Il jazz di Art Pepper non costituisce un modello ad usum delphini da poterne fare un vademecum consultabile scolasticamente alla bisogna. Il contraltista di Gardena non è stato un paradigma e neppure l’epitome di uno stile univoco: è difficile suonare Pepper senza Art, ma non impossibile. Per contro, si rischia di precipitare nel baratro del ricalco manieristico ed imitativo. Il sassofonista Gaspare Pasini con «Pepper Legacy», pubblicato dalla Red Records, usa il pensiero laterale, entra ed esce dal perimetro pepperiano, senza rimare intrappolato nel desideri di riprodurne in vitro un perfetto clone. Art Pepper era una matrioska concentrica di emozioni urticanti che rimodellavamo molti stilemi del jazz moderno ed afrocentrico adattandoli ad una personalità priva di precisi punti ancoraggio. Non si dimentichi che stiamo parlando del più grande contraltista bianco del dopo guerra, imbevuto del più elevato gradiente di blackness.

Art Pepper è stato il poeta maudit del sax contralto: un’esistenza sfregiata dagli eccessi, che si riflette nel pathos della sua musica e nell’eterno conflitto tra l’essere ed il malessere, che appare come l’unico atto definitivo di una vita incompiuta; Pepper non suona ma distilla sangue jazz, divenendo un donatore universale, dove la rabbia e la frustrazione diventano leggerezza, mentre le vibrazioni si infittiscono in un caleidoscopio cromatico di colori alterati da un’intensa luce che proviene dall’anima. Tra chiaroscuri, ombre, penombre, amori, tensioni, detenzioni, pene, passioni e pressioni, Pepper s’invola, s’inabissa, corre con il fiato sospeso aumentando la velocità del tempo e del battito del cuore del jazz e degli uomini. Poi si acquieta tentando di sfuggire ai demoni del parkerismo, li esorcizza, li domina, li scaccia e riemerge come da un lavacro sonoro purificante. Molti hanno distillato un loro epico cantico per descrivere la chanson de geste di Art Pepper, in cui la narrazione dell’uomo ha sovente surclassato quella dell’artista, impedendone di cogliere il «topos», il nucleo cellulare ed il tema peculiare della sua musica. Gaspare Pasini non fa un rilettura delle carte processuali o un riedizione parcellizzata del mood pepperiano tout court, ma lo interpreta secondo una sua percezione. Solo apparentemente Pasini indossa l’armatura di Pepper. In realtà il sassofonista italiano combatte sotto le proprie insegne celebrando il «vecchio condottiero», forte delle sostegno di due capitani di ventura, George Cables al piano e Carl Burnett alla batteria, i quali con Pepper avevano tracciato sentieri ed innalzato fortezze, nonché con la complicità di un bassista di rango come Essiet Okon. Gaspare Pasini è il motore mobile di questo incontro al vertice fra i quattro musicisti, che ha ottenuto perfino l’approvazione della vedova di Pepper, Laurie Miller, la quale ha fornito anche tre inediti oltre a quello firmato da Phil Woods. Le sessioni dell’album sono state registrate a Pordenone nel 2013.

