“a cura di Davide Miele”

Questa è la prima di una serie di dialoghi con musicisti che stimo molto. Non si tratterà di interviste vere e proprie, ma di scambi di opinioni e idee che scaturiranno spontaneamente mentre si chiacchiera.

Il multiforme Alberto N.A. Turra.

Alberto N.A. Turra è chitarrista, compositore, arrangiatore, produttore. Si muove con estrema disinvoltura fra territori solo apparentemente molto distanti tra loro: jazz, metal, rock, avanguardia, musica balcanica, blues e in tutti i crossover che ne derivano. Musicista indomito, instancabile ed eclettico, vanta collaborazioni illustri italiane e internazionali (Roy Paci, Pierpaolo Capovilla, Brian Marsella, Shanir Blumenkranz solo per citarne alcune). Si è diplomato alla Civica Scuola di Jazz di Milano e da sempre insegna musica e chitarra.

Alberto N.A. Turra è chitarrista, compositore, arrangiatore, produttore

Ci siamo incontrati un mercoledì pomeriggio nel suo studio e questo è più o meno quello che ci siamo detti.

D: Buongiorno Alberto. Come ti avevo già preannunciato, in realtà io di domande non ne ho, ne ho una giusto per partire, per poi continuare la nostra chiacchierata.

A: È importante che sia buona, così partiamo.

D: E’ una domanda che voglio rivolgere a un musicista da un po’. Cos’è è la musica? A parte il fatto che è il tuo lavoro, la tua passione, ma cos’è questo “oggetto” che chiamiamo musica?

A: Wow… domandona. Ho partecipato a un documentario leggendario, “The Origin of Music” di Daniel Arvizu e Sam Madrigal, due menti assolute. Daniel e Sam sono due persone eccellenti che si pongono domande eccellenti, domande complicate nella loro semplicità. Ponendosi questa domanda hanno sviluppato questo lavoro, “The Origin of Music” appunto, che tratta i tentativi di risposta dal punto di vista neurologico, scientifico, psicologico, culturale, linguistico. Soggettivamente, diciamo che la risposta non si è molto modificata negli anni. Fondamentalmente è qualcosa che colpisce fisicamente il corpo e che, a seconda di come siamo strutturati culturalmente, ci procura diverse emozioni, più o meno intense. Quindi naturalmente ognuno ti risponderà una cosa diversa. Per me la musica è un “urto” fisico che quotidianamente certo di produrre, un urto che, se organizzato in determinate strutture, mi colpisce anche dal punto di vista emotivo. Purtroppo si viene colpiti fisicamente anche dalla musica brutta, che provocherà un urto che chiameremo fastidio o disgusto. Quella che invece sarà più confacente ai nostri criteri di bellezza ci darà sensazioni più piacevoli. E’ la risposta più… democristiana (ride) che riesco a fornirti.

D: Non mi aspettavo un’altra risposta, nel senso che va bene tutto. Quindi, semplificando all’estremo, come mi disse anche Enrico Merlin, la musica è rumore organizzato in una qualche maniera. La domanda che a questo punto mi sorge un po’ spontanea è: ci sono infinite maniere di organizzare questo rumore. Quali di queste ti si confanno di più? Tu sei uno dei musicisti più eclettici che conosco, quindi mi viene da pensare che tu non abbia una “zona di comfort”, proprio perché spazi moltissimo.

A: In questi giorni ho suonato con dei ragazzi messicani e americani più o meno circoscrivibili e tangenziali al mondo di John Zorn. Questi ragazzi si sono effettivamente addestrati nel corso degli anni a questo eclettismo, ma ancora di più a tutta la questione dell’improvvisazione. Ho cominciato a improvvisare da ragazzino ascoltando i Living Colour, musicisti provenienti dal free radicale. Quindi se c’è una zona di comfort è quella lì. Il parametro che per primo c’è in queste situazioni non è più un parametro musicale ma di relazione, perché l’ascolto reciproco è alto. In virtù di questo per me non è mai stato difficile assumere diversi stili, e anche questa è diventata una zona di comfort. Altri musicisti, invece, hanno altri temperamenti e preferiscono solo alcuni linguaggi e a questi dedicano la loro intera vita. Questi musicisti posso capire che percepiscano la mia modalità come qualcosa di estremamente dispersivo, anticonfortevole. Io ho il massimo rispetto per chi, per esempio, sta sul repertorio di Bach tutta la vita, perché questa dedizione produce dei risultati artigianali superbi. Non so immaginare la difficoltà, lo sforzo, l’intensità che derivano da un viaggio del genere. Io non credo mi troverò ad affrontarla perché non è il mio temperamento. La mia attitudine mi ha porta a suonare qualunque cosa mi venga proposta, a patto che l’ascolto reciproco sia molto alto. Purtroppo spessissimo anche a teatro ci troviamo in ambienti in cui c’è un supernarciso che fonda una compagnia a propria misura e a propria immagine e tutti gli altri satellitano intorno a lui. Se il narciso in questione è Prince allora ci si adegua, perché ci si trova di fronte a un fenomeno rarissimo con i risultati magistrali che tutti conosciamo. Se però il narciso è solo un narciso senza alcun talento particolare, allora…

