Il compositore e filosofo David Fontanesi ha scritto tre saggi critici nei quali ha attaccato ferocemente e senza mezzi termini quei musicisti che, in nome dello sperimentalismo e di una sterile “matematica sonora”, hanno rinnegato l’ordine naturale incarnato dalle leggi del linguaggio tonale. Ne abbiamo parlato con lui in questa lunga e articolata intervista, nella quale il musicista lombardo dimostra di non avere peli sulla lingua
Maestro Fontanesi, tra il 2018 e il 2022, per l’editore Zecchini lei ha pubblicato tre saggi, intitolati rispettivamente Preludi ad una metafisica della musica contemporanea, Studi e intermezzi sulla musica del ‘900 e Note sigillate, dedicati al concetto della musica tra passato e presente, tra quella, come lei afferma, saldamente fedele a un’idea di Bellezza ed espressa attraverso la ricchezza e la poliedricità del linguaggio tonale, e quella frutto invece della dissoluzione e dell’atomizzazione del linguaggio che ha accompagnato la storia musicale dal tardo Rinascimento fino agli albori del Novecento, ossia dal risultato operato dapprima dalle cosiddette avanguardie, poi dalla Seconda scuola di Vienna e infine dalla Scuola di Darmstadt, un risultato, a suo dire, incarnazione della bruttezza, della volgarità, della morte della Musica con la m maiuscola. Al di là di determinati aspetti e tesi che sono presenti in questi tre saggi e che andremo ad affrontare nel corso di questa intervista, com’è nata in lei la necessità, il bisogno intellettuale/artistico di scrivere questo trittico saggistico che, oltre a presentare affermazioni decisamente “forti”, denota un coraggio non indifferente, se si tiene conto che lei va decisamente à rebours rispetto agli attuali diktat incarnati dai depositari e dai “sacerdoti” che si riconoscono e che operano in nome di questa musica contemporanea?
Ho sempre nutrito un’irrefrenabile idiosincrasia per l’arido cerebralismo dell’avanguardia sperimentalista novecentesca. Avevo la necessità di analizzare e comprendere a fondo i motivi che avevano condotto alla riduzione della musica a mero fatto noetico. Un’operazione che a mio parere si è rivelata fallimentare – a dispetto degli ottusi epigoni della Neue Musik che si ostinano a illudersi del contrario – perché ha dato origine a composizioni avulse da quella voluttà sonora che è una componente fondamentale nell’opera musicale per sedurre l’ascoltatore. Credo che se il principio musicale non s’incarna nella realtà tangibile toccando la dimensione emozionale, si risolva in un vacuo virtuosismo mentale. Detto in altri termini: se la composizione musicale non ha alla radice un sinolo di epicureismo intellettuale e di passione sensuale, risulta carente di stabilità, di densità, di fulgida comprensione. Da un lato, nei testi da lei citati, ho mosso una critica implacabile verso le principali teorie compositive del XX° secolo, rivelandone gli errori intrinseci e la sostanziale inadeguatezza; ma alla pars destruens ne ho affiancata una construens: un’attività compositiva intesa a far trasparire il mistero ineffabile del Bello Musicale.
Non le nascondo, Maestro Fontanesi, che è proprio questo aspetto relativo all’“epicureismo intellettuale”, che sarà anche intellettuale, ma è pur sempre epicureismo, oltre al suo anelare a un concetto di “voluttà sonora”, a generare in me qualche dubbio, nel senso che faccio fatica a immaginare un ascolto votato esclusivamente o precipuamente al culto della dea Bellezza, poiché personalmente vedo nell’arte musicale, e non sono di certo il solo, anche un processo cognitivo, legato a un principio di acquisizione, la cui funzione non è soltanto quella di “allietare”, ma anche di “arricchire”. Ora, lungi da me scimmiottare le tesi adorniane, ma se ascolto un valzer di Johann Strauss, posso sentirmi certamente allietato, ma se voglio arricchirmi, sempre che la dimensione musicale possa donare conoscenza, potrò abbandonarmi sia alla Quinta sinfonia di Beethoven sia, staccando la presa che mi collega alla dea Bellezza, al Moses und Aron di Schönberg. Ossia, a differenza di lei, forse avverto il fascino, il rapimento non solo innalzandomi, ma anche inabissandomi, laddove non regna il “bel suono”. È solo una questione di prospettiva o, secondo lei, c’è qualcos’altro?
