Il pianista bresciano ha pubblicato per la Velvet Luna un Gold CD, Double Time, nel quale si presenta in veste sia di interprete/improvvisatore, rivisitando celebri brani, tra gli altri di Thelonious Monk e Duke Ellington, sia di compositore, facendoci comprendere come queste due sfere, a volte problematiche e apparentemente inconciliabili, siano in fondo in grado di alimentare in lui il concetto di un vero e proprio Doppelgänger

L’arte interpretativa, e questo vale soprattutto nella musica jazz, si muove, si sviluppa, si articola sulla scia di una doppia traccia, quella che vede l’artista affrontare tramite la propria sensibilità e la propria esperienza tecnica pagine celebri di altri autori e quella che lo vede proporre un proprio repertorio, frutto della sua capacità compositiva. Tracce che, inevitabilmente, possono anche confluire in una proiezione artistica univoca, autoreferenziale, attraverso la quale l’artista che ne è investito riesce a mostrare, per così dire, un’immagine interpretativa double face, con la quale, contemporaneamente, riesce a offrire sé stesso nel medesimo ruolo di esecutore e di autore, alimentandosi così della linfa creativa altrui e, allo stesso tempo, di generare la propria vena inventiva.

Questo processo stilistico/compositivo risulta essere, e ciò può apparire facilmente chiaro e intuibile, una sorta di cartina al tornasole per comprendere anche come un artista si evolve, si affina, si sensibilizza di fronte all’atto musicale proprio e altrui, potendo, alla fine, padroneggiare indifferentemente entrambi, facendo pieno affidamento sull’uno e sull’altro per focalizzare meglio la propria figura di artista rispetto a se stesso e rispetto a chi lo ha preceduto. Si tratta, in fin dei conti, della riproposizione, in termini “alti”, del tipico concetto del Doppelgänger, del doppio, del duplice che è presente in noi, soprattutto quando chi ne è investito recita un ruolo di creazione e di sensibilità.

Il pianista e compositore bresciano Oscar Del Barba.

In nome di tale duplicità, quella che intride le sfere della creatività da un lato, e della sensibilità espressiva dall’altro, si pone indubbiamente un recentissimo disco registrato da un pianista jazz italiano, Oscar Del Barba, che ha pubblicato per la Velut Luna un Gold CD, intitolato Double Time, il quale rimanda, dunque, a questo ambito di “doppio” artistico e il fatto che l’artista bresciano abbia sostituito, nel proprio manifestarsi del Doppelgänger, il concetto temporale (time) al posto di quello di immagine (face), non cambia di fondo la rappresentazione di questo reciproco fiancheggiamento. Un fiancheggiarsi artistico che Del Barba propone attraverso due volti precisi e distinti, con le prime cinque delle nove tracce del disco in cui veste i panni dell’interprete/improvvisatore, rielaborando altrettanti celebri brani della letteratura jazz, e con le ultime quattro tracce che lo vedono calarsi nei panni di compositore. È interessante notare, come spiega lo stesso artista bresciano nelle succinte note di accompagnamento al disco, come le tracce appartenenti al filone “interpretativo” siano state registrate nel 2018, mentre quelle che lo vedono come autore risalgano addirittura al 2012. Un altro aspetto che Oscar Del Barba ammette è che il suo rapporto con questa dimensione Doppelgänger a volte ha generato delle tensioni emotive, non permettendogli di viverla in maniera “pacifica”, ma specificando anche, e ciò ci riporta a quanto da me affermato all’inizio, come sia l’una sia l’altra, in fondo, non possano esistere se non insieme.

Thelonious Monk, in una foto scattata nel settembre 1947 da William P. Gottlieb al Minton’s Playhouse di New York.

I brani che il pianista bresciano ha voluto proporre in qualità di interprete sono degli autentici classici, a cominciare da All the things you are, una canzone composta nel 1939 da Jerome Kern, con parole di Oscar Hammerstein II, e che è stata ripresa e registrata, sia nella versione cantata, sia in quella puramente strumentale, da artisti del calibro, tra gli altri, di Frank Sinatra, Ella Fitzgerald, Barbra Streisand, Bill Evans Trio, Keith Jarrett e Pat Metheny. Prendete un pianista jazz, chiedetegli che cosa gli piacerebbe suonare e lui vi risponderà, non dico tutte le volte, ma un numero consistente sì, che vuole eseguire un brano di Thelonious Monk. Cosa che Oscar Del Barba fa puntualmente con un must qual è Skippy, un pezzo che il grande “Monaco” registrò nel 1952. Altra canzone da poter plasmare a livello interpretativo, con o senza il testo cantato, presentata dal pianista lombardo è Stella by starlight, grazie alla quale nel 1944 il suo autore, Victor Young, si ritagliò una bella fetta di notorietà e che in seguito fu riproposta, tra gli altri, da un “certo” Charlie Parker, da Sten Getz, Chet Baker, da Bud Powell al pianoforte, e non per ultimo, da Miles Davis. Molto più recente, risale esattamente al 1993, è Our Spanish love song, composta dal contrabbassista americano Charlie Haden, mentre virando nuovamente al passato, Oscar Del Barba conclude la sua esplorazione interpretativa con Heaven del “Duca” Ellington, registrato per la prima volta nel 1968.

Duke Ellington, del quale Oscar Del Barba ha riproposto uno dei suoi brani più famosi, Heaven.