D: Quando ho ascoltato il disco di Three Low Bias e ho scoperto che era completamente improvvisato, sono rimasto scioccato. Non ho potuto fare ameno di domandarmi come aveste fatto perché per me è quasi inconcepibile apprendere che tre persone riescano a produrre qualcosa di così coerente e fluido non avendo composto una sola nota di quello che hanno suonato. Sono rimasto scioccato soprattutto perché, nonostante sia un disco improvvisato, mi è comunque arrivato. Che cosa è successo fra voi tre per portare quel risultato?

A: Quando suono con Giovanni [Calella] e con Diego [Galeri] cerco di dimenticarmi completamente di tutto il background jazzistico e black perché, come ti dicevo prima, nel momento in cui ci si ascolta ci si rende conto subito che è meglio che non parli il francese con due persone che il francese, semplicemente, non lo parlano; non si sono formati studiandolo, mentre invece sono molto bravi a parlare quell’altra lingua e quindi potendone parlare un po’ anch’io mi modifico; così dialogando è venuto fuori quel disco che è un po’ un miracolo. E’ uno dei miei dischi di improvvisazione che mi piace di più perché è collocato in un contesto, il rock, in cui normalmente non ci si aspetta un’improvvisazione. Il rock vuole canzoni.

D: Che poi non è soltanto l’improvvisazione in sé che colpisce, quanto il fatto che si tratta di un disco registrato dal vivo . C’è interplay ai massimi livelli perché stiamo parlando di persone che comunicano perfettamente senza usare parole.

A: Il fatto che sia effettivamente uscito in modo così coerente, così ben organizzato, così, in una parola, bello è abbastanza inquietante e per certi versi entusiasmante. Io me la vivo come una sorta d’immensa gratitudine rispetto a chissà quali entità, non saprei neanche come chiamarle.

D: Io lo chiamo semplicemente “Stato di Grazia”.

A: Cosa della quale i musicisti spessissimo non sono consapevoli. Il musicista non si rende conto di quello che sta succedendo mentre lo fa, nel senso che non si rende conto dello stato di grazia mentre suona. Invece quando riascolta può stupirsi di quanto fosse ispirato in quel momento. Spesso mi è capitato, d’altro canto, di sentirmi particolarmente ispirato mentre suonavo e invece, riascoltando la registrazione del concerto, mi sono reso conto di quanto fosse mediocre [ride]. Alcuni lo chiamano spirito santo; gli indiani lo chiamano shakti; tu lo chiami stato di grazia; io la chiamo ispirazione. E’ lo stesso stato in cui ti trovi nel momento in cui qualcuno di superiore decide che qualche contenuto debba essere veicolato da te mentre stai facendo qualcosa. Il mio stato d’animo rispetto a questo fenomeno è “Grazie mille chiunque tu sia perché decidi di far passare questa cosa attraverso me”. E io devo essere quotidianamente pronto fisicamente e atleticamente perché questa cosa possa accadere, quindi studio forse di più adesso rispetto a quando avevo vent’anni.

D: Questa era una cosa a cui volevo arrivare, grazie per averla tirata fuori, perché quando poi parli con persone che la musica la frequentano ma non è centrale nella loro vita, queste persone appunto non riescono a capire quanta fatica ci voglia ad arrivare a certi livelli. Non parlo di quei musicisti, grandissimi per carità, che però fondamentalmente riciclano loro stessi da 30 anni. Mi riferisco quel tipo di musicista, quale sei tu, che si mette in gioco tutti i giorni e studia quotidianamente per essere sempre pronto.