Quanto lei sostiene è corretto a condizione di presupporre come possibile l’intellettualizzazione del mondo in generale e dell’opera d’arte in particolare. A mio avviso nell’esperienza dell’ascolto è invece centrale la fruizione estetica dell’opera musicale, il riconoscimento della sua “bellezza”, il quale è un atto che coinvolge le dimensioni e facoltà dell’essere umano – spirito intelletto e sensibilità – nella loro totalità. E ritengo altresì che la percezione del “Bello” in un’opera artistica possa essere tutt’al più incrementata, ma non certo determinata, dalla conoscenza della storia e genesi dell’opera o dalla comprensione della tecnica compositiva utilizzata da un artista per realizzarla o dal rinvenimento di altri fattori estrinseci. Un’estetica puramente intellettuale o “cognitiva” vede nella bellezza un concetto complesso da scomporre; in realtà la bellezza è una qualità intrinseca del capolavoro musicale, impossibile da ridurre a qualcos’altro che non sia essa stessa: è un’entità unica e indivisibile che trova nella nostra mente un’adeguata percezione. Ora, le do atto che, unitamente alla bellezza, la ragione umana ritrova fuor di dubbio nell’opera musicale altre proprietà in grado di soddisfarla esteticamente, ma si tratta sempre di un insieme di qualità di natura non solo astratta ma anche sensibile: l’armonia, la compiutezza, la coerenza, la sobrietà, la precisione, l’equilibrio, la raffinatezza, la sensualità, la vitalità, la passione ecc. Detto ciò, riguardo a Schönberg, concordo col giudizio espresso a suo tempo dal grande Richard Strauss: avrebbe fatto meglio ad andare a spalare la neve…
Ecco, prendendo spunto proprio dalla stilettata straussiana, veniamo a Schönberg. Nel trittico saggistico da lei scritto, lo faccio presente soprattutto a beneficio di coloro che non hanno letto i libri in questione, lei lancia strali e attacca diversi compositori e critici tanto che, citando Leporello, si può affermare che ha stilato un vero e proprio “Madamina, il catalogo è questo” nel quale sono “elencati” coloro che si sono macchiati di lesa maestà nei confronti della Bellezza e della legge naturale dalle quali discende la vera Musica. Ed è indubbio che tra i musicisti da lei presi di mira Schönberg sia il più gettonato, al punto che nel suo terzo saggio, Note sigillate, scrive testualmente: «Se poi si decide di prendere in considerazione Schönberg (che non era né filosofo, né tantomeno musicista)… ». Questa acrimonia, questo livore lei li esemplifica nelle sue pagine sia andando a colpire la sfera compositiva, sia quella riguardante l’uomo Schönberg (il capitolo Sull’atonalità e il serialismo dodecafonico, presente in Preludi ad una metafisica della musica contemporanea, ne rappresenta sintomaticamente l’apice). A questo punto, la domanda è assai semplice e inevitabile: ma del compositore (mi permetta di definirlo, nonostante tutto, tale) viennese riesce a salvare almeno qualcosa, magari la sua produzione in bilico tra tardoromanticismo ed espressionismo, oppure il rifiuto da parte sua è risolutamente totale?
Fino alla Verklärte Nacht op. 4 la musica di Schönberg, conservando simulacri di derivazione tardoromantica, né dilettava né urtava l’ascoltatore; nelle opere successive, il compositore scivola piano piano nella bocca del Nulla atonalista e tenta di uscirne ergendosi a inventore e legislatore della teoria dodecafonica (lo spartiacque sono i Fünf Klavierstücke op.23 e la Serenade op.24). La dodecafonia nasce quindi come un correttivo dell’atonalismo che, avendo abolito qualsivoglia rapporto di attrazione o repulsione, di supremazia o sudditanza tra i vari gradi della scala, rendeva ardua l’elaborazione di architetture sonore articolate e di ampio respiro.
E tuttavia, da una parte l’obbligo della disposizione di tutti i dodici suoni della scala cromatica (che sono comunque quelli della scala temperata, dunque suoni convenzionali) secondo un ordine seriale precedentemente stabilito, dall’altra parte il severo vincolo dell’adozione di procedimenti compositivi tradizionali di derivazione fiamminga come l’aggravamento, la diminuzione, l’inversione, la retrogradazione, svelano la natura intrinseca della dodecafonia: e cioè nulla più che una teoria totalitaria e reazionaria. I danni che Schönberg ha arrecato con la dodecafonia alla storia della musica sono, dal mio punto di vista, incommensurabili: sebbene le correnti avanguardistiche successive abbiano rapidamente relegato il serialismo tra i ferrivecchi, ne hanno ciononostante conservato il blando armamentario teoretico che configura il “comporre” esclusivamente come l’atto di imprimere un ordine al “materiale musicale”, di conferirgli una disposizione che ne coordini o subordini gli elementi secondo una certa prospettiva e dando vita a un genere di musica basata sul presupposto che il valore della composizione si fondi esclusivamente sulla preziosità di una struttura matematicamente esatta che trascura, o giudica del tutto irrilevante, l’aspetto edonistico della realtà sonora. Insomma, l’invenzione di Schönberg ha rappresentato, a mio parere, il tipico caso nel quale la soluzione si è rivelata peggiorativa del problema o, detto diversamente, nel quale la cura ha avuto un effetto più fatale della malattia.
Nei suoi testi, Maestro Fontanesi, lei non punta il dito solo nei confronti di diversi compositori del Novecento, responsabili, a suo dire, di aver provocato la morte della vera Musica, ma anche contro quei teorici e critici militanti, a partire da Theodor Wiesengrund Adorno, che hanno appoggiato, difeso e propagandato il corso della cosiddetta Neue Musik. Non dico certamente qualcosa di nuovo, se affermo che nel corso del tempo, e questo soprattutto a causa di precisi eventi storici, ossia la Seconda guerra mondiale, con i suoi vincitori e con i suoi vinti, si è venuta a determinare una sorta di posizione manichea; da una parte, il fronte “progressista” nel quale si sono riconosciuti i paladini delle avanguardie, della Seconda scuola di Vienna e dei nascenti corsi estivi di Darmstadt, dall’altra il fronte “conservatore” in cui sono confluiti i superstiti fedeli del “sorpassato” linguaggio tonale. Il tutto ulteriormente rafforzato dal conseguente passaggio allo scontro ideologico, in cui la visione politica di sinistra ha fatto propria la “nuova musica”, mentre una visione politica di destra, pur nelle sue diverse sfumature e particolarità (l’esempio di un “tradizionalista” come Julius Evola che esaltava il jazz e stigmatizzava la musica classica la dice lunga), ha difeso a spada tratta la dimensione “passatista” del linguaggio tonale. A quel punto, la critica militante si è spaccata, dando vita a una disputa “politico-musicale” che in determinati Paesi, come l’Italia e la Germania e parzialmente in Francia, ha assunto connotati particolarmente accesi (Paolo Isotta, dopo aver assistito alla Scala a una rappresentazione del Prometeo di Luigi Nono, scrisse testualmente in un elzeviro del Corriere della Sera: “Signore e signori, la musica è finita”). In parte posso già intuire la sua risposta, ma non crede che la proliferazione della cosiddetta “musica degenerata” (espressione, questa, non inventata dai nazisti, come comunemente si crede, ma dalla critica viennese dei primissimi anni del Novecento, allorquando ascoltò e valutò le prime composizioni cameristiche di Schönberg) sia soprattutto il frutto di una connotazione squisitamente ideologica camuffata da analisi musicale?
Ritengo che più che una dicotomia tra destra e sinistra, nel clima del dopoguerra abbia giocato un ruolo cruciale la smania dei compositori di voler contribuire allo sviluppo politico, sociale e filosofico, anziché limitarsi a custodire, affinare e ampliare la propria sapienza artistica per renderla realmente costruttiva. Il valore musicale della composizione passava allora in secondo piano e gli veniva anteposto il proclama ideologico e programmatico che, in effetti, come lei ha sottolineato, era quasi esclusivamente di orientamento progressista. In realtà, sarebbe bastata un’analisi avveduta e nemmeno troppo approfondita per dimostrare come la stragrande maggioranza delle partiture scritte in quel periodo non fossero che degli autentici bluff. Purtroppo, in mani non metafisiche l’analisi musicale smette di essere strumento di verità per trasformarsi invece in strumento di menzogna che riveste l’opera mediocre di intenzionalità fasulle e di pregi inesistenti.
Venendo alla Scuola di Darmstadt, penso fosse caratterizzata da un radicalismo e da uno spirito di intolleranza tali da arrivare ad imporre un unico modello linguistico come punto di riferimento (sancendo così la morte della grande tradizione musicale tedesca) perché era una diretta emanazione di Adorno, una sua gemmazione, come una sua creatura era peraltro anche Schönberg. Negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, il compositore tedesco più importante e prestigioso era universalmente considerato Hindemith, non certo Schönberg. Adorno, imbevuto del marxismo della Scuola di Francoforte, ormai disperava che il sovvertimento dell’ordine sociale potesse avvenire ad opera della rivoluzione proletaria. E così decise di perseguirlo con altri mezzi. Schönberg vedeva nel sistema dodecafonico uno strumento per esercitare un controllo assoluto sull’universo sonoro. Adorno vi intravede qualcosa di diverso: la dissonanza generalizzata era la via privilegiata per istituire un ordine opposto a quello naturale della scala diatonica e se ne appropria per i suoi scopi di destrutturazione di una società come quella europea di allora, da lui giudicata tradizionale, borghese, moralista, basata sulla famiglia e sull’ordine gerarchico. Nella volontà di propugnare una teoria musicale allo scopo di “estinguere virtualmente il soggetto” e, di conseguenza, mirare alla dissoluzione dei valori a fondamento dell’organizzazione civile, più che un intento politico ci scorgo un intento demoniaco.
Leggendo i suoi tre saggi e dando un’occhiata ai loro indici dei nomi, mi sono reso conto che nella sua disamina relativa ai compositori del Novecento, soprattutto di quel Novecento musicalmente a lei caro, non sono minimamente presi in considerazione tre autori che invece, in un certo senso, le avrebbero “fatto gioco”, intendo dire Leoš Janáček, Carl Nielsen e Charles Ives. Il primo ha spinto le sue tecniche compositive, esaltando la dimensione dissonantica sulla base dell’asperità della lingua ceca, che utilizzò per i suoi capolavori operistici, pur senza ricorrere a sperimentalismi di sorta, mentre il secondo, purtroppo ancora pochissimo conosciuto ed apprezzato nel nostro Paese, ha saputo evolvere la materia sinfonica senza mai abbandonare il linguaggio tonale, dando così vita a partiture di assoluto valore. Infine, il compositore americano ha sfruttato parzialmente la sua sperimentazione senza però installarsi stabilmente nell’alveo di coloro che tagliarono di netto il cordone ombelicale collegato al linguaggio tonale (personalmente, lo considero, alla faccia di coloro che definiscono Gershwin il migliore prodotto della musica statunitense “colta”, il più importante musicista americano di tutto il ventesimo secolo). Per quali motivi non li ha presi in considerazione per portare ulteriore acqua al suo mulino?
Janáček, sinceramente, l’ho sempre considerato un autore tardoromantico; certo, con un pensiero senza dubbio originale, melodie basate sulla ripetizione e variazione di brevi incisi, armonie nuove con cambi di tonalità improvvisa, un’orchestrazione dalle timbriche molto fulgide, insomma, una specie di Musorgskij dall’anima balcanica. Anche Nielsen non mi pare possibile annoverarlo tra i “contemporanei”: è un solido sinfonista post-brahmsiano, ma niente più che un fenomeno danese, anzi, prettamente copenaghense… Sul fatto che Ives sia da considerare il più grande compositore nordamericano ho qualche riserva. Le sinfonie e il primo quartetto, quando guardava a Grieg e a Elgar, sono decisamente belli. Altri pezzi orchestrali come The Fourth of July, o lavori come le sonate per pianoforte o per violino e pianoforte, personalmente, non mi hanno mai invogliato a un secondo ascolto.
Nel suo trittico saggistico ho notato che non affronta praticamente mai la questione dell’arte pittorica contemporanea, quella che si affaccia, si afferma e scorre parallelamente con quella musicale da lei aborrita. Mi riferisco, ovviamente, agli aspetti della pittura astratta che, in diverse circostanze (si pensi al famoso epistolario tra Arnold Schönberg e Vasilij Kandinskij, ai soggetti musicali interpretati pittoricamente da un Paul Klee e al rapporto tra suono e segno che Morton Feldman ha desunto dall’espressionismo astratto americano e dalle opere di Mark Rothko), si è confrontata con l’arte sonora. Quindi, la domanda è più che scontata: che cosa pensa dell’arte contemporanea, soprattutto quella astratta? Il suo giudizio nei suoi confronti è severo come quello da lei espresso nei confronti della Neue Musik?
Riconosco la mia assoluta imperizia nell’ambito delle arti figurative. Se però assumiamo come valida la definizione di Benedetto Croce, per il quale “l’arte, è intuizione lirica compiutamente espressa”, allora significa che l’arte dovrebbe suscitare delle emozioni in modo diretto, senza la necessità di strumenti interpretativi e, a rigore, prescindendo persino da una teoria estetica che si assuma un ruolo di intermediazione per renderla comprensibile. L’opera astratta invece, soprattutto quando consta di sgorbi indecifrabili, repellenti – in una parola: “brutti” – necessita sempre di acrobazie sintattiche che in qualche modo la redimano, nel tentativo, quasi sempre vano, di renderla meno ripugnante di quanto appare. La mia impressione è che, da parecchi decenni, si sia etichettata come “opera d’arte” qualsiasi forma di bizzarria, insulsaggine, oscenità, blasfemia, mancanza di gusto, il cui valore estetico è determinato esclusivamente dal prezzo che il mercante d’arte e la finanza speculativa di settore gli assegnano. Questa impostura su scala globale è naturalmente possibile solo grazie all’ausilio di critici e pennivendoli, ingaggiati per orientare – ma sarebbe meglio dire “manipolare” – il gusto estetico del pubblico e, in particolare, delle classi facoltose, le quali sono in genere tra i principali acquirenti di opere d’arte contemporanea.
Un’ultima domanda, Maestro Fontanesi. Mi ha colpito un passaggio presente nella parte finale del suo terzo saggio, Note sigillate, quando lei mette in evidenza il contributo saggistico di un personaggio come Giorgio Taboga, altamente inviso presso la comunità musicologica per via delle sue tesi secondo le quali la maggior parte delle opere attribuite storicamente a Haydn e a Mozart sarebbero state in realtà composte da un semisconosciuto musicista veneto, Andrea Luchesi; inoltre, affronta da un punto di vista “massonico-iniziatico” l’interpretazione della celebre frase che il conte di Waldstein dedicò a Beethoven alla vigilia della sua partenza per Vienna nel 1792, proseguendo con delle riflessioni sull’influenza che ebbero le sedute spiritiche organizzate da Robert Schumann nel 1853 sulla sua visione musicale e, per finire, trovandosi per così dire d’accordo con quanto il poeta e critico musicale Heinrich Heine afferma in un punto delle sue Florentinische Nächte, ossia di quando lo stesso poeta incontrò per la prima volta Niccolò Paganini, subito dopo aver ascoltato un suo concerto tenuto ad Amburgo nel 1830. Heine scrive che accanto al grande violinista genovese c’era una sorta di famulus, «una figura bassa, ben pasciuta, prosaicamente addobbata: roseo volto raggrinzito, giacchetta grigio chiaro dai bottoni metallici, che salutava a destra e a manca con un’irresistibile cortesia ma, nel contempo, pieno di un pudore preoccupato, occhieggiando verso l’alto, verso la fosca figura che, seria e pensierosa, gli camminava accanto». Ebbene, a detta di Heine, quella figura sinistra non era altri che satana in persona. Tutto ciò per evidenziare, nelle ultimissime righe del suo saggio, che gli storici della musica sbagliano nel rinunciare, in nome della scientificità documentale, all’apporto fornito dalle opere poetiche e iconografiche, le quali meriterebbero ben altro rispetto e affidamento. A questo punto, la domanda si tramuta in curiosità: alla luce di quanto da lei affermato, si trova sulle medesime posizioni di un Louis Pauwels e di un Jacques Bergier, quando nelle pagine del loro celebre e controverso saggio Le Matin des magiciens invocavano il ritorno e la riscoperta di un “realismo magico”?
Un’interpretazione della realtà in termini puramente razionali, così come una lettura della storia della musica filtrata esclusivamente attraverso basi documentali, lasciano sia innumerevoli domande inevase e senza risposta, sia una quantità non indifferente di faglie e increspature dalle quali, una volta sollevato il velo del preconcetto e del conformismo, è quasi impossibile non vedere rilucere riflessi ultrafanici.Il testo di Pauwels e Bergier ha avuto, secondo me, il merito di intessere inaspettatamente una fitta e intricata rete di collegamenti tra personaggi, testi e avvenimenti che la narrazione storica ufficiale tralasciava o, quantomeno, giudicava separati e slegati. Questo, si badi, non significa che si debba aderire in modo acritico a qualsiasi teoria o ipotesi, ma neppure escluderla a priori perché giudicata bizzarra, inaccettabile, inspiegabile, estranea al nostro abituale orizzonte di pensiero o, semplicemente, perché espressa da figure reputate non autorevoli in quanto non appartenenti all’establishment culturale. Ai fini di una ricerca del Vero libera da pregiudizi, credo sia sempre da ritenere valido, in questi contesti, il monito espresso nel Carmide da Platone, per il quale di ogni cosa non si deve tanto esaminare chi l’abbia detta, bensì se sia vero o no ciò che è stato detto.
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