Un cofanetto della Velut Luna intitolato Project One e contenente un disco in vinile, un CD e con la possibilità di scaricare le tracce in formato liquido HD, vede l’organista Marco Lo Muscio e il sassofonista e flautista David Jackson, unitamente con la collaborazione dei fratelli Steve e John Hackett, eseguire brani di diversi generi musicali, tra i quali spicca quello del prog rock, oltre a pezzi appartenenti al panorama della musica colta del Novecento

Ascoltare musica, a volte, diventa anche un problema di ordine generazionale, ossia quando un compositore, un genere, un movimento vengono messi a confronto da orecchie ormai mature e da quelle più giovani. Per le prime c’è anche il fatto che si devono fare carico di un bagaglio di ricordi non indifferente, per le seconde invece subentra l’insostenibile leggerezza dell’età, che se da un lato privilegia la freschezza e l’innocenza, dall’altro esclude inevitabilmente l’avere vissuto l’epoca che ha dato origine a quella musica.

Un problema, questo, che si pone inevitabilmente quando si affronta il variegato e affascinante arcipelago del rock progressivo, germogliato nella metà degli anni Sessanta, che ha dato frutti meravigliosi nei primissimi anni Settanta, per poi andare a seccarsi e a morire alla fine di quello stesso decennio. Quindi, non state a dare ascolto a coloro che sono convinti che questo genere abbia continuato a donare polpa e buccia anche dopo; tutt’al più, perdonateli, perché non sanno quello che dicono, soprattutto se oltre al semplice ascoltare, non hanno vissuto quegli anni per una mera questione anagrafica. Ma, sia ben chiaro, la bilancia del tempo non è che sia tutta a favore di chi ha ormai i capelli bianchi o non li ha nemmeno più: no, per il semplice fatto che chi ha vissuto i roaring Seventies, deve fare i conti con un nemico implacabile, con un ospite inquietante, per dirla con Nietzsche, un nemico dichiarato che si chiama nostalgia, la quale è portatrice insana di un virus altrettanto pernicioso e letale, ossia quello che riguarda il processo di mitizzazione.

Chi vi scrive, quei meravigliosi anni Settanta, almeno da un punto di vista musicale, visto che per il resto, almeno nella nostra Italietta, si rischiò una nuova guerra civile a causa di motivi ideologici (lo ricordo a beneficio dei cosiddetti new millennians), li ha vissuti e soprattutto ascoltati, inoltrandosi in un viaggio siderale alla scoperta di nuovi sistemi interplanetari a livello sonoro, a bordo di un’astronave euclidea, la quale, se da un lato mi ha permesso di seguire una rotta rock, dall’altro mi ha dato modo progressivamente, nel corso del tempo, di scoprire e approfondire quella fatta nel nome della cosiddetta “musica classica” (espressione fallace e fuorviante) o colta, che dir si voglia. Ma se è vero che il primo amore non si scorda mai, soprattutto se grazie ad esso hai preso calci nei denti sotto forma di cocenti delusioni di cuore, allora, almeno per quanto mi riguarda, il prog rock mi è rimasto sempre nell’organo cardiaco, se non a livello di ascolto quantomeno in quello saggistico (a tale proposito, per coloro che non conoscono questo genere musicale, consiglio due testi ineludibili, Storia del Prog di Fabio Rossi e Progressive & Underground di Cesare Rizzi).

