Il quadrangolare incontro del BSDE 4TET al Parma Jazz Frontiere, contiene la vera essenza di un concerto jazz con il sorgivo gusto della jam session, fra emozioni e godimento allo stato puro, fra contrasti amebei, ossia botta e risposta e fughe improvvisative in un perfetto scambio dialogico.

L’album «Live At Parma Jazz Frontiere» del BSDE 4TET, pubblicato dalla GleAM Records ci spinge a fare un volo pindarico. Quando viene pubblicata un set dal vivo, essendo il jazz prevalentemente strumentale, l’uso della parola «concerto» potrebbe risulta abbastanza incongruo. In genere l’espressione concerto sembrerebbe più confacente alla musica eurodotta o, nella vulgata, alla tipica esibizione di un gruppo rock. Questo termine, di cui si ha documentazione nella nostra lingua dal 1519, ha un duplice significato: il primo, più comune, è da intendersi come un incontro dove agiscono più esecutori solisti, voci e strumenti. Il secondo indica un tipo di architettura, il cui il residuo analitico è un contrasto amebeo di sonorità che finisce per diventare, a poco a poco, anche contrasto d’espressione. Per essere più chiari, il «contrasto amebeo» si riferisce ad una sorta di botta e risposta o di call-and-response. Non vi è ombra di dubbio che in quell’epoca, pur essendone ignari, avessero già predetto che cosa sarebbe stato il jazz. L’uso del termine concerto nasceva da una situazione in cui solo alcune parti erano «concertate», mentre altre venivano lasciate all’improvvisazione dei solisti (siamo nel 1600). Questa è forse l’accezione che meglio rappresenta l’architettura del concerto. Secondo alcuni studiosi, «cum-certare» significa gareggiare in un insieme di voci o di strumenti, dove esiste l’interpretazione unilaterale che, a mano a mano, si dispone in un insieme collegiale e dialogico. Così pensando si arriva perfino a profetizzare l’idea di una jam session. Il Bottrigari nel 1574 parlava di «continovo conversare cantando e sonando insieme de’ cantori e suonatori come di cosa praticata ventine di anni prima».

Il quadrangolare incontro del BSDE al Parma Jazz Frontiere, contiene la vera essenza del concerto jazz, con il sorgivo gusto della jam session, fra emozioni e godimento allo stato puro, fra contrasti amebei, ossia botta e risposta e fughe improvvisative in un perfetto scambio dialogico tra Daniele Nasi, sax tenore e soprano, Jung Taek «JT» Hwang al pianoforte, Giacomo Marzi al contrabbasso e Mattia Galeotti alla batteria. Il disco, per quanto sottoposto ad remastering di tipo audiofilo, contiene la naturale «effettistica» ambientale di un live set, soprattutto si percepisce il mood compiacente e divertito dei quattro musicisti innescati e galvanizzati dalla presenza del pubblico. L’album poggia su sei lunghi brani originali, tutti a firma Daniele Nasi, il quale denota un’ottima tempra compositiva, che al netto delle strutture armonica, è basata su analisi della realtà circostante che fornisce spunti e stimoli sociali ed ambientali con riferimento alle grandi questioni di attualità. Quattro tracce provengono dal loro primo album di studio, «Elevating Jazz Music, Vol.1» e sono state riproposte per l’occasione attraverso versioni più dilatate e con alcune variabili improvvisative, soprattutto il drumming di Mattia Galeotti per quanto affine, denota alcune diversità rispetto a quello di Andrea Bruzzone presente nell’album suddetto. «Drowning In Guilt» è legato ad un tagico episodio di migrazione nel Mediterraneo. Il tema è annunciato dal dal sax tenore, seguito dal piano che lancia raffiche di note arcuate che ondeggiano, quasi a descrivere una tempesta in atto, inseguito da basso e batteria che non lasciano aria ferma. Il ritorno incalzante del sax sembra un vento che trascina a sé uomini e cose. Il costrutto ritmico-armonico basato su un potente post-bop «overclockato», si ammanta progressivamente di tristezza, sviluppando suoni cupi e gravidi di presagi, come se la tragedia fosse imminente, mentre il sax del band-leader emette latrati strazianti e dissonanti, a metà strada tra Albert Ayler e Pharoah Sanders. Il titolo tradotto in italiano diventa emblematico: «affogare nei sensi di colpa». «Waltz For Palestine», quanto mai attuale, è dedicata al popolo palestinese ed implementata nel minutaggio, tanto da diventare un interminabile excursus sonoro di oltre quattordici minuti che guarda verso Oriente, imperniato su un jazz-waltz variato dalla sezione ritmica e magnificato dal sax che assume i tratti somatici di una danzatrice del ventre attraverso un suono serpentino e berbero. «Callin’», dall’abbrivio decisamente free form è una lunga Odissea spazio-temporale ispirata alla musica di Colin Stetson e ad un frammento letterario: «Così imperioso era il richiamo di quelle ombre, che di giorno in giorno il genere umano e le sue pretese s’allontanavano da lui. Nel profondo della foresta risuonava un invito (Callin’)». Una composizione segnata da un pianismo imperioso, dagli umori mutevoli e da tematiche cangianti; oltre undici minuti di «discese ardite e risalite», tra fughe in solitaria e «wagnerismi», dove a turno ognuno dei sodali esprime la propria cifra stilistica, senza mai tradire la collegialità del set.

Associato nelle note informative ad una frase di Charles Mingus: «Rendere complicato ciò che è semplice è cosa banale; trasformare ciò che è complicato in qualcosa di semplice, incredibilmente semplice: questa è creatività», «7 Is The New 5» è una saltellante danza dal sapore balcanico, ricca di cambi e ricambi di passo, dove il sax tenore ruggisce come un leone sostenuto da una retroguardia ritmica in vena di follie. La complessità ritmica della struttura consente a Nasi di ricamare una piacevole melodica dalle nuances esotiche in un crescendo inarrestabile. Nel live sono presenti due nuove composizioni in linea con la costante ricerca sonora del sassofonista emiliano: «Oddy Enough», una ballata progressiva e multitematica, in cui le armonie sembrano sgretolarsi per poi ricomporsi rapidamente, e «Nord Screen 2, South Screems Too» che, ispirato alle tragiche vicende dell’Ucraina, s’inabissa negli anfratti di una distesa sonora non perimetrabile nella struttura armonica e basata su un «canto libero», a tratti rabbioso, fatto di precipizi accidentati, ma soprattutto di repentini cambi di passo e di posizione che sottolineano l’aderenza di Daniele Nasi alle contemporanee espressioni del free jazz. «Live At Parma Jazz Frontiere» del BSDE 4TET è un disco che cammina almeno una spenna al di sopra della media del periodo, se non altro perché rifiuta a priori i dettami e le convenzioni armoniche di un jazz sovente parcellizzato e schematico.

BSDE 4TEt

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