A: Esatto. Ci sono molti motivi per studiare. Per esempio, per mantenere un livello atletico e performativo che non vorresti perdere dopo averci lavorato così tanti anni.

D: Ormai sono quanti? 40?

A: Più o meno 40, sì. Io non posso scendere mai al di sotto delle 2-3 ore al giorno di studio, giusto per il mantenimento della tecnica. Poi c’è lo studio che incrementa le conoscenze, per aggiungere competenze, contenuti e nuovi spunti; quel tipo di studio a un certo punto sfocia nella creatività, nello sfornare idee per creare qualcosa che prima non c’era.

D: Alla fine è un po’ come un chirurgo, che non può smettere mai di addestrarsi. Solo che un musicista non salva vite.

A: Però un pochino, sulle dita, hai la responsabilità dello spirito delle persone.

D: Assolutamente. Per quanto mi riguarda, la musica mi ha salvato da tante pessime situazioni un sacco di volte nella mia vita. La musica è una componente fondamentale, anche se poi magari passano 20 giorni senza accendere lo stereo. Non ne ho bisogno, da quel punto di vista. Mi basta sapere che la musica esiste e cantarmi dentro una canzone o ricordare una melodia. Come scrisse Nietzsche: “Senza musica la vita senza sarebbe un errore”. Nel mio caso è esattamente così.

A: Nei momenti in cui tu studi per far sì che quella scarica di energia, di contenuti, di idee non ti consumi, essere impreparato a quella scarica significa suonare e avere la percezione di non riuscire a materializzare le idee che in quel momento ti stanno scorrendo dentro. Studiare per un musicista performativo e soprattutto tanto legato all’improvvisazione significa fondamentalmente questo: sentire che ho l’immediatezza di agire il gesto che deve produrre un determinato effetto e quindi la muscolatura delle dita sul tuo strumento, determinate articolazioni devono essere a posto. Ho la schiena a pezzi come tutti i musicisti che imbracciano uno strumento asimmetrico e quindi devo compensare continuamente questa cosa. La colonna vertebrale a un certo punto urla negli anni. Quindi sì, per riuscire a farlo fino a 70, 80 spero 110 anni [ride n.d.r.] devo compensare con delle altre attività. Da un certo punto in poi naturalmente tutto diventa studio, anche il parlare con mio figlio.

D: Mentre ti ascoltavo mi è venuta in mente questo: ti sei mai trovato fuori contesto? Cioè di sentirti il musicista sbagliato in quel momento e di dover dire alla persona che ti ha chiamato “guarda che non sono quello giusto, forse è meglio che…”

A: Certo che sì. Mi è successo un sacco di volte. Un sacco… Per me sono state fin troppe, quindi dico un sacco. In realtà non sono state così tante [ride n.d.r.].

D: Anche una sola è stata un sacco [ridono n.d.r.]

A: È stata troppa perché sono stato veramente male. Mi è successo, per esempio, in produzioni pop, intese proprio nella maniera classica e italiana in cui mi sono trovato coinvolto, ma sentivo che stavo sprecando il tempo mio e degli altri. Comunque sono momenti che insegnano molto. Sono molto chiarificatori. Sono situazioni in cui ti trovi a dover dire di sì perché hai bisogno di due soldi in più e allora accetti. Fai 5-10 date di un tour in cui non vedi l’ora di tornare in albergo e chiamare una persona cara perché non ti piace quello che succede.

D: Tu hai cominciato a suonare da giovanissimo. Quando hai capito che effettivamente riuscivi a campare di musica?

A: In effetti già da molto giovane insegnavo tanto professionalmente e già questo mi teneva in piedi come “professionista della musica”. Quegli anni sono stati il periodo in cui io mi sono sforzato moltissimo affinché questa cosa diventasse un mestiere. Come ben sai con Alessandro [Parietti n.d.r.] si andava a leggere i contatori la mattina e lì il tempo era diviso 30/70: 30% a leggere contatori e poi pomeriggio, sera, notte a insegnare e provare e suonare. Queste percentuali si sono completamente spostate a favore della musica passati i 30 anni. In tutto ciò c’era poi la gestione della questione familiare. I miei non concordavano con le mie intenzioni di essere un musicista e allora mi iscrivo all’università e alla Scuola Civica di Jazz. Mi rendo però conto, nonostante mi interessasse moltissimo, che l’università restava in secondo piano rispetto alla questione musicale e quindi faccio le mie scelte. Vado a vivere da solo perché i miei genitori decidono di non supportarmi. Avevo 21-22 anni. Diciamo che la devozione a lungo andare mi ha premiato. Ho iniziato a capire che essere musicista era in grado di sostenere la mia vita al 100% dopo i 30 anni.