Ma quando ho ricevuto un disco, in edizione speciale, della Velut Luna, formato da long-playing a 33 giri in stampa audiofila, da compact disc e link di collegamento per scaricare le tracce audio in formato liquido in alta risoluzione, le plaghe saggistiche hanno fatto marcia indietro, come le acque del Mar Rosso, per lasciare nuovamente posto al Mosè dell’ascolto, vale a dire costringendomi a salire ancora sull’astronave di cui sopra, non per fare questa volta un viaggio nello spazio, bensì nel tempo. In un certo senso, grazie a questo progetto discografico del guru Marco Lincetto, mi sono trovato negli stessi panni del protagonista del romanzo The Time Machine di Herbert George Wells, impegnato in un viaggio a ritroso nei decenni, poiché il disco in questione, che porta il titolo di Project One (il che, a rigor di logica, fa presagire che ce ne saranno altri in futuro), vede protagonisti il sassofonista David Jackson, che ha fatto parte dei Van der Graaf Generator, e l’organista e pianista Marco Lo Muscio, con la collaborazione, udite udite, di Steve Hackett (cavalieri del Prog perduto, non vi ricordano forse qualcosa siffatti nome e cognome?) e del fratello John Hackett. Non solo, ma andando a leggere la tracklist del long-playing e del CD, non ho potuto fare a meno di provare una stretta al cuore, poiché titoli come Moonchild, Hairless Heart, Pilgrims, The Great Gig in the Sky, non hanno fatto altro che scoperchiare le tombe (quindi, da Wells siamo entrati nei territori inquietanti di Howard Phillips Lovecraft… ), per riportare alla memoria, lo scrivo sempre a beneficio dei new millennians, gruppi musicali quali i King Crimson, i Genesis, i Van der Graaf Generator e i Pink Floyd.

Il sassofonista e flautista britannico David Jackson.

Ovviamente, ed era il minimo che mi aspettassi, questi brani leggendari non sono stati registrati tel quel, ma rielaborati ed arrangiati, principalmente da Lo Muscio con la collaborazione di Jackson, in chiave organistica e sassofonistica/flautistica, con lo scopo, ne sono pressoché certo, di mostrarne non solo ancora la loro validità in tempi del tutto nuovi (e, ahimè, del tutto degenerati a livello musicale), ma anche una colta e nobile connotazione stilistica se raffrontati ad altri brani, sempre presentati in chiave arrangiata, composti da giganti del Novecento quali Benjamin Britten (Corpus Christi Carol), Aaron Copland (l’immancabile Fanfare for the Common Man, qui nella versione in salsa EL&P) e György Ligeti (Musica ricercata n. 7), che vanno ad aggiungersi ad altri scritti dallo stesso lo Muscio, da Steve Hackett e altri autori.

L’organista e pianista Marco Lo Muscio.

Come si vede una tracklist (ovviamente completa nel CD e nelle tracce liquide e non nel long-playing) alquanto variegata per generi e stili, il cui punto di coesione e di condivisione viene fornito in stragrande parte dall’impianto strumentale, ossia l’organo di Marco Lo Muscio e dal sax e dal flauto di David Jackson, come a dire che tale pletora di brani, oltre che arrangiati, potevano essere esaltati debitamente da un siffatto binomio strumentale, il che può generare un’apparente sorpresa in chi non è abituato a masticare musica, ma che viene confermato dalla storia musicale, poiché organo e fiati si accompagnano fin dal lontano XVII secolo con ottimi e interessanti risultati. E lo stesso avviene in questa registrazione, anche se il valore artistico non è sempre omogeneo, in quanto alcuni brani, penso a The Hermit di Steve Hackett, Pilgrims e Hairless Heart, necessitano dell’apporto di determinate atmosfere timbriche, che il binomio organo & fiati non sempre riescono a riproporre, mentre altri non hanno perso nulla della loro efficacia, come nel caso di Moonchild e Corpus Christi Carol.

Ancora Marco Lo Muscio tra Steve Hackett (a sinistra) e il fratello John Hackett.

Mi appare però chiaro un fatto, ossia che questa miscellanea, se non è sempre sorretta dalla resa artistica, fermo restando la validità interpretativa di tutti gli artefici, viene al contrario esaltata in modo a dir poco incontrovertibile dal risultato tecnico della presa del suono. E qui si entra in un altro mondo, soprattutto per quello che riguarda il comparto del vinile e della musica liquida. Chi è addentro alla materia audiofila, sa perfettamente che ci sono delle incisioni che, al di là del valore dato dalla musica e dalla sua esecuzione, rappresentano, a livello tecnico, degli ottimi test per saggiare la qualità del proprio impianto di ascolto. Ebbene, questo Project One, proprio per il fatto che può essere confrontato a livello analogico e digitale, quest’ultimo sia nel formato fisico sia in quello liquido, rientra pienamente in questo novero di produzioni. Già di per sé, e lo ripeto ancora una volta, l’utilizzo di un organo è un banco di prova non indifferente per tutte le sezioni di un impianto Hi-Fi o Hi-End, soprattutto, come in questo caso, se il suo suono viene catturato in modo a dir poco esemplare, ma il suo impiego con l’aggiunta di altri strumenti difficili da restituire al meglio, come nel caso dei sax, diventa un ulteriore valore aggiunto per saggiare la validità e i difetti del proprio impianto riproduttivo.

