in cui la componente musicale crea un mix dato anche da connotazioni poetiche e letterarie, le quali, però, non forniscono lo stesso apparato di immagini più o meno programmatiche come invece succede nella Serenata op. 22. Se il compositore boemo è paladino di un afflato popolare e per così dire “democratico” dato da un tessuto musicale che affascina fin dal primo ascolto, l’opera in questione di Schumann è portatrice di una dimensione eminentemente intellettuale, la cui comprensione è legata anche da precisi rapporti armonici che scaturiscono da altrettanti rimandi forniti dalle tonalità utilizzate in questi “quadri” in cui vengono incorniciati i sei brevi improvvisi che la compongono. Il titolo stesso della composizione è tratto da un saggio scritto dall’eminente orientalista e poeta Friedrich Rückert, i cui versi fornirono materiale a iosa per il confezionamento di una parte cospicua di Lieder della tradizione tedesca e austriaca scritti da autori che vanno da Schubert fino ad Alban Berg.
Creati nel 1848, questi “quadri orientali”, se messi a confronto con la pagina del compositore boemo, ci fanno capire come se la musica di quest’ultimo autore sia stata conforme, ossia dotata di una semantica capace di inglobare e rappresentare immagini e sensazioni, quella schumanniana, al contrario, rappresenta quasi sempre sistematicamente un universo informe, fomentatrice di idee asemantiche, la cui astrattezza poteva essere disciplinata e veicolata da quelle tipiche sovrastrutture extramusicali di cui si nutrì costantemente il musicista germanico. Così, se nelle intenzioni di Rückert i suoi Bilder aus Osten rappresentano un punto di arrivo, ossia depositari di un preciso messaggio conoscitivo e culturale, il cui scopo è di spiegare usi e costumi lontani da quelli occidentali, in Schumann questi “quadri” trasposti in chiave musicale si tramutano in un punto di partenza, che nulla conservano dei primi, ma dai quali prendono a prestito sensazioni, spunti germinali, emozioni che rimandano sempre a un concetto di lontananza, che può essere vissuta e sperimentata non solo esteriormente, geograficamente, ma anche interiormente.
Proprio la dimensione interiore è la loro chiave di volta, di cui l’incipit viene scolpito, a livello di propileo, dal Lebhaft iniziale, misterioso, affascinatamente impalpabile, la cui dimensionalità proposta non raggiunge mai un piano di concretezza, ma invita a considerare i confini dello sfumare enigmatico. E lo stesso avviene nei due tempi successivi, dapprima con il Nicht schnell und sehr gesangvoll zu spielen e poi con lo Im Volkston, che cercano di stabilizzare, tramite una struttura semplice ed efficace, il processo di regolamentazione dato dal segno musicale, che però sulla tastiera evoca sempre una pletora di emozioni cangianti. Il piano di soffusa delicatezza prosegue sul versante dato dal Nicht schnell, che genialmente Schumann propone come elemento di successivo richiamo armonico e melodico, anche se una sferzata, un improvviso innalzamento della tensione espressiva viene offerto dal quinto quadro, un Lebhaft, che cerca di imbastire un rigore per così dire “geometrico” per via della tipica costruzione A-B-A. Ma è con l’ultimo brano, ieraticamente spirituale, Reuig, andächtig indica la partitura, ossia “Pentito, devoto”, che il tutto viene trasposto in chiave metafisica, sotto forma di una preghiera che si innalza nobilmente e che accompagna l’ascoltatore a un finale che, come intendono le filosofie orientali, assume la figura di un cerchio temporale, dato proprio dalla citazione del tema delicato e trasognato già presentato nel quarto quadro.
Il fattore più evidente che traspare dalla lettura fatta dal duo Moneta & Rota è quello che riguarda proprio la sua capacità di mettere in risalto la differenza oppositiva che si riscontra tra la conformità del mondo dvořákiano e l’informità di quello schumanniano; questo significa che la loro lettura della Serenata op. 22 viene esemplificata in un modo attraverso il quale il ritmo da loro proposto diviene elemento di canto, un afflato melodico capace di accogliere e raccogliere quella dimensione cara al compositore boemo, fatto di terra che profuma di buono, di un folklore che è emanazione di una tradizione perennemente integra e tramandata nel rispetto della natura, di un ottimismo di fondo capace di affrontare e di superare i problemi che la vita impone. E, allo stesso tempo, l’altra faccia di un’articolazione musicale che, come quella del musicista germanico, abbandona il mondo del reale quotidiano per immergersi in un baratro interiore, sfuggente, fatto di emozioni e pensieri che soventemente restano in uno stato larvale. Due modi opposti, dunque, di offrire spazi e tempi sonori, ma che vengono governati e plasmati in modo pressoché ideale dalla loro interpretazione. Ciò avviene anche grazie al loro proverbiale e felice affiatamento (e questo lo si percepisce soprattutto nella Serenata op. 22), un affiatamento che si tramuta in respiro sonoro, in propagazione di un timbro che, contemporaneamente, è distinto e unito, elemento, questo, a dir poco necessario per esprimere la poetica di Dvořák, così come di lavorare incessantemente nella compiuta restituzione di quelle sfumature che trascendono in un silenzio misterico, marchio di fabbrica del potente e dilaniante universo schumanniano.
Il lavoro di presa del suono effettuato da Lorenzo Pisanello è abbastanza valido, nel senso che se la dinamica è sufficientemente dotata di energia e di un’apprezzabile velocità, senza far trasparire indebite colorature artificiose dallo Steinway Gran Coda 274 utilizzato per la registrazione, e così come se il palcoscenico sonoro permette di visualizzare lo strumento e i due interpreti ricostruiti al centro dei diffusori a una discreta profondità, è anche vero che il suono non eccelle in ampiezza e in altezza, ma resta confinato all’interno del raggio dei diffusori, fornendo un’impressione di “intubamento” che rovina in parte la valutazione di questo parametro (solitamente, ciò accade quando il procedimento di microfonatura non avviene in modo ideale). Inoltre, anche l’equilibrio tonale non è precisissimo in fatto di messa a fuoco del registro medio-grave e di quello acuto, in quanto oltre a leggere sbavature che vanno a incidere sulla necessaria riproposizione separata dei registri (se ciò non si può cogliere attraverso impianti di ascolto di bassa qualità, invece balza all’orecchio se si dispone di un impianto esoterico ben tarato), sia in presenza dei fff, sia dei ppp, la grana timbrica tende a sfuocarsi e a impastarsi. Da ultimo, il dettaglio è quantomeno sufficiente, questo perché lo scontorno materico, pur se percepibile, non mette in risalto la dimensione fisica dello strumento (e anche qui a causa, probabilmente, di una microfonatura che ha evidenziato tale minimo difetto).
- Antonín Dvořák-Robert Schumann – Serenade in E op. 22-Bilder aus Osten op. 66
- Tiziana Moneta & Gabriele Rota (pianoforte)
- Tracce audio La Bottega Discantica BDI DL 329
Giudizio artistico:
Giudizio tecnico:
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