D: Hai usato una parola che a me piace molto, ma è anche pericolosa da un altro punto di vista: devozione. Quanto la devozione è importante, cioè quanto devi essere devoto perché questa cosa funzioni?

A: Intanto bisogna capire cosa intendi per “funzioni”.

D: Nel senso che io da profano mi sono sempre immaginato un musicista come un matto che ha queste folgorazioni e deve assolutamente metterle giù perché altrimenti non dormirà la notte. Per me questa è la devozione. Quanto questa cosa è importante? Quante volte succede, se succede?

A: Questa cosa non la fai se non hai esperito lo “stato di grazia”, la shakti di cui si parlava poc’anzi. Poi devi sbatterti per trovare il modo di dare una forma a questa intuizione e quindi ti svegli nel cuore della notte o ti fermi in autostrada, in autogrill a prendere un appunto. A un certo punto ti fai venire il vezzo, perché ricordiamoci essere un vezzo, di volerlo far diventare il tuo mestiere. Per esempio Joyce che autopubblica “Ulisse” perché nessun editore è interessato e nel frattempo fa l’impiegato. Gli artisti veri, quelli che hanno questo fuoco interiore che ti dice “devi farlo” altrimenti semplicemente non funzioni come essere umano, si rendono devoti a questa cosa. C’è un sacco di gente che soffre per questa ragione. Questa devozione mi ha portato ad abbandonarmi a questa pressione interna e a starci bene

D: Perché se ci stai male allora c’è un problema.

A: C’è un sacco di gente che appunto con questa pressione non riesce a conviverci.

D: E’ una cosa che si può insegnare o è una cosa che ti arriva? A starci bene, intendo.

A: Ad averla non è neanche una cosa che decidi tu. È una cosa che osservo guardando anche le centinaia di allievi che ho visto in trenta e rotti anni. È una cosa che accade, è proprio una cosa che accade spessissimo senza che neanche il ragazzino o la persona in questione se ne renda bene conto o capisca che sta succedendo. Poi nel momento in cui lo capisce poi decide “sì mi piace così tanto che mi assumo anche la responsabilità di realizzare il vezzo che diventi il mio mestiere”. Che è proprio un altro film. Quanti musicisti abbiamo visto di grande talento suonare e poi mollare… La devozione è molto importante affinché la relazione tra te e l’ispirazione sia la più produttiva possibile, sempre tenendo ben presente che non arriva da te. Tu devi essere pronto intellettualmente e fisicamente ad accogliere un’idea, ma le idee arrivano da altrove.

D: Tu sei coinvolto in un miliardo di progetti, neanche tu mi hai saputo dire quanti l’ultima volta che ci siamo visti [ridono n.d.r.]. Ci sono dei progetti che non soltanto sono venuti bene come ti aspettavi, ma meglio? Quelli che ancora adesso ti stupiscono?

A: “Pietraia” di Kabikoff è un disco che ancora adesso mi stravolge. Abbiamo fatto un lavoro in quattro veramente straordinario e devo dire che, ancora oggi, quando l’ascolto, resto stupito. Oppure il primo disco di TAAN con Stefano [Grasso] e William [Nicastro]. Quel trio è stato un progetto che ho amato moltissimo e ancora oggi quando lo riascolto mi entusiasma.

D: Naturalmente da alcuni progetti immagino che tu abbia bisogno di una certa distanza temporale per capire.

A: Sì, decisamente sì. Per esempio il primo disco di Kabikoff, che hai registrato tu, è un disco che amo moltissimo e per cui provo un affetto infinito, ma nel quale ravvedo il tentativo di avvicinarsi a un’estetica che nel mio cuore non era ancora raggiunta. È una band che suona bene, con delle belle canzoni scritte bene, molto strambe anche, però è un disco, come altri, che è rimasto in quel luogo e in quel tempo. Se lo riascolto non mi non dice niente all’adesso, all’oggi, mentre altri tipo il Ramblin Trio non mi fanno questo effetto. È un altro progetto che amo moltissimo.

