Horace Silver, figlio di un capoverdiano e di una irlandese, si è sempre caratterizzato come un compositore poliglotta affascinato da una mescolanza di linguaggi, apportando sistematicamente elementi di esoticità a vari livelli nell’ambito del jazz. Horace Ward Martin Tavares Silva, questo il suo vero nome, è stato una delle figure più rappresentative dell’hard bop, prima con i Messengers di Art Blakey, con cui inizialmente divideva la leadership, quindi protagonista di un nutrito catalogo discografico come band-leader.

Pur nella sua enorme popolarità, Horace Silver, per molti resta un enigma avvolto in un mistero: genio o stregone? Sicuramente, un posto al caldo nella storia del jazz se lo è guadagnato: il suo ticket con la Blue Note per lunghi anni fu determinante per numerosi lavori, anche per conto terzi, che uscivano da quella fucina di talenti. Molti dischi da lui realizzati in casa Alfred Lion appaiono talvolta immolati allo stesso dio, schematici, magari fatti con lo stesso stampo, in maniera impeccabile ma un po’ studiati a tavolino, quasi con scadenza fiscale; di certo esiste un marchio di fabbrica ben preciso nelle sue produzioni e un metodo di lavoro non dissimile alla catena di montaggio messa in atto dalla Motown, fucina di successi in quello stesso periodo sul versante Soul-R&B. Il dispiegamento di uomini e mezzi fu notevole e, commercialmente parlando, il periodo Blue Note di Horace Silver da sempre seduce le masse e gli appassionati del cosiddetto soul-jazz. Album come Further Explorations del 1958, Blowin’ The Blues Away del 1959, Serenade To A Soul Sister del 1968, così come il suo capolavoro Song For My Father del 1965 – che analizzeremo in questo articolo – provengono tutti da session ben organizzate con fior di musicisti, il meglio di quanto potesse offrire la scena bop in quel momento; deponeva oltremodo a favore dei vari lavori di Horace Silver, l’immediatezza e la facilità di fruizione. L’abilità nel saper scrutare le nuove istanze della black music, certe accentazioni funkified e quel suo indugiare in accattivanti melodie di stampo soul, sono stati elementi fondamentali nei suoi dischi e propedeutici a un facile impatto sul mercato. 

Quasi tutti gli album di Horace Silver sono assurti allo status di classici. Al netto dei risultati in termini di vendita dell’uno piuttosto che di un altro, tutti i lavori del capoverdiano editi dalla Blue Note costituiscono un punto di riferimento per gli appassionati di un peculiare tipo di hard bop formulato attraverso una combinazione di elementi molteplici provenienti dal continente latino e dal comparto soul-funk. Ancora oggi i dischi del nostro pianista possono essere una valida piattaforma di studio per quanti amano penetrare la sintassi jazzistica, senza temere di essere tacciati di revivalismo, così come accadde a famosi «giovani leoni», Wynton Marsalis, Wallace Roney o Terence Blanchard, accusati, sul calare degli anni Ottanta da una certa stampa, di essere dei cloni e degli impostori, poiché cercavano di perpetuare la musica dei loro anziani predecessori, tentando di riprodurre le sonorità di Horace Silver, di Art Blakey et similia, anziché continuare laddove le avanguardie avevano interrotto. La storia ha loro dato ragione e, ancora oggi, il cosiddetto mainstream confezionato in casa Lion continua a destare interesse fra i giovani e ad essere un’importante via di accesso al jazz. 

Horace Silver fu uomo d’azienda e di fiducia dell’opificio Blue Note, amico e confidente personale del patron, anche se nei lunghi anni di militanza attiva non è mai stato un vero capo tribù, ma piuttosto un capo guerriero. Al fine di agevolare la comprensione della belluina metafora, si potrebbe aggiungere come elemento chiarificatore che Cochise, ad esempio, era un capo tribù, tipo Art Bakley, mentre Geronimo era un capo guerriero, proprio come Silver, un autentico stratega musicale, in grado di organizzare le truppe, arrangiare e dirigere i musicisti sul piede di guerra durante una sessione. Analizzando i fenomeni con attenzione, ci si accorge che uno degli album realizzati per l’etichetta di Lion svetta qualche spanna al di sopra della media del periodo. 