Il disco, uscito su un doppio CD, contiene nove tracce, di cui cinque superano abbondantemente i dieci minuti. L’opener è affidato a «Ophelia» a firma Pepper, che lo stesso Pasini descrive come «un medium swing classicamente AABA in cromatismo discendente e con un bridge armonicamente stupendo». Questa composizione coincide con l’album «Living Legend» e con il ritorno all’aria aperta del contraltista, dopo il periodo detenzione e riabilitazione, e che racchiude tutti gli elementi di una libertà ritrovata, ma sofferta e conquistata, soprattutto a livello di sintassi sonora. Pepper non è più il ragazzo di bell’aspetto che descrive con boria ed arroganza le sue scorribande sulla West Coast, ma è un uomo maturo, consapevole e disilluso, il quale ha appreso a memoria la lezione di Coltrane e tenta la via del riscatto con un sound sempre più vicino agli assunti basilari del vernacolo afro-americano. Pasini e di suoi sodali hanno più di quattordici minuti per raggiungere un elevato score interpretativo e non cadere mai nel campo minato dell’emulazione. «One For The Bartender», per le intrinseche caratteristiche morfologiche è riferibile all’ultimo Pepper. È un inedito ritrovato nel faldone dei suoi manoscritti, trascritto da mano ignota per sax tenore con la dicitura composed by Art Pepper. «AWFN», che sta per All Written Friday Night, è un altro inedito scovato dalla signora Pepper, mai eseguito o pubblicato da Art. Arricchito di qualche nuovo spunto, il brano conserva una gioiosa aura californiana con una melodia a facile combustione ed è avulso da qualunque complicazione armonica. «Blues 33», è la terza chicca inedita introdotta dal basso e proiettata verso una progressione dal sapore quasi coltraniano, con un incedere ritmico-armonico intenso e ripetitivo ed un finale riservato al kit percussivo di Burnett. «Our Song» ha le sembianze di una ballata crepuscolare eseguita in duo, piano e sax, dal cui minimalismo simbiotico scaturisce un profondo lirismo, che non scade mai nel languidume ruffiano.

Il secondo disco si apre con «King Arthur» il tributo personale di Pasini versato nelle casse dell’altoista californiano. La compliance di questa composizione con lo stile di Pepper è notevole e, per paradosso, se Art avesse potuto sentirla, l’avrebbe fatta certamente sua, perfino la sezione ritmica si adatta al quel tipico mood come una pellicola trasparente. Caratterizzato da ripetuti cambi di passo e qualche linea di febbre esotica, il componimento di Pasini elegge il proprio domicilio fiscale all’indirizzo di un’improvvisazione allo stato dell’arte. «Au Revoir Mr Poivre», in italiano «Addio Mr Pepper», componimento mid-range non convenzionale dalla ricca struttura armonica, con un crescendo pianistico da manuale ed un sax che distilla pathos a larghe falde, fu scritto da Phil Woods per l’amico Art, con il quale avrebbe dovuto andare in studio a qualche mese dalla sua scomparsa, quindi donata da Woods a Pasini con questa motivazione: «Fai bene a fare il tributo ad Art ! Ti affido questo brano che ho scritto per lui e che non ho mai registrato: è tuo, fallo tu. Io ho grande difficoltà a parlare di questa composizione ed ascoltarla mi spacca il cuore: troppo amore, troppa bellezza, troppa sapienza, troppo… (Philing)». «Patricia» è una tenera ballata dall’afflato paterno e composta con gli occhi di un bambino, che Pepper scrisse per figlia. Contenuta nell’album «Today» e più volte eseguita durante i concerti, Pasini e soci la srotolano adattandosi alla partitura, soprattutto si contengono usando una trama di colori tenui, pur dando l’idea di voler andare oltre la struttura elementare del brano, basata su due semplici accordi, dove semplicità non è mai sinonimo di banalità. In chiusura, «Mambo Koyama» una composizione di Art dedicata al suo produttore giapponese Kiyoshi Koyama che, per quanto festaiola, è una sapiente struttura modale, la quale diventa una rampa di lancio per gli assoli, le improvvisazioni e l’incandescente tripudio di Burnett nel finale.

«Pepper Legacy» di Gaspare Pasini è un omaggio sentito e non banale ad una delle personalità più complesse del jazz moderno che trova il non scontato plauso della sua vedova, la quale scrive nella note di copertina: «Art Pepper credeva che il jazz fosse passione. La tecnica e la capacità di improvvisare sono importanti, così come l’arguzia, lo swing e bellezza. Ma è nell’espressione appassionata delle emozioni di gioia, dolore, rabbia, frustrazione, beatitudine e desiderio, e desiderio che la sua musica trovava la sua eco nei cuore degli ascoltatori. La creazione di Gaspare, «Art Pepper Legacy», è figlia della sua passione per la musica che egli sente così profondamente da aver investito tutto se stesso nel portare avanti l’eredità emotiva di Art Pepper. Il sentimento e la bellezza sono lì e lui vi apporta la cosa più importante di tutte: il suo amore».

Gaspare Pasini Pepper Legacy

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