D: Nasce tuo figlio. Ovviamente la vita esplode. Tu quando guardi lui, lo pensi in musica? Se dovessi scrivere una canzone guardando tuo figlio, che cosa verrebbe fuori? E’ una curiosità mia.

A: C’è un pezzo, “Buphagos on Rhinos” nel disco del Ramblin Trio, che è sostanzialmente una ninna nanna. Il titolo richiama la relazione di mutuo assistenzialismo fra dei piccoli volatili e degli animali enormi, tipo appunto il rinoceronte: il grosso viene pulito dai piccoli che lo spulciano e i piccoli volatili si sfamano senza che nessuno li disturbi, protetti dalla mole dell’animale che stanno ripulendo. Il fatto che lui, bimbo così piccolo, si arrampicasse sulla mia schiena mi aveva fatto venire in mente questa immagine ed è, ad oggi, l’unica cosa che ho scritto pensando a lui. La nascita di Orlando è stata talmente deflagrante che non mi ha dato modo di organizzare nulla se non questa piccola canzone. Nessuno me l’ha mai chiesta fino ad ora questa cosa. Orlando che nasce, che è nella nostra vita adesso esce moltissimo nella passione, nella pressione operativa di fare quello che faccio, di poter continuare a fare quello che faccio nella misura in cui facendolo sono felice e lui gode di questa gioia. Questa è la prima cosa che mi viene in mente per rappresentarti in musica Orlando.

D: L’altro giorno mi sono lanciato nell’ascolto dei dischi di Tom Waits, non mi chiedere perché, non ne ho idea. Mettendo su “Mule Variations” è venuto fuori che per Waits Kathleen Brennan, sua moglie, è una presenza incendiaria presente in qualunque cosa lui faccia. Io ho conosciuto Sarah [Demagistri, a.k.a. Sarah Stride] che stimo moltissimo, come sai. Quanto è incendiaria Sarah per te?

A: Completamente. L’ho conosciuta che lei era messa peggio di me. Quegli anni lì sono stati allegri per entrambi [ride n.d.r.]. E’ completamente pervasiva, abbiamo un confronto che è serratissimo e spietatissimo.

D: Lei è molto critica su quello che fai?

A: Sì, assolutamente, tanto quanto generosa nel momento in cui la cosa che faccio è di qualità. È altresì importante sottolineare che fra lei e me non c’è alcuna rivalità professionale. Lei, a differenza mia, è una che scrive, è autrice. Spesso alcuni amici la prendono in giro chiamandola Dory, il pesciolino blu de “Alla ricerca di Nemo”, perché Sarah è esattamente quella persona lì. Lei non porta rancore, si dimentica di un sacco di cose ma non di quelle importanti, si sforza per tenere in vita nostro figlio e la nostra vita ed è eccezionale. È impossibile essere depressi con Sarah vicino perché è molto divertente, è sempre piena di gioia, è sempre piena di vitalità. Lei non ha un ruolo direttamente creativo nelle cose che faccio. Tanto che appunto i Turras sono l’unica cosa che possiamo fare insieme perché sono le canzoni che capita che suoniamo a casa per gioco.

Sarah Demagistri, a.k.a. Sarah Stride e Alberto N.A. Turra

D: Che tra l’altro non sono roba vostra ma roba di altri.

A: E’ l’unico contesto in cui riusciamo a lavorare insieme. “Ti piace questo pezzo?” “Sì bello dai proviamolo dieci minuti”. Lo proviamo e lo buttiamo in repertorio. Così facendo abbiamo un repertorio di 60 brani tutti nati in casa a cazzeggiare e così deve continuare [ride n.d.r.].

D: Tu nasci come bluesman, giusto?

A: Ero in una classe di metallari e io suonavo Steve Ray Vaughan. Ero guardato strano, perché, come sai, al liceo ci si divide in cricche e io non ero in nessuna, però comunque chiedevo agli amichetti chitarristi che suonavano metal “passatemi ‘sto Master of Puppets e fatemi capire che disco è” o i dischi dei Sepultura, i dischi degli Anthrax…

D: Poi arriva il jazz…

A: Abbastanza immediatamente. Io da subito ho capito la cosa delle pentatoniche e improvvisavo come un pazzo. Mi sono divertito un sacco. La matrice blues è per me la stessa del jazz. E’ lo stesso luogo, è lo stesso mondo. Mi sono appassionato in terza media alla questione della schiavitù, alla questione razziale. Nel momento in cui guardavo un film tipo “Il colore viola” e piangevo come una bestia… Guardavo questi film e ne rimasi così sconvolto da fare la tesina su Martin Luther King e Malcolm X, su tutti i movimenti di emancipazione dei neri negli Stati Uniti. Sentivo che tutto ciò aveva una corrispondenza diretta sul fatto che io suonassi immediatamente quella musica.

D: Ecco, io questa cosa per esempio non la sapevo. Adesso mi spiego tante cose.

A: Soprattutto sono riuscito a camuffarla da subito perché quando ho scoperto i Living Colour…

D: Che da un certo punto di vista sono blues…

A: Dal punto di vista delle influenze dei linguaggi la radice è blues e jazz. Vernon [Reid n.d.r.] è un musicista di free jazz. I Living Colour mi hanno salvato, nel senso che quando poi li facevo ascoltare ai miei amici dicevo “sentite quanto metal c’è qui dentro” e loro, di rimando, dicevano “sono bravi questi qua”. Quindi tramite i Living Colour sono riuscito a traghettarmi nello studio del jazz, anche quello più tradizionale. L’insegnante da cui andavo intorno ai 15-16 anni dopo un paio d’anni mi disse che mi aveva trasmesso quello che poteva e che era ora che andassi a studiare alla Scuola Civica, perché io comunque già affrontavo quelle cose da solo da qualche anno. La questione dell’improvvisazione mi è piaciuta da subito e mi è piaciuta da subito nel blues, nel blues di “Slowhand” di Clapton, della colonna sonora del Blues Brothers. Stiamo parlando di me dodicenne che prende in mano ‘sta roba, che si stupisce e si esalta senza però avere dei riferimenti precisi. Il live di De André col la PFM ha la stessa potenza della colonna sonora dei Blues Brothers o di Led Zeppelin 1, ma non sapevo il perché. L’unica cosa che sapevo era che era intensa e che mi interessava di più delle altre cose che giravano all’epoca, tipo Spandau Ballet o Duran Duran.

D: Anch’io ero una specie di outsider, perché tutti ascoltavano quei gruppi e io invece ero lì che cercavo di capire perché “Steeltown” dei Big Country mi avesse dato una coltellata nel costato; l’ho capito solo molti anni dopo. Sempre a proposito di improvvisazione, c’è un libriccino, nel senso che è proprio piccolino per dimensioni e numero di pagine, ma grande nei contenuti. “Jazz – Una storia sentimentale” di Igor Ebuli Poletti, un personaggio straordinario. In questo libro, tra le tante cose notevoli, ne ha scritta una che secondo me è profondissima. A un profano, che non frequenta questi territori, l’improvvisazione pare un’accozzaglia di note messe a caso. Ecco, lui ha scritto: per poter improvvisare devi conoscere perfettamente i paradigmi e superarli. Cioè, se non conosci il paradigma che c’è dietro non potrai mai improvvisare.

A: Correttissimo.

D: Infatti finalmente qualcuno me l’ha spiegato in due righe [ridono n.d.r.]. Ecco allora che quando ho visto dal vivo il Ramblin Trio [Turra, Daniele Cavallanti e Marco Cavani n.d.r.] ho percepito in pieno la capacità di tre persone che solo apparentemente stavano suonando tre cose che non c’entravano nulla l’una con l’altra, ma che in realtà erano profondamente collegate. Ecco di nuovo l’ascolto, l’interplay. Come nasce? Nel senso, lo puoi capire semplicemente parlando con un altro musicista? Perdonami la banalità della domanda..

A: Parlandoci puoi capire se avete frequentato gli stessi territori culturali: libri, film, dischi; però solo quando ci suoni insieme puoi capire veramente se c’è comunicazione ad alto livello, perché quando suoni non puoi mentire, non c’è finzione, non puoi tradire. Poi, vabbè, ci sono persone più o meno empatiche, musicalmente. Ci sono musicisti che riescono a valorizzare enormemente altri musicisti che hanno un grado di ascolto inferiore, cioè hanno collegamenti a un livello tale che permettono l’esplosione di coloro che queste connessioni ancora non le hanno sviluppate.

D: Questo è molto interessante.

A: Spesso può anche essere che il livello empatico reciproco sia altissimo in tre persone e si crei una musica che fa stare benissimo quelle tre persone perché tutte si sentono meravigliosamente, ma al pubblico quello che stanno suonando non arriva. Questo accade perché magari gli stimoli reciproci avvengono a una velocità tale che i musicisti li acchiappano subito, ma il prodotto che ne scaturisce è difficile se non impossibile da decodificare. L’interplay non è nient’altro che una stimolazione reciproca che esiste soltanto nella musica, mentre nel dialogo verbale non è possibile, perché se tu parli sopra di me non si capisce nulla, mentre in musica ci si suona letteralmente addosso. Il linguaggio parlato è un linguaggio da questo punto di vista molto più basso.

D: Adesso a cosa stai lavorando?

A: Adesso con TAAN stiamo preparando il prossimo disco che è un follia. Ho musicato i 22 Arcani Maggiori disegnati da Sergio Toppi, chiamati Tarocchi delle Origini. E’ una roba lunghissima e complessissima che ovviamente mi sono messo in testa di voler imparare a memoria.

D: I tarocchi nella tua vita ci sono da parecchio tempo.

A: Da quando avevo 24 anni.

D: Cosa c’è nei Tarocchi che ti prende così tanto?

A: Hanno lo stesso principio dell’improvvisazione. I Tarocchi e anche I Ching. Li chiamano oracoli, sistemi oracolari. Poi, per fortuna, è arrivato Jung a spiegarci che di oracolare non c’è assolutamente nulla, mentre invece c’è attribuzione di simboli al momento presente, e quindi modificazioni dei nostri stati d’animo. Questo è appunto il principio sotteso all’improvvisazione: occuparsi del momento presente.

D: Qui e ora.

A: Che è il motivo per cui pratico la meditazione, lo zen, da sempre, e che continua a salvarmi la vita. Il primo mazzo, bellissimo, di Tarocchi mi è stato regalato da colui che era allora il mio maestro di meditazione, Giò Fronti; li ho studiati, li ho praticati, li pratico ancora oggi. Improvvisazione e Tarocchi parlano del momento presente, di nient’altro che del momento presente.

D: Adesso due domande che devo farti perché sei un musicista e quindi… Intelligenza artificiale. 250 musicisti hanno firmato questa “dichiarazione di contrarietà” all’intelligenza artificiale. Cosa ne pensi? E’ uno strumento? E’ un impedimento?

A: Possiamo essere grati al fatto che esista e che dà risposte a tutti noi [ridono n.d.r.]. Finché avrò la possibilità di suonare la mia chitarra fisicamente e avrò 30 persone davanti che mi ascoltano… Cosa riproduce l’intelligenza artificiale? Questa dinamica la riproduce? No. Questa dinamica non è riproducibile.

D: Poi tu improvvisi per la maggior parte delle volte.

A: Tra l’altro. Per me ci sarà un ritorno all’artigianalità, un ritorno al momento presente, un ritorno agli agglomerati fisici di persone, che poi sono i concerti. I concerti che cosa sono? Riti collettivi che l’AI semplicemente non è in grado di riprodurre.

D: Quindi “musicisti improvvisate così almeno fregate l’AI”. [ridono]

A: Ma ce la siamo menata così tanto a usare un frullatore?

D: Un forno a microonde [ridono]

A: E’ una cosa che francamente…

D: Ti preoccupa poco.

A: Mi preoccupa di più la paranoia in cui certi artisti vanno, e normalmente quando qualcuno va in paranoia è perché c’è un po’ di sporco. Avere paura del fatto che l’intelligenza artificiale riduca il mio patrimonio attraverso plagi di qualche genere mi sembra veramente un dispendio di energie vacuo e inutile. E’ qualcosa che non potrà mai interessarmi.

D: E’ interessante questa risposta perché ho fatto più o meno lo stesso ragionamento. Scusa, ma che paura hai? Hai paura che ti freghino le idee? L’AI non ha idee, le idee le dai tu direttamente quando fornisci le istruzioni. E poi c’è più di un musicista come te che passa il 97% della sua professionalità a improvvisare.

A: Nel mio caso, poi, tutto si svolge live. I dischi dal vivo che faccio sono la testimonianza di quel giorno, una sorta di catalogo, di archivio. C’è Ramblin Trio, Three Low Bias, tutte le cose che faccio ultimamente sono registrate live e sono registrate in quel giorno lì, in quel momento lì, con quelle persone lì, con quel pubblico lì.

D: Fatto due ore dopo è già diverso.

A: Certo. Sono ovviamente dei reperti, sono già archeologici dopo un’ora. Non suonerò più così. Questo è super interessante ed è un anticorpo eccezionale rispetto alla paranoia sull’intelligenza artificiale.

D: Ok, l’altra domanda riguarda le piattaforme di streaming. Anche qui dibattito feroce e io penso a quello che dovevano fare i musicisti una volta. Il musicista, o meglio l’aspirante musicista, doveva raccogliere dei soldi con il suo gruppo di amici, noleggiare uno studio con il fonico, fare la demo, mandare questa demo praticamente ovunque nella speranza che qualcuno fosse tanto interessato da pubblicargli un disco, che al musicista non portava neanche un soldo. Nella maggior parte dei casi i musicisti non pigliavano neanche un soldo a meno che non vendessero 20.000 copie (i famigerati contratti capestro), cosa che per un gruppo esordiente era un traguardo praticamente irraggiungibile. I musicisti dovevano campare fondamentalmente di live. E anche in quel caso la casa discografica pagava le spese, ma i musicisti non pigliavano quasi nulla dai biglietti. Mi viene un po’ da pensare che questi musicisti preoccupati dallo streaming non sappiano come funzionava prima e pensano a trent’anni fa come “una volta i musicisti campavano bene”. Quindi, queste piattaforme di streaming sono per te un vantaggio o un disastro totale?

A: C’è anche Bandcamp.

D: È un po’ diverso, perché più che essere un servizio di streaming, è un servizio di autopromozione, chiamiamola così.

A: Certo, torniamo alla logica che descrivevi tu prima: il ragazzo che forma una band, fa la demo e poi si sbatte ecc. ecc. con in più la possibilità di poter accedere ad una visibilità, a una diffusione che prima ci sognavamo. Nessuno vieta ai musicisti, una volta che hanno concesso alle varie piattaforme di streaming di inserire il loro catalogo di fare lo stesso anche su Bandcamp; con il plus che il ricarico di Bandcamp è minimo e tu artista sei il principale responsabile del tuo prodotto. E’ un tema di coscienza collettiva, è un tema di sensibilizzazione delle persone. E tu, se fai l’artista, questo tema te lo devi caricare sulle spalle. Se non lo fai sei uno che ha voglia di essere assistito come qualunque impiegato delle poste. Perché fai l’artista se non hai voglia di sbatterti per il tuo pubblico? Come quelli che si lamentano perché il gestore del locale dice “mi porti pubblico?”.

D: E dice “è il tuo lavoro portare il pubblico non il mio”, del localaro.

A: Esatto. Io sono convinto che con questa scusa ci siamo fottuti la responsabilizzazione dell’artista. Il mio lavoro da musicista è anche fare in modo che le persone che mi seguono sappiano che io suono in un determinato luogo e in un determinato giorno; quindi il diretto responsabile del mio pubblico sono io artista. E’ chiaro che se suono una data a Lione il localaro non mi farà mai la domanda “quanta gente mi porti?”, perché sono di Milano ed è già un miracolo che suoni a Lione. Però se mi chiama l’Agorà di Cusano Milanino è normale che mi faccia quella domanda ed è normale che io gli risponda “secondo me 40 persone te le porto”. Se hai suonato per 30 anni in una città e non sei riuscito a creare un’affiliazione di almeno 40 persone allora non hai fatto bene il tuo lavoro. Senza giudicare nessuno perché ci sono mille modi per farlo, di intendere ogni sfumatura di questo mestiere, ma la questione del promuoversi, del cercare date e del far sì che la gente ti venga ad ascoltare deve essere centrale per ogni artista. Ognuno di questi argomenti potrebbe occupare un’ora.

D: Tempo che non abbiamo. E direi che un’ora e mezza di chiacchierata è più che abbondante. Grazie e a presto.

A: A te.

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Davide Miele

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