Ovviamente, Oscar Del Barba non esegue questi brani come se fosse il compitino di ripasso di un bambino delle elementari, ma lo trasforma in un procedimento di decostruzione/ricostruzione, assemblando il costrutto armonico non solo per conferire originalità alla resa melodica, ma soprattutto per esplorare con la tastiera del pianoforte la materia sonora conferendo nuove, intriganti prospettive d’ascolto. Per esempio, la riproposizione di Skippy lo vede protagonista di un’operazione di riassorbimento pianistico che va argutamente ed efficacemente a ricomporre tutta la geniale linea escogitata da Monk e suddivisa nella versione originale tra pianoforte, tromba, sax, contrabbasso e batteria (quella di Max Roach, tanto per intenderci). Anzi, la versione del pianista bresciano ha il merito di esaltare l’intero costrutto, mostrando le zone illuminate e quelle in ombra, donando all’edificio sonoro tutta la sua facciata.

Stella by starlight diviene poi un procedere contemplativo, una scansione timbrica che viene sapientemente centellinata, goccia dopo goccia, con un senso d’equilibrio nella riproposizione volumetrica del brano, nobilitando di conseguenza il suo scorrere melodico, problematizzandolo, ispessendolo, articolandolo ben oltre i suoi contorni originari. E lo stesso avviene in un brano easy-listening come può esserlo Our Spanish love song, che viene ripassato dal fitto setaccio interpretativo di Oscar Del Barba, filtrando certe inevitabili smancerie dolciastre e rassodandole in un costrutto più efficace, pur mantenendo integro il velluto melodico. Heaven, poi, viene praticamente dissezionato, scansionato, parcellizzato, donando un’aura di estrema raffinatezza timbrica, trasformandolo in un atto musicale di estrema delicatezza, un segmento contemplativo capace di portare il suono in una dimensione prossima alla atemporalità.

Il “secondo tempo” è poi conferito dall’Oscar Del Barba in qualità di compositore attraverso l’interpretazione di quattro suoi pezzi. Ascoltando il suo côté compositivo, si può comprendere meglio l’approccio esecutivo del pianista bresciano e per quale ragione, a livello di tracklist, il “primo tempo”, ossia la sfera interpretativa/improvvisativa, sia quello temporalmente più recente rispetto ai quattro brani della sua produzione creativa. Sembra che Oscar Del Barba componga non solo per dare sfogo alla sua inventiva sonora, ma che tale atto gli abbia permesso nel corso del tempo di disciplinare, ordinare, lucidare la sua dimensione improvvisativa, facendo affiorare quelle peculiarità timbriche, di organizzazione armonica che poi ha riversato nell’atto interpretativo tout court. Così, Instante immenso, Rhapsodyando, improvvisazione 2, Elegia e Skyline, improvvisazione 1, questi i titoli dei quattro brani da lui composti, portano a capire il percorso attraverso il quale ha saputo forgiare, partendo da un nucleo tematico, una semplice serie di accordi, un’idea sonora, un’articolazione programmatica in cui la prospettiva melodica non viene mai meno, attuata non solo a livello di coinvolgimento di ascolto, ma quale stratificazione necessaria per ultimare il segno propositivo della sua musica. Non un abbellimento, uno sterile strizzare l’occhio (e l’orecchio) di chi ascolta, ma la piena consapevolezza che la melodia può essere ancora necessaria per costruire, per innalzare, per fornire quel respiro tridimensionale di cui si nutre anche l’arte sonora più complessa e raffinata.

Ovviamente, Marco Lincetto ha firmato la presa del suono, oltre al coinvolgimento di Giancarlo Roberti che ha catturato gli ultimi quattro brani della tracklist, tutti proposti a 88.2/24. In entrambi i casi, Oscar Del Barba ha utilizzato uno Steinway & Sons D274, con esiti di ascolto che si fanno apprezzare per le chiare differenze timbriche e dinamiche. In effetti, come viene spiegato nelle note tecniche, i primi cinque brani permettono di cogliere un timbro, sia nel registro medio-grave, sia in quello acuto, in cui il suono appare più scuro, con un senso di piacevole velluto nei transienti (e questo soprattutto nel registro più basso), mentre lo strumento usato negli ultimi quattro pezzi è chiaramente più “luminoso”, brillante, dotato di quella giusta e necessaria velocità capace di esaltare adeguatamente il registro acuto. La ricostruzione del palcoscenico sonoro avviene in entrambi i casi con lo Steinway alquanto ravvicinato rispetto all’ascoltatore, senza però fornire una sensazione di squilibrio o di scorrettezza fisica, anche grazie a una focalizzazione del suono che si irradia in altezza e in larghezza rispetto ai diffusori. L’equilibrio tonale è pressoché ideale, dando modo di disciplinare e suddividere i registri, con un’assenza totale di aloni e di indebite sovrapposizioni, e permettendo di conseguenza la piena distinzione del fraseggio di Oscar Del Barba tra le zone d’ombra e quelle maggiormente illuminate. Con simili premesse, anche il dettaglio non tradisce le attese, consegnando all’orecchio e all’occhio di chi ascolta uno strumento che può essere percepito a livello tridimensionale, con entrambi gli Steinway circondati da dosi esorbitanti di nero.

Andrea Bedetti

Giudizio artistico 5/5

Giudizio tecnico 5/5


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