“Dove la parola manca, là comincia la musica; dove le parole si arrestano, l’uomo non può che cantare.”


Da sempre, l’uomo si è confrontato con il dualismo comunicativo fornito da una parte dalla parola, dall’altra dalla musica, il che ha portato l’essere umano a stabilire la presenza di una possibile complementarità tra questi due concetti. E se il poeta romantico tedesco, grande appassionato di musica, affermò che «Laddove le parole finiscono, lì inizia la musica», da parte sua il musicologo e filosofo francese contemporaneo Vladimir Jankélévitch ha avuto modo di aggiungere «Dove la parola manca, là comincia la musica; dove le parole si arrestano, l’uomo non può che cantare», con la precisa intenzione di mettere in evidenza come l’essere complementare tra parola e suono sia tale che dove non arriva l’uno può subentrare l’altro. Proprio questo essere complementare, fa sì che questi due elementi presentino più aspetti in comune di quanto possa sembrare.

Vladimir Jankélévitch, oltre che filosofo, è stato un esperto di musica e pianista.

Nel suo studio intitolato Lingua e musