L’ultima creazione discografica del cantante britannico è stata analizzata da Davide Miele, il quale ha messo i puntini sulle i per ciò che riguarda i mugugni sollevati sulle scelte fatte sui mix e, con il cuore in mano, ha confessato che non tutti i brani sono di ottimo livello
Prima di addentrarmi nella disamina dell’ultima opera di Peter Gabriel, ritengo necessaria e utile una premessa. Purtroppo, internet, tra gli innumerevoli fantastici pregi, possiede un grande difetto: ha fornito un enorme megafono a schiere di parolai senz’arte né parte. Forse, lo sono anch’io, però, sono sufficientemente onesto da ammettere di esserlo e mi limito a parlare solo di ciò che conosco, più o meno approfonditamente. Quindi non discuto mai del valore musicale di un disco in senso squisitamente tecnico, perché non possiedo la conoscenza per poterlo fare. Quello che, invece, posso tentare di fare è parlare della produzione, delle atmosfere, direzioni e intenzioni del disco in esame.
Produzione
Ogni volta che esce l’opera di un gigante della musica vado a leggere cosa ne pensano i fan audiofili. È un giochino che faccio sempre per poi non stupirmi, quasi tutte le volte, di pensarla in maniera molto diversa, se non diametralmente opposta. Le critiche che ho letto più spesso riguardo a I/O concernono la famigerata “qualità sonora”. Però, un disco, nella stragrande maggioranza dei casi, suona esattamente come l’artista e/o il produttore hanno deciso che debba suonare. La pasta sonora è studiata meticolosamente, i colori sono scelti con cura e nulla è lasciato al caso. Questo perfino nei dischi che suonano “male”, come nel caso del metal estremo. Più volte ho letto che I/O non suona bene perché la gamma dinamica è scarsa; è un po’ come dire che una torta di mele non è buona perché sono state utilizzate le mele Granny Smith al posto delle Golden.
I/O ha una produzione semplicemente sontuosa. Straordinaria per una serie di motivi. Intanto il disco è stato pensato con tre mix differenti. Ohibò! Già solo per questa ragione l’obiezione su come suona va a farsi benedire. Tre missaggi diversi, opera di tre fonici diversi, tutti professionisti eccezionali. Tchad Blake si è occupato della versione del Dark-Side, Mark “Spike” Stent della Bright-Side e Hans-Martin Buff della versione Dolby Atmos, denominata In-Side. Non ho avuto modo di ascoltare l’ultima perché non posseggo un impianto atto allo scopo, quindi la tralascerò.
Per l’ascolto di I/O ho adottato due approcci diversi. Prima ho ascoltato le due versioni stereofoniche in successione, poi ho creato una playlist inserendo i brani in modo da ascoltare i due mix dello stesso brano consecutivamente, prima il Bright-Side e poi il Dark-Side. Va da sé che ascoltare un disco in due versioni differenti richiede un certo sforzo, reso maggiormente difficoltoso dal fatto che il disco è estremamente stratificato. In ambedue i mix la collocazione delle singole tracce è di precisione matematica; anche lo “strumento” più leggero è perfettamente percepibile, perfino nei momenti più densi. Si potrebbe scrivere un trattato di ingegneria del suono sul lavoro magistrale fatto da Blake e Stent. Da fonico (non più operativo) è per me una goduria immensa notare già solo come è stato usato il pan pot (ossia il comando che permette di collocare la traccia spazialmente tra i due canali sinistro-destro, per dirla in termini più comprensibili).
La scelta di rilasciare il disco in tre versioni differenti mi offre il destro per una considerazione per me importante. I due missaggi sono così differenti da rendere i brani completamente diversi. Il colore e l’atmosfera delle canzoni cambia completamente la loro percezione, e questa scatena sensazioni ed emozioni diverse. Tutto ciò “semplicemente” (di semplice non c’è proprio nulla, anzi…) manipolando in maniera diversa, e molto invasiva, le singole tracce. Il tutto si traduce nell’ascolto di due dischi diversi. Né più né meno.
Quale preferisco? Non posso dirlo con certezza assoluta. Certi brani li apprezzo di più dark, altri bright. Tendenzialmente mi piace di più la versione scura, ma ammetto candidamente di amare moltissimo la maestria di Tchad Blake (che, per inciso, è responsabile anche di Up, il precedente disco di canzoni inedite di Gabriel, il quale definì “magico” il lavoro di Blake). Però, e mi ripeto per l’ennesima volta, il lavoro è così eccezionale che esprimere una preferenza è oggettivamente molto complicato. Ora capirete perché quando leggo le rimostranze riguardo al suono di questo disco sorrido un po’. Nel momento in cui si ascolta un monumento sonoro (due monumenti, in realtà, e non immagino che cosa sia la versione in Dolby Atmos… ) di questa portata occorrerebbe sempre scegliere l’opzione più difficile: il silenzio. Bisognerebbe capire che di fronte al lavoro superlativo svolto da Blake e da Stent l’unica cosa da dire dovrebbe essere: “Grazie”.
Le canzoni
Quando mi accingo ad ascoltare un disco a me sconosciuto adotto un sistema che da molti anni mi aiuta a capire se quello che sto ascoltando desta il mio interesse o meno. Lo metto su (metaforicamente, poiché da molto tempo la maggioranza dei miei ascolti sono in streaming in alta risoluzione) e mi metto a fare altro. Di solito leggo. Ho provato anche a cucinare, ma è successo che ho fatto bruciare la pietanza con un disco che mi aveva esaltato (IRA di Iosonouncane – dedicategli tempo e concentrazione perché è un’opera meravigliosa) e allora ho abbandonato questa opzione. I/O non è sfuggito a questo approccio.
Quello che è successo mi ha sorpreso e purtroppo non positivamente. Lo dico immediatamente: se dicessi che è un brutto disco direi una gigantesca boiata. È un gran disco, ma ho la spiacevole sensazione che sia costituito da outtakes dei dischi precedenti. Non mi ha distratto dalla lettura come avrei sperato, con alcune eccezioni. Playing for Time, Four Kinds of Horses, So Much, Love Can Heal e And Still sono canzoni straordinarie, di quelle che uno vorrebbe aver scritto. Gli altri pezzi non mi hanno lasciato nulla, e due di questi, Panopticon e Road to Joy (che mi ricordano rispettivamente Digging in the Dirt e Kiss That Frog), vengono da me sistematicamente saltati perché proprio non li tollero. Per fortuna le canzoni vengono molto esaltate dalla fantastica produzione di cui ho parlato prima, per cui l’ascolto è piacevole, brani succitati a parte. Resta, però, quella sensazione di pietanza riscaldata che, invece, mi piace meno. Quando mi è capitato di esternare queste mie impressioni, ho riscontrato due tipi di reazioni: quella che può essere racchiusa nell’espressione «Avercene dischi così… » e quella, anagraficamente, più perfida «Ha 74 anni, cosa pretendi… ». È sicuramente un problema mio, visto che I/O ha avuto recensioni tra il molto positivo e l’entusiastico senza ritegno.
Qui sorgono, però, due questioni in risposta alle reazioni ricevute. La prima: di dischi bellissimi ne escono centinaia ogni anno. La musica gode di ottima salute e ogni giorno, letteralmente, vengono rilasciate opere che lo testimoniano, anche di artisti giovanissimi. Un esempio? Il disco d’esordio omonimo di Cosmic Room 99, trio di ragazzi trevigiani poco più che ventenni. Occorre scavare un po’ ed esercitare il dono della curiosità e le perle si trovano in mezzo alla spazzatura, che, detto fra noi, è sempre esistita. Quindi «Avercene dischi così… » non ha granché senso. La seconda: nessun artista è intoccabile e sacro e se ne si critica l’operato (con cognizione di causa e non per il puro gusto di farlo) non si dovrebbe incorrere nel reato di lesa maestà, che viene invece invocato a gran voce ogni volta dai fan sfegatati. Avere 74 anni non significa un bel nulla, specie se in 47 anni di carriera solista si sono prodotti “solo” quattordici dischi, di cui quattro colonne sonore, uno di cover e uno di arrangiamenti orchestrali di brani già pubblicati. Potrei capire uno scivolone in una produzione mostruosa come quella di Frank Zappa (che vanta trentanove dischi in studio e sessantatré live in trent’anni, e non ce n’è uno mediocre), ma con un così esiguo numero di pubblicazioni è difficile da accettare e digerire.
Peter Gabriel è da sempre uno dei miei artisti del cuore. Sono cresciuto coi suoi dischi e ritengo la sua opera importantissima e fondamentale. Ho sempre elogiato la sua costante ricerca di nuovi artisti da portare alla luce tramite la sua Real World Records. Grazie a lui ho conosciuto artisti eccezionali: Tenores di Bitti, Mari Boine, Nusrat Fateh Ali Khan e molti altri. L’ho visto dal vivo due volte ed entrambe le volte ho pianto di commozione. Per questo la parziale delusione brucia vieppiù, ma non cambia di una virgola la mia stima nei confronti del cantante britannico. Semplicemente aspetterò la prossima uscita, sperando che I/O non sia l’ultima.
Peter Gabriel – I/O – Real World Records 2023
Correlati
Iscriviti alla nostra newsletter per rimanere sempre aggiornato.