Il doppio CD Uncle John’s Band, pubblicato dalla ECM Records, vede il chitarrista e compositore jazz americano, accompagnato dal contrabbassista Vicente Archer e dal batterista Bill Stewart, sul solco di un duplice progetto, con sette brani di propria creazione e altrettanti capolavori del passato rivisti attraverso la raffinata “lente d’ingrandimento” della sua chitarra elettrica

L’ultimo progetto discografico del chitarrista e compositore jazz statunitense John Scofield ha un piccolo inconveniente, almeno per quanto mi sento di affermare; non che si tratti di un difetto, di una manchevolezza, ma impone al fortunato ascoltatore l’obbligo di viaggiare (anche) nel tempo, in un tempo di passate ere musicali (anche se si tratta, in realtà, solo di pochi decenni, ma che la “liquidità” del nostro attuale sentire temporale, per dirla con il filosofo polacco Zygmunt Bauman, fa precipitare in una dimensione altamente sfuocata) per poter assaporare al meglio come la lente d’ingrandimento/chitarra elettrica del musicista americano vada ad ingrandire brani epocali del prima, assoggettandoli ad una pianificazione di resa musicale e di assorbimento d’ascolto del poi, ossia di adesso.

Il trio protagonista di questo doppio CD della ECM Records. Da sinistra, John Scofield, Bill Stewart e Vicente Archer.

Quindi, una parziale (ri)proposizione, in quanto questo doppio CD pubblicato dalla ECM Records e intitolato Uncle John’s Band, con la partecipazione del contrabbassista Vicente Archer e del batterista Bill Stewart, vede complessivamente quattordici pezzi, di cui sette, ossia la diplomatica metà, dello stesso Scofield, mentre i rimanenti sono brani di grande successo nei generi del jazz écrasé (ossia DOC) della premiata coppia Miles Davis & Bud Powell (Budo), della popular music on the road versione chitarra e fisarmonica a bocca, devo forse aggiungere che mi sto riferendo a Bob Dylan? (l’intramontabile Mr. Tambourine Man), di un altro “menestrello anglosassone in versione canadese”, ossia Neil Young (l’Old Man dalla leggendaria Harvest), di quello easy-listening in versione sopraelevata, vale a dire un classico come Stairway To The Stars di Matt Malneck e Frank Signorelli, per passare poi a un contributo dalla bibbia musical yankee per eccellenza, quindi il West Side Story di Lenny Bernstein (Somewhere), virando di nuovo verso il sacro Graal jazzistico del messaggero del bebop Raymond Brown, con una sana shakerata di Miles Davis (Ray’s Idea) e, per finire, ma sarebbe meglio affermare “per iniziare”, visto che dà il titolo al doppio disco, allo psichedelico Jerry Garcia, ve li ricordate, o miei viaggiatori del tempo, i Grateful Dead? (Uncle John’s Band).

Miles Davis, con l’inseparabile tromba, mentre parla con Bud Powell.

Cominciamo proprio dai brani rivisitati dal trio; per spiegare meglio il tipo di re-interpretazione fatto da Scofield & Co. vedrò di usare una similitudine: è come se il chitarrista statunitense avesse inforcato la bicicletta e avesse deciso di fare una bella pedalata in discesa, non solo per evitare di faticare, ma anche per godersi il panorama circostante. Che cosa intendo dire? Che il musicista non affronta questi celebri pezzi di petto, cercando di smontarli e di ricostruirli come si fa con i mattoncini Lego, ma mantenendo la caratura architettonica del loro erigersi musicalmente, semmai affiggendo un incipit del tutto autonomo e autoreferenziale (vedasi Mr. Tambourine Man e Old Man) ricamato con la sua chitarra elettrica dal sound così esemplarmente blues, oppure girando in tondo al motivo principale, sondandolo, palpandolo, stimolandolo come se fosse un oggetto erotico (ho avuto questa netta sensazione ascoltando Somewhere), cercando anche di non accarezzarlo contropelo, affinché la sua linea melodica non venisse frantumata e resa irriconoscibile, ma solo vista attraverso lo specchio di elaborazioni formali capaci di trasformarsi in ghirigori timbrici sempre essenziali e mai esondanti o destinati ad affermare egoismo volumetrico rispetto alla discrezione del contrabbasso e della batteria.

Il chitarrista Jerry Garcia, leader del gruppo psichedelico Grateful Dead, in una foto del 1968.

Semmai, una licenza rivoluzionaria, un suono in rivolta, parafrasando Camus, li si avverte in Ray’s Idea, in cui la tracimazione ritmica data soprattutto da Bill Stewart all’inizio, seguito a ruota da Vicente Archer, permette alla batteria e al contrabbasso di farsi largo a gomitate in nome di quel bebop così dichiaratamente “democratico” nelle sue manifestazioni timbriche e volumetriche, mentre con il brano che dà il titolo al doppio disco, con la scusa che ci troviamo di fronte a un manifesto dell’acustica, la chitarra di John Scofield si appropria del piatto e fa sua la partita a poker (va bene, diamo pure a Cesare quel che è di Cesare, visto che prima della coda il contrabbasso cerca di scatarrare con contegno e il gioco delle bacchette sui piatti e sul rullante cercano inutilmente di accusare Scofield di barare apertamente). Insomma, più che un tributo, da parte del trio, ci troviamo di fronte a un saggio tecnico di rivisitazione che ha il pregio di permettere un ascolto fatto da altre prospettive, da scorci a volte intriganti, a volte destinati a continui assaggi per poterne determinare il sapore.

L’altra salomonica metà dei brani, farina del sacco compositivo del chitarrista americano, mette in discussione tutto ciò che era stato enunciato in sede di “viaggio nel tempo musicale”, poiché qui non si tratta di pagare il biglietto del déjà vu, di gustare una serie di minestre supremamente riscaldate, ma di mettere sul tavolo un mazzo di carte i cui disegni e le cui figure devono essere colti al volo per poterci giocare fin dalla prima mano. Intendo dire che Scofield nella sua scrittura non si arroga una bieca ius primae noctis con la quale affermare io so’ io e voi nun siete un cazzo, ma dimostra di possedere un senso di equilibrata orizzontalità nel coinvolgere gli altri due strumenti, proponendo soventemente un patto ritmico in grado di acchiappare fin dal primo, rapido ascolto (The Girlfriend Chord e Mo Green, entrambi nel secondo CD, lo possono confermare), anche se poi il vizio assurdo non manca talvolta nell’affiorare, con la chitarra di Scofield che parte per la tangente e fa salire sulle sei carrozze delle altrettante corde quanti più ascoltatori possibili, i quali possono godersi un viaggetto mica da ridere, tenuto conto che si hanno a disposizione il finestrino del jazz, quello del rock e quello del soul, ognuno con i propri paesaggi, i propri panorami, i propri colori, ma allo stesso tempo capaci di generare fusion a profusione (concentratevi sulla seconda metà del già citato Mo Green).

Ora, se è vero che Scofield si mette la pelle del leone sulle spalle e fa la voce grossa rispetto alla sezione ritmica, questo non significa che Archer e Stewart facciano i cicisbei sonori della situazione, anzi! Se il batterista è la discrezione fatta suono, nel senso che se decidesse di scendere in sciopero, sarebbe un bel problema individuare lo stesso tipo di timbro raffinato, in cui il velluto s’incontra con la decisionale capacità di imprimere un colpo sempre collimante con la necessità del momento. E poi, il contrabbassista, la cui caratura di splendido “lavoratore autonomo” sa anche manifestare la capacità di uniformarsi al kibbutz sonoro imbastito da Scofield senza fare una piega (prendo a mo’ di esempio l’intrigante TV Band incisa nel primo CD, in cui Archer riesce a parare tutte le stoccate di bending di cui Scofield è maestro assoluto).

Tyler McDiarmid è riuscito a infondere un insospettabile calore con la sua presa del suono: la dinamica che ha saputo ottenere è una bella e saporita centrifuga composta di velocità e di energia (i riff e gli overdrive della chitarra di Scofield sono resi che è una bellezza… ). La ricostruzione del palcoscenico sonoro è prodiga nell’instillare quell’equilibrio non solo sonoro, ma anche fisico dato dal perfetto posizionamento dei tre artisti, con John Scofield posto al centro, con Archer e Stewart leggermente arretrati alla sinistra e alla destra. Appare scontato il fatto che a fronte dei serrati dibattiti portati avanti dalla chitarra elettrica, dal contrabbasso e dalla batteria, per capire fino in fondo che cosa si dicano, il parametro dell’equilibrio tonale è a dir poco vitale: anche qui McDiarmid ha fatto bingo con una sovrana pulizia dei registri che dialogano e si confrontano sempre scontornati e perfettamente distinguibili, così come il dettaglio che vede i tre strumenti catapultati in una notte talmente oscura, da quanto nero vi sia in essa, che il conte Dracula avrebbe difficoltà ad orientarsi.

Andrea Bedetti

  • John Scofield – Uncle John’s Band
  • John Scofield (chitarra elettrica) – Vicente Archer (contrabbasso) – Bill Stewart (batteria)
  • 2CD ECM Records 2796/97
    • Giudizio artistico 4,5/5
    • Giudizio tecnico 4,5/5

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