“Gluck prima che diventasse Gluck”, almeno nel senso più compiuto e conosciuto che abbiamo del grande compositore bavarese, quello tramandato e ammirato da capolavori come Orfeo ed Euridice, Paride ed Elena, Alceste, Iphigénie en Aulide, Iphigénie en Tauride e Armide. Questo potrebbe essere il sottotitolo di un recente disco pubblicato dall’etichetta Tactus, che vede il mezzosoprano veneziano Elena De Simone, accompagnato dagli elementi dell’Ensemble Il Mosaico, presentare alcune arie d’opera di Gluck tratte da lavori che appartengono al periodo giovanile del compositore tedesco, trascorso in terra italica, principalmente a Milano, dove il musicista giunse nel 1741 al seguito dell’amico e protettore Antonio Maria Melzi, un nobile appassionato di musica.

Christoph Willibald Gluck nel celebre ritratto di Joseph Duplessis risalente al 1775.

Fu lo stesso Melzi ad affidare il giovane compositore agli insegnamenti di un maestro molto rinomato all’epoca, soprattutto nel campo della musica strumentale, Giovanni Battista Sammartini, uno dei maggiori sinfonisti italiani della prima metà del Settecento. Insegnamenti che portarono l’apprendista Gluck a cimentarsi soprattutto nell’elaborazione di brani strumentali, come le Sei Sonate in Trio Wq. 53, la cui data di composizione è sconosciuta e pubblicate a Londra nel 1746 (alcuni musicologi, però, ritengono inesatta tale attribuzione a Gluck, in quanto sarebbero invece farina del sacco di un musicista parmense, Alessandro Besozzi, stimato dal giovane Mozart). Ad ogni modo, gli studi effettuati con il milanese Sammartini non distolsero l’attenzione di Gluck nei confronti del teatro musicale, come dimostrano le nove opere liriche che il compositore bavarese scrisse tra il 1741 e il 1745, prima di abbandonare l’Italia alla volta di Londra, che avvenne nello stesso 1745, dove cercò, senza molto successo a dire il vero, di ingraziarsi il divino Sassone Georg Friedrich Händel. Queste nove opere rappresentano, quindi, il nucleo iniziale dell’attività operistica gluckiana e da quattro di esse, per l’esattezza Il Tigrane, Poro, La Sofonisba e L’Ippolito, Elena De Simone ha voluto registrare nove arie. Come ricorda lo stesso mezzosoprano veneziano nelle note di accompagnamento al disco, delle arie da lei scelte, così come delle partiture delle opere, non ci sono giunti gli autografi gluckiani e per tale motivo, per cercare di essere il più possibile fedeli all’esecuzione originale, sono stati scelti brani di cui esiste ancora la parte orchestrale, tranne che per un’aria, Se viver non poss’io tratta dal Poro, la quale è stata orchestrata alla bisogna partendo dalla linea del basso continuo e da qualche sporadica traccia del motivo riservato al primo violino.

La prima di queste opere, in senso cronologico, è Il Tigrane (già musicata da Johann Adolph Hasse nel 1729 basandosi sul libretto di Francesco Silvani), che andò in scena il 26 settembre 1743 sul libretto dello stesso Silvani revisionato da Carlo Goldoni, e che vide quale protagonista assoluto il soprano castrato Felice Salimbeni, ricordato, grazie alle testimonianze dei contemporanei, per il suo canto possente e altamente espressivo, capace (caratteristica questa dei cantanti castrati) di passare dal ppp al fff senza alcuno sforzo e con estrema naturalezza, oltre a primeggiare nello sfruttamento degli abbellimenti. Tutti aspetti che si possono cogliere perfettamente, anche grazie alla sapienza compositiva di Gluck, nelle quattro arie che fanno parte della tracklist, ossia Se spunta amica stella, Parto da te mio bene, Si ben mio, morrò se il vuoi e Rasserena il mesto ciglio.

Ritratto su stampa di Felice Salimbeni, dal disegno di Georg Friedrich Schmidt (1751).

Anche La Sofonisba, andata in scena al Teatro Regio Ducale di Milano il 18 gennaio 1744, su libretto di Metastasio e con i recitativi ancora di Francesco Silvani, ebbe una protagonista di primissimo piano, il soprano romano Caterina Aschieri, una delle primedonne assolute dell’epoca, preferita da autori Leonardo Leo, Baldassarre Galuppi, Johann Adolph Hasse e dallo stesso Gluck, che la volle nel già citato Il Tigrane, oltre che in altre opere milanesi quali Artaserse del 1741 e Demofoonte del 1742, e la cui caratura artistica e scenica fu tale da potersi permettere il lusso di chiedere compensi uguali a quelli pattuiti con i maggiori castrati dell’epoca. In questa registrazione, Elena De Simone presenta le arie destinate a Caterina Aschieri nel ruolo di Sofonisba, Tremo fra dubbi miei, Là sul margine di Lete (a mio avviso, anche per via di una coinvolgente orchestrazione, la più bella di tutto il disco) e Oh frangi i lacci miei, tutte assai impervie a causa delle tante colorature confezionate ad hoc da Gluck per la cantante romana, oltre a richiedere una grande espressività in chiave di sfumature psicologiche.