Per essere riprodotti al meglio, i vari tipi di strumenti che rientrano nella famiglia del sax, devono vantare una duplice caratteristica, in quanto il loro timbro, nei vari gradi di registro dal grave all’acuto, devono manifestare un suono per così dire “grasso” che, con il passaggio progressivo dall’acuto al grave, dev’essere sempre più opulento in chiave orizzontale, ossia allargandosi nell’invadere lo spazio fisico in cui si trova e, allo stesso tempo, e questa è la seconda caratteristica, non deve mai smettere di essere graffiante e veloce contemporaneamente. Insomma, deve trasmettere un grip con il quale il suono si aggrappa all’aria circostante, ovviamente senza manifestare perdita di messa a fuoco, il che è assai difficile da ottenere in una normale presa del suono, ma che diventa a dir poco indispensabile quando invece quest’ultima viene effettuata come Cristo comanda. Ovviamente, Marco Lincetto, sotto tale aspetto e non solo, non ha deluso le attese, in quanto il timbro e la ricostruzione dei sax e del flauto all’interno della Chiesa di San Gregorio a Roma, dove è stata fatta la registrazione, portano a un risultato come quello che ho appena descritto sopra in chiave teorica.

Anche la resa dell’organo è impeccabile, grazie a un uso centellinato e disciplinato del riverbero che si viene a creare, il quale non solo non provoca alcun sfasamento nel processo di energia e di velocità nella dinamica, ma permette, a livello di palcoscenico sonoro, di far percepire in fase di ascolto la dimensione fisica nel quale si vengono a trovare gli strumenti. Altro aspetto fondamentale è quello che riguarda il rapporto di presenza fisica, quindi di posizionamento, e di irradiazione sonore dato dall’organo e dagli altri strumenti di volta in volta utilizzati. Può capitare, anche in prese di suono di pregio, di avvertire una certa distanza tra l’organo e gli altri strumenti, con il risultato di scompaginare l’idea coesa di profondità, cosa che qui invece non avviene, in quanto appare sempre chiara una ricostruzione sonora e fisica nella quale tutti gli strumenti sono pienamente credibili e ricostruiti sulla base di un piano ideale, con conseguente beneficio del dettaglio, che vanta tonnellate di nero intorno ad essi, e alla genuinità e correttezza dell’equilibrio tonale.

Tutte queste valutazioni devono poi essere applicate ai tre formati messi a disposizione dalla presente incisione, con il primo posto del podio ideale che va, ancora una volta, al prodotto analogico, il quale, usando un termine ippico, ha la meglio di un’incollatura rispetto alle tracce liquide in alta risoluzione, le quali staccano di mezza lunghezza il formato fisico digitale. Attenzione, però, restando nel campo del CD, ad averne di risultati come questo!

Un’ultima cosa: dedico questa recensione alla memoria di Keith Emerson, uno dei protagonisti dell’irrepetibile stagione del prog rock, che ci ha lasciati il 10 marzo 2016 suicidandosi, poiché a causa di avanzati problemi al braccio e alla mano destra, non era più in grado di suonare come avrebbe voluto. Fino all’ultimo è rimasto fedele al suo credo di perfezione.

Andrea Bedetti

  • AA.VV. – Project One
  • Marco Lo Muscio (organo & pianoforte) – David Jackson (sax & flauto) – John Hackett (flauto) – Steve Hackett (chitarra elettrica)
  • LP – CD – Tracce HD Velvet Luna CVLD 362 (referencemusicstore.com)

Giudizio artistico: 4/5

Giudizio tecnico: 5/5

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