Further Explorations By The Horace Silver Quintet ha una marcia in più e un differente mood, dovuti con buona probabilità alle variazioni di line-up. In effetti, il cambio di collaboratori fu determinante, se non altro rigenerante. La progressione dell’onda sonora si ramifica oltre il suo abituale linguaggio, irrorando la linfa delle tipiche melodie di Silver con ritmi più esotici. Progettato con cura, l’album, pur aderendo alle istanze dell’hard bop di quegli anni, tenta una via obliqua e innovativa rispetto alla solita scrittura di Silver e al suo concetto di pianoforte. L’ensemble di Further Explorations è coeso e determinato, basilare l’innesto di Art Farmer che contribuisce con assoli eleganti e imprevedibili rendendo il suono più cristallino. Alla fine, sembrerebbe che sia più un album di Farmer che di Silver o, comunque, un progetto in comproprietà: Farmer non era artista facilmente circoscrivibile in un preciso schema operativo.

Una session di prova di Horace Silver con gli altri componenti del suo quintetto.

I primi due frammenti chiariscono che Further Explorations, ossia “Ulteriori esplorazioni”, come titolo sia alquanto appropriato: The Outlaw presenta progressioni armoniche più lunghe e insolite, un ritmo latino alternato, tempi a 4/4 con sezioni sonore labirintiche, veloci stoppate e ripartenze improvvise, ma con un passo rapido e deciso; la seconda composizione sotto forma di ballata, Melancholy Mood, porta subito a un cambiamento di umore. Si parte con un tiepido duetto tra Silver e Teddy Kotick (uno dei bassisti preferiti di Charlie Parker), mentre Louis Hayes accompagna la ciurma con una batteria dalla pennellata morbida e levigata. L’assolo di Silver è un gioiello, che mescola lunghi tratti di accordi secondari minori, note con frasi sensuali e ripetute stoccate funkified. Pyramid è un mélange di melodia orecchiabile, tocchi latini e cori ondeggianti, in cui Art Farmer trova la strada maestra con lunghe linee dal lirismo intenso. Moon Rays è il pezzo centrale dell’album della durata di undici minuti. 

La melodia al lime dei Caraibi risulta assai accattivante, mentre la maniera in cui Silver opera sul piano rimanda a talune modalità espressive tipiche del gioco sui tasti di Thelonious Monk. Jordan e Farmer raggiungono il climax in Safari, una rivisitazione legata a Silver con Art Blakey e Gene Ramey, al suo debutto in Blue Note nel 1952, ossia The Horace Silver Trio. I’ll Wind, che appone il sigillo di ceralacca chiudendo l’album, ha una struttura insolita e non molto digeribile al primo boccone, ma condensa tutte le caratteristiche di Further Explorations che, a consuntivo ultimato, possiamo collocare fra le migliori sessioni organizzate da Horace Silver. I solisti impressionano costantemente: Farmer, pur tentando una selezione insolita e intervallata, suona in maniera molto melodica, rendendo tutte le progressioni assai attraenti. Il giovane Jordan si trasforma in una specie di Giano bifronte, espellendo dal suo mantice le sagome sonore a volte di Dexter Gordon, altre di Sonny Rollins, mentre dalle retrovie Kotick e Hayes mantengono il ritmo costante e il sangue fluido, evitando che il movimento si solidifichi, irrigidendosi. Sebbene nessuno di questi pezzi abbia preso piede come standard, l’intero set è ricco di variazioni di umore e groove cangianti; ciò garantisce al disco un carattere di forte impatto comunicativo. (Horace Silver Quintet – «Further Explorations», 1958).

Ancora Horace Silver seduto al suo pianoforte, sembra guardare orizzonti musicali ancora lontani.

Horace Silver ha rappresentato il jazz con l’anima, «il grande ritmo dei treni neri» con la vaporiera sempre a tutta manetta, l’uomo al comando che trasportava il popolo del blues su un convoglio a base di funk-bebop, con esecuzioni brucianti di soul e sempre in volata. Horace Ward Martin Tavares Silva, questo il suo vero nome, è stato uno dei personaggi più rappresentativi dell’hard bop, prima con i Messengers di Art Blakey, con cui inizialmente divideva la leadership, quindi protagonista di una lunga carriera come band-leader. Blowin’ The Blues Away è un disco bifronte a due velocità, eseguito in trio su due tracce e quattro in quintetto, nonché registrato in due sezioni separate: la prima il 29 e il 30 agosto 1959, la seconda il 13 settembre dello stesso anno. Il pianista si alterna alla guida a tre o a cinque marce, pur potendo contare sulla squadra di sempre, quella storica e più affiatata al suo fianco: Junior Cook sax tenore, Blue Mitchell tromba, Gene Taylor contrabbasso, Louis Hayes batteria. In tutti i formati, Silver riesce a esprimersi da eccelso solista, generando una forte propulsione alle spalle della linea frontale, quando arretra per garantire un comping perfetto e impeccabile. 