Il soprano romano Caterina Aschieri, una delle cantanti più famose della prima metà del Settecento.

Ippolito fu l’ultima opera composta da Gluck prima di lasciare Milano alla volta di Londra e andata in scena, sempre per il Teatro Regio Ducale, il 31 gennaio 1745, con il libretto scritto dal marchese Giuseppe Gorini Corio. Al centro della vicenda la figura eroica eponima, che scaturisce sia dall’omonima tragedia di Euripide, sia da Phèdre et Hippolyte di Racine, capace per nobiltà d’animo e rettitudine morale di assumersi colpe che non sono sue. Nell’opera di Gluck il suo ruolo fu confezionato per la voce e le doti sceniche del soprano castrato milanese Angelo Maria Monticelli, la cui voce fu equiparata dai contemporanei a quella del grande Farinelli e del Senesino. Tutta la drammaticità e il pathos che Monticelli era in grado di offrire in scena sono perfettamente ravvisabili nell’aria scelta dal mezzosoprano veneziano, Dirai all’idol mio, capace di trasmettere grande commozione e coinvolgimento. L’ultima aria presente in questa registrazione è la già citata Se viver non poss’io tratta da Poro, opera quasi del tutto ormai perduta che andò in scena al Teatro Regio di Torino il 26 dicembre 1744, su libretto del solito Metastasio. Tra i protagonisti ci fu un altro soprano castrato, Giuseppe Gallieni, che impersonò il personaggio di Gandarte, per il quale Gluck scrisse l’aria in questione.

Il castrato milanese Angelo Maria Monticelli, in un ritratto di Andrea Casali e messo in stampa da John Faber, la cui voce fu equiparata a quella di Farinelli e del Senesino.

La lettura fatta da Elena De Simone è appropriata e aderente a quelle che avrebbe dovuto essere la prassi esecutiva ai tempi di Gluck; questo perché, essendo un mezzosoprano in grado di affrontare con agio le tessiture acute e dotato di un’emissione timbrica di notevole ampiezza ed energia, vanta quelle caratteristiche canore che devono essere appartenute ai castrati dell’epoca. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che queste arie furono composte dal musicista bavarese con il chiaro intento di esaltare le doti virtuosistiche dei loro interpreti. Quindi, capacità di agilità, di saper gestire ed esprimere con efficacia gli abbellimenti, controllo di emissione nel passaggio dal pianissimo al fortissimo. Tutti aspetti che il mezzosoprano veneziano dimostra di rispettare, dimostrando di trovarsi a proprio agio sia nel registro medio-grave, sia in quello acuto che non risulta mai sforzato o innaturale. Anche la proprietà della sfera psicologica, nel saper trasmettere con il canto le emozioni e i sentimenti evidenziati dal testo e dalla materia strumentale, viene resa da Elena De Simone con il giusto coinvolgimento, facendo sì che questo banco di prova inzuppato di virtuosismo e di difficoltà tecniche sia stato superato brillantemente, anche grazie a una caratteristica che contraddistingue il colore canoro del mezzosoprano veneziano tendente a una tonalità scura, più vicina a quella del contralto, ma senza provare disagio o debolezze quando si tratta di aprirlo quando raggiunge il registro acuto. L’esecuzione strumentale da parte dell’Ensemble Il Mosaico è altrettanto buona in fatto di senso ritmico e di proposizione di quei colori che servono ad evidenziare e a circoscrivere la linea del canto (in tal senso, è da rimarcare la prova dei due violini, quelli di Gian Andrea Guerra e di Pietro Battistoni, sui quali si appoggiano gli altri artisti, trasmettendo un suono coeso e sempre partecipe).

Il mezzosoprano Elena De Simone, protagonista di questo CD della Tactus.

Il nome di Michele Fontana, che tra l’altro è anche un ottimo pianista e clavicembalista, rappresenta una garanzia in fatto di presa del suono. La microfonatura, che risulta essere accorta e ben calibrata, permette di creare quel senso spaziale in cui si avverte uno spazio tra il posizionamento del mezzosoprano e quello dei membri della compagine strumentale. Ciò dà modo di ottenere anche un ottimo equilibrio tonale, grazie al quale i registri della voce e degli strumenti non risultano sovrapposti o, peggio, impastati. Inoltre, a livello di palcoscenico sonoro, grazie a una dinamica assai corposa, energica e veloce, la ricostruzione della cantante, come già chiarito, posta leggermente in avanti, e quella degli strumentisti appaiono corrette e debitamente messe a fuoco, con una piacevole ampiezza e altezza del suono. Infine, il dettaglio non manca di matericità e di quella sensazione “tattile”, il che conferisce un maggiore coinvolgimento nell’esperienza di ascolto.

Andrea Bedetti

  • Christoph Willibald Gluck – Arie d’opera
  • Elena De Simone (mezzosoprano) – Ensemble Il Monaco
  • CD Tactus TC710703

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