L’ultimo lavoro discografico del trio formato dal pianista e compositore di Albany, dalla contrabbassista Linda May Han Oh e dal batterista Tyshawn Sorey, intitolato Compassion e pubblicato dalla ECM Records, rappresenta un ulteriore tassello che prova l’assoluta grandezza creativa dell’artista di origine indiana, il quale, attraverso dodici brani, presenta un universo sonoro in cui la sapienza armonica si sposa a una magnetica immagine melodica

Tra i musicisti che vantano l’onore di essere pubblicati da un’etichetta-guida come la ECM Records, il pianista-compositore americano di origine indiana Vijay Iyer si è indubbiamente conquistato la qualifica di “veterano”, visto che con il disco in oggetto, Compassion, uscito recentemente per la casa discografica di Manfred Eicher, ha toccato la sua ottava incisione in qualità di leader, mentre questo disco rappresenta il secondo presentato con lo stesso trio, formato oltre che da Iyer al pianoforte, da Linda May Han Oh al contrabbasso e da Tyshawn Sorey alla batteria (il loro primo contributo è stato Uneasy, uscito nel 2021, sempre con la ECM Records).

Se quando gli appassionati di jazz sentono il nome di Vijay Iyer, si tolgono il cappello in segno di ammirazione e di rispetto, per coloro che non conoscono il pianista e compositore di Albany sarà bene spendere qualche parola per inquadrare al meglio il suo contributo musicale che propone sia nel genere classico, sia in quello più prettamente jazz. Nato nel 1971, Vijay Iyer è stato nominato Artista dell’anno 2015 dalla prestigiosa rivista DownBeat e Pianista dell’anno 2014. Sempre nel 2014 ha avuto un incarico permanente di docenza presso il dipartimento di musica dell’Università di Harvard. Al di là del suo lavoro didattico, Vijay Iyer ha pubblicato venti album che vanno a coprire territori musicali dalla classica al jazz, passando attraverso le colonne sonore (non per nulla, il suo lavoro più ambizioso è rappresentato dal soundtrack di Radhe Radhe, l’ultimo film del regista americano Prashant Bhargava).

Queste informazioni succinte sono sufficienti per comprendere che ci troviamo di fronte a un artista totale, a tutto tondo, capace di plasmare la materia sonora sotto diversi e molteplici aspetti, andando a sondare più territori sonori mediante un uso originale e geniale della struttura armonica, attraverso la quale riesce a far affiorare un coinvolgente e affascinante edificio melodico. Una lampante e illuminante dimostrazione di tali capacità viene esemplificata proprio in Compassion, un lavoro discografico formato da dodici brani, nove dei quali farina del sacco del nostro musicista, mentre gli altri tre provengono rispettivamente da Stevie Wonder (Overjoyed), dal mentore di Vijay Iyer, ossia Roscoe Mitchell (Nonaah), e da John Stubblefield & Geri Allen (Free Spirits/Drummer’s Song). Cominciamo proprio da questi ultimi tre pezzi.


A sinistra, il sassofonista John Stubblefield (© Jimmy Katz) e, a fianco, la pianista Geri Allen. Di queste due icone jazz, Vijay Iyer ha ripreso e condensato due loro celebri brani, rispettivamente Free Spirits e Drummer’s Song.

La versione che Iyer dà di Overjoyed, un classico di Stevie Wonder, nasce da un’occasione speciale, ossia quando nel 2022 il pianista e compositore di Albany ricevette in dono il pianoforte posseduto da Chick Corea, morto l’anno precedente. Proprio con quello strumento, Corea aveva tenuto il suo ultimo concerto e tra gli ultimi pezzi da lui presentati c’era anche quello di Stevie Wonder; così, Vijay Iyer ha voluto riproporlo nel suo disco come una sorta di ideale testimonianza, restituendo di fatto la tipica elettricità musicale dell’artista di Saginaw, un profluvio sonoro in cui la cascata timbrica è tale che quello che il trio riesce a sprigionare a livello volumetrico sembra quello proposto da una band ben più corposa. Dal pop fantasmagorico di Stevie Wonder allo sperimentalismo acceso e provocatorio di Roscoe Mitchell: un abisso li separa, ma Vijay Iyer se ne fa un baffo e trasforma il suo pianoforte come se fosse timbricamente un’estensione del sax del musicista di Chicago; sotto le sue dita la tastiera diviene una scala i cui pioli si scompongono, giocano mallarmémente a dadi con Dio, rotolano per terra per essere ripresi uno ad uno dal pianista di Albany, che non perde mai la matassa armonica, prodigiosamente sorretto dalla batteria di Tyshawn Sorey che tratta le bacchette come se fossero due mazze da baseball. Infine, come ideale ponte di collegamento con Mitchell, ecco John Stubblefield da una parte e Geri Allen dall’altra, che porta alla fusione di due brani da loro creati, vale a dire rispettivamente Free Spirits e Drummer’s Song. Grazie ad essi, Vijay Iyer offre all’ascoltatore uno dei pezzi forti del suo repertorio, quella “liquidità ritmica” in cui la tensione interiore dell’eloquio espressivo viene diluita strenuamente con una sintassi melodica che prende la forma di una patina che scorre liberamente senza incontrare ostacoli di sorta.

Steve Wonder, del quale Vijay Iyer ha dato la sua versione di uno dei brani più celebri del musicista pop di Saginaw, ossia Overjoyed.

Proprio quest’ultimo pezzo, unione dei due in questione, fa da introduzione ideale, anche se è quello che chiude la tracklist, alla produzione personale del compositore di Albany, costituita da una raffinatezza stilistica che ha pochi eguali sulla scena jazz contemporanea. Ad un ascolto attento, questi nove brani possono essere racchiusi in tre distinti gruppi compositivi: quello che potremmo squisitamente definire “polistrumentale” (con i pezzi Tempest e Ghostrumental, l’ascolto di quest’ultimo mi ha rimandato alle istrioniche atmosfere create da Frank Zappa in Hot Rats!), quello che presenta una maggiore articolazione armonica che porta il livello jazz ad accomunarsi al genere dello Scherzo cameristico con la presenza di un Trio centrale (ne fanno parte Arch, Maelstrom, Panegyric e Where I Am) e il terzo, sicuramente il più introspettivo e immanente, il cui ascolto diviene atto di scavo (formato da Compassion, Prelude: Orison e It goes).

Il leggendario sassofonista sperimentale Roscoe Mitchell (© Barbara Barefield).

Il primo gruppo vede dunque una presenza paritaria dei tre musicisti, che portano equamente la baracca, il secondo vede primeggiare, oltre al pianoforte, uno tra il contrabbasso e la batteria, mentre il terzo è territorio di caccia quasi esclusivo del pianoforte. Il tutto, messo assieme, fa affiorare un discorso musicale che alterna sapientemente una dilatazione musicale ad una conseguente contrazione sonora; arditamente si potrebbe affermare che la linea melodica fa da specchietto per le allodole e che il cervello di tutto l’organismo creativo dei suoni è dato dalla costruzione armonica, ma riascoltando questi nove brani, si può comprendere e apprezzare meglio come la sapienza compositiva di Vijay Iyer riesca sempre a mediare e ad equilibrare queste due istanze, facendo in modo che si incontrino o che si scontrino. Così, assistiamo a un fenomeno sonoro che può essere riassunto con un ossimoro, ossia di “tensione distensiva”, un processo musicale che risolve instancabilmente rigurgiti contrastanti, pianificando e risolvendo dove si annidano ambiti “schizofrenici” e, allo stesso modo, andando a solleticare l’immagine di un gatto accarezzato contropelo quando la linea melodica rischia di illanguidirsi e a farla da padrone. Ecco che cosa significa una visione geniale tramutata in suono.

Se, ovviamente, con il suo pianismo pirotecnico il compositore di Albany la fa da padrone, non di meno il contributo di Linda May Han Oh al contrabbasso e da Tyshawn Sorey alla batteria risulta meno cospicuo, anzi. Se la prima, quando imbraccia il suo strumento, diviene una sorta di Wonder Woman capace di lanciare stilettate sonore capaci di placcare le arzigogolate del pianoforte, il secondo, che se non avesse fatto il batterista, avrebbe potuto dedicarsi tranquillamente al sumo, è un campionario infinito che va dalle sfumature timbriche alle mazzate perfettamente governate con le quali richiamare all’ordine tutto e tutti.

Ma sia ben chiaro, per assaporare tutto ciò, bisogna avere un palato fine, da gourmand sonoro. Coloro che non rientrano in tale categoria, sono invitati a rivolgersi alla prima trattoriaccia che si trova all’angolo della strada discografica.

La presa del suono effettuata da Ryan Streber ha superato brillantemente l’esame di ammissione per entrare a far parte dell’élite di coloro che appartengono alla premiata scuderia ECM Records. La dinamica è energica, piena, veloce e piacevolmente traboccante di naturalezza, per cui ogni tentazione enfatica è messa gentilmente alla porta. La ricostruzione dei tre artisti avviene in modo leggermente ravvicinato, ma ciò non rappresenta un problema, in quanto la palpabilità della loro presenza assurge a livelli notevolissimi, con una messa a fuoco degli strumenti che si irradia nell’ambiente di ascolto. E se l’equilibrio tonale è un festival di vivisezione sonora, con i registri che risultano essere legittimamente autonomi nel loro incedere tra il medio-grave e l’acuto e che, assemblati tra loro, non perdono un’oncia di chiarezza, il dettaglio è dato da un pompaggio ininterrotto di nero tale da esaltare la loro matericità.

Andrea Bedetti

 

Giudizio artistico 4/5

Giudizio tecnico   5/5

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