Blowin’ The Blues Away è uno degli elaborati più riusciti di Horace Silver in casa Blue Note, forte di sei composizioni originali; un album che segna l’apice del quintetto classico al pari di Song For My Father e Horace Silver & The Jazz Messengers. Il ritmo dell’album è impeccabile, si va a martello e si rallenta con un paio di placidi intermezzi, tanto da consentire a tutti di riprendere fiato, ascoltatore incluso. Il ventaglio di sensazioni e variazioni tematiche offerte è assai ricco. Tra i tanti, due brani spiccano per intensità: Peace, una bollente e seducente ballata, e Sister Sadie, basato sul Vangelo, un concentrato di swing, dove la band, di tanto in tanto, suona all’unisono prima che l’uno o l’altro dei solisti abbia una breve voce in capitolo. Entrambe saranno destinate a diventare degli standard del repertorio di Silver, al pari della title-track, Blowin’ The Blues Away. Melancholy Mood è un case-study per piano trio, sviluppato con il solo accompagnamento di Hayes e Taylor, dove i ripetuti cambi di ritmo lento sono magicamente lirici, diluiti con qualche martellata alla Monk e da una melodia mercuriale, che tracciano una delle più riuscite rappresentazioni dell’estetica silveriana. Della stessa pasta è fatta anche la frenetica The St. Vitus Dance (“Il ballo di San Vito”), un esempio di piano trio ad alta combustione sonora. 

L’esotismo e l’amore per le terre lontane affiorano, ma senza oleografia caricaturale e turistica, in The Baghdad Blues, un bop up-tempo insanguato da una mistura di soul-blues metropolitano, dal groove funky e calato in gran bazar di suoni. Break City è frutto della tipica economia a forte impatto di casa Silver con la band ai massimi livelli di tensione, dove l’esuberanza totale diventa un diktat non derogabile. Al netto di ogni considerazione, Blowin’ The Blues Away resta uno dei cardini della lunga discografia di Silver. (Horace Silver Quintet & Trio – «Blowin’ The Blues Away», 1959).

L’Horace Silver Quintet in occasione di un concerto tenuto ad Amsterdam il 21 febbraio 1959. Si vedono Calvin Taylor al contrabbasso, Louis Hayes alla batteria e Blue Mitchell alla tromba.

Arrivano gli anni Sessanta

Horace Silver, figlio di un capoverdiano e di una irlandese, è sempre stato un compositore poliglotta affascinato da una mescolanza di linguaggi, apportando sistematicamente elementi di esoticità a vari livelli nell’ambito del jazz. La sua pozione magica si basa sulla chimica sonora del bilanciamento. Il pianista è sempre stato abile a lambiccare dinoccolati ritmi dal sapore caraibico con armonie complesse al fine di ottenere una balsamica mistura. 

Song For My Father, il suo album più celebrato, nonché una delle punte di diamante del catalogo Blue Note, possiede elementi di sofisticata signorilità arricchiti da delicate pennellate esotiche che nascono dalla genetica predisposizione del pianista di Capo Verde per i ritmi del Sud del mondo. Horace Silver era un uomo dalle molte radici familiari e sonore, che aveva disinvoltamente incorporato nella sua musica, sempre molto diretta, calda e coinvolgente, in perfetto equilibrio tra hard bop e latin-soul-jazz. In questo album vari elementi coabitano pacificamente in un perfetto equilibrio: l’atmosfera bossa nova della title-track Song for My Father, l’orientaleggiante incedere di Calcutta Cutie e il mood tropicale di Que Pasa?. Il pianista era noto per essere un perfezionista durante le sessioni di registrazione: fu questo uno dei motivi per cui pubblicò pochi dischi dal vivo, manifestando apertamente un’ossessione per il suono di altissima qualità, caratteristica assai evidente in quasi tutti i suoi album. 

Silver amava circondarsi di un cast di talenti a rotazione, alcuni spesso sconosciuti, molti dei quali sarebbero diventati dei veri punti cardine del jazz moderno. Solo i Messengers, sotto l’egida dell’amico Art Blakey, dimostrarono maggior fermento come scuola di vita e laboratorio aperto ai talenti emergenti. Song For My Father proviene da tre distinte sessioni spalmate nell’arco di un anno, dall’ottobre 1963 all’ottobre 1964 (31 ottobre 1963, 28 gennaio e 26 ottobre 1964), con due diversi line-up. L’ordine dei brani, come originariamente concepito, mostra la formidabile intuizione del produttore Alfred Lion, il quale aveva esortato Silver a scritturare Carmell Jones, Joe Henderson, Teddy Smith e Roger Humphries. La coppia d’attacco Carmell Jones alla tromba, ma soprattutto Joe Henderson al sax tenore, con un esemplare lavoro sulla melodia, conferiscono gli attributi alla title-track: dopo l’introduzione iniziale del piano di Silver, i due fiati iniziano una narrazione chiara e avvincente, Silver riceve presto il nulla osta al suo primo intervento in solitaria che onora attraverso una zampillante e variegata progressione armonica, sostenuta dalla retroguardia foriera di un certosino e calibrato apporto ritmico; la staffetta passa dunque a Henderson che si evidenzia per il suo modo di improvvisare angolare e tortuoso da cui scaturisce uno dei migliori assoli di sax tenore di tutti i tempi. 

L’album nella sua totalità è un concentrato maestoso di tromba e sax tenore con assoli infuocati ma mai eccessivamente lunghi e verbosi, mentre il pianoforte di Silver trama su un sublime telaio di note agrodolci, suggerendo una struttura formale, che aleggia su tutto il procedimento, ma senza restrittive imposizioni sui sodali. Tra i momenti salienti dell’album, una menzione speciale va a Calcutta Cutie registrata con una formazione completamente diversa, con il trombettista Blue Mitchell e il sassofonista tenore Junior Cook, spesso trascurato dai libri di storia. L’unica traccia non scritta da Silver, The Kicker, a firma Henderson, che da solo vale il prezzo della corsa, si caratterizza come uno dei momenti più convincenti del disco, caratterizzato dalle marcate incursioni poliritmiche di Roger Humphries; ottime per struttura ed esecuzione anche Que Pasa? e Lonely Woman. Pubblicato nel 1965, Song For My Father, come già detto, nasce da un’insolita sessione di tipo split. Una parte dell’album è suonata dal classico quintetto di Silver (al piano) con Blue Mitchell alla tromba, Junior Cook al sax tenore, Gene Taylor al basso, Roy Brooks alla batteria. L’altra parte vede sul set Silver al piano, Carmell Jones alla tromba, Joe Henderson al sax tenore, Teddy Smith al basso e Roger Humphries alla batteria. Si potrebbe pensare a un «taglia e incolla» ma, ascoltando l’album, non si percepiscono sbavature o marcate differenze fra le due compagini: il lavoro risulta lineare e omogeneo. Il focus centrale è dettato dal tocco di Silver, quel tanto che basta per far emergere la sua classe nascosta, una scrittura accattivante e il suo lussureggiante marchio di fabbrica. 

Song For My Father è un album meno concentrato sulle apparenze e sulla forma e più sulla sostanza: il pianista-leader contiene e smorza le esuberanze di entrambi i gruppi, legandoli insieme in maniera straordinaria; rifugge la complessità armonica e la sperimentazione fine a se stessa, incarnando il buon vecchio modo di concepire il jazz come una formula accessibile che mantiene la sua originaria componente blues e gospel. Silver in fondo era una persona sorridente e positiva come il suo modo di suonare. Era solito dire: «Personalmente non credo nella politica, nell’odio o nella rabbia da riversare nella composizione musicale (…) La musica dovrebbe portare felicità e gioia alle persone e far dimenticare loro i problemi». (Horace Silver Quintet – «Song For My Father», 1965).

Nei sette minuti di Psychedelic Sally Horace Silver stabilisce ancora le linee guida di quello che sarà un genere molto imitato, a partire dalla fine degli anni Sessanta e per tutti i Settanta, da una nuova generazione di musicisti di colore, i quali cercheranno di trovare sempre più punti di contatto tra il jazz e altri derivati del blues. Alcuni di essi scivoleranno sul terreno più impervio della fusion o planeranno sui morbidi cuscini di un rassicurante smooth, di cui soul e funk costituivano due ingredienti indispensabili, quasi un’alternativa alla fusion jazz-rock più vicina a taluni stilemi praticati «dall’uomo bianco». Serenade To A Soul Sister è una potente mistura di funk anni ‘60 e bop anni ‘50, che nasce dal perfetto sodalizio tra il pianista più funky del jazz moderno, Horace Silver, e il sassofonista più soulful della storia del bebop, Stanley Turrentine, spintonati da Charles Tolliver, trombettista dal tono deciso e robusto. Ecco, dunque, scodellata una delle migliori pietanze discografiche a base di soul-jazz mai servita in casa Blue Note.

Ancora l’Horace Silver Quintet nel corso di un concerto nel dicembre 1960, con in primo piano lo stesso Horace Silver, Gene Taylor e Blue Mitchell (© jazzinphoto).

Serenade To A Soul Sister, come dire nome omen, già il titolo parla chiaro: il 1968 fu un anno di lotta e di turbolenze sociali e l’album è un tributo ideale alle donne afro-americane che in quel periodo soffrivano e lottavano, subendo discriminazioni ancora più pesanti rispetto agli uomini. Ciononostante, Silver esplicitò chiaramente il suo pensiero nelle note di copertina, chiarendo che non sarebbe mai stato capace di lasciare che «politica, odio o rabbia»  entrassero nella sua musica. 

Registrato in due sessioni separate al Van Gelder Studio, il 23 febbraio ed il 29 marzo del 1968 e pubblicato nel giugno dello stesso anno, l’album si pregia di sei eccellenti composizioni originali a firma Silver, il quale appare in uno stato di grazia, sia da un punto di vista creativo, che sotto il profilo organizzativo. Le due variazioni di line-up, che vedono in alternanza, quali manovratori della macchina del ritmo Bob Cranshaw e John Williams al contrabbasso, Mickey Roker e Billy Cobham alla batteria, non intaccano minimamente il costrutto sonoro concepito dal pianista: tutti i sodali sono perfettamente allineati agli assunti programmatici del band-leader. L’amalgama è perfetto e l’omogeneità garantita. 

L’opener, Psychedelic Sally, che da solo vale il prezzo della corsa, è una sorta di biglietto da visita e il punto focale dell’intera opera: è scorrevole, invitante e a presa rapida, inchiodandosi nelle meningi del fruitore grazie a una linea di basso propulsiva, secondo la migliore tradizione funkiness e un tema imponente introdotto all’unisono dal sax e dalla tromba. Come da tradizione, il sontuoso sassofono di Turrentine, con un assolo bluesy da manuale, apre un varco a un energico giro di tromba distillato da un efficace e disinibito Tolliver; infine, Silver tira le somme delimitando il perimetro sonoro con un decisivo assolo di piano in modalità juke-joint, ossia con quell’innata capacità di sorprendere ancora, quando sembrava che gli altri avessero già detto tutto, ma senza disperderne le idee, mostrandosi competitivo o banalizzandole, ma concentrandole in un punto stabilito e saldandole insieme con un’abilità non comune. La title-track, Serenade To A Soul Sister, è un ottimo hard bop insanguato di funk, che sembrerebbe richiamare i trascorsi di Horace con i Jazz Messengers, stagliandosi furtivamente in un’ambientazione metropolitana fatta di luci e ombre, durante una notte fitta di misteri. Rain Dance nella fase iniziale ha un passo militaresco e sembrerebbe una chiamata alle armi; improvvisamente, il piano di Silver comincia a diradare la polvere del «lampo dei manipoli e l’onda dei cavalli», per assumere una flessuosa grazia femminile, placcato in seconda battuta dal sanguigno sax di Turrentine e dalla profondità della tromba di Tolliver che sembra raccontare una storia di soprusi e sofferenze; quindi, un finale nuovamente sul piede di guerra sferzato da una pioggia torrenziale di note. Jungle Juice è un funk nervoso dal sangue misto, che sembra vagare in una giungla di pensieri, narrati alla perfezione come una telescrivente dal sax e dalla tromba, mentre il piano sembra seguirne il passo in maniera cadenzata, per poi avallarne gli assunti con un assolo elaborato quasi in copia carbone, mentre il racconto sonoro continua sotto dettatura per volere degli ottoni. Kindred Spirits, sono le affinità elettive, gli spiriti diventano bollenti, mentre tutti i sodali ritrovano la loro analogia di pensiero legata al blues. Next Time I Fall In Love assume le sembianze di una ballata trascritta su carta millimetrata dal piano di Silver, dalle cui vene zampilla un misto di soul e di pathos. Senza condizionamenti esterni, con Serenade To A Soul Sister, il prode Orazio ha continuato a tracciare le coordinate della perfetta navigazione, mentre in quell’anno il mondo del jazz era un mare in tempesta, fissandone la rotta e i precisi punti d’ancoraggio, che diventeranno materia di studio e un faro illuminante per quanti dopo di lui avrebbero voluto veleggiare nelle acque del soul-jazz. (Horace Silver – «Serenade To A Soul Sister», 1968).

Francesco Cataldo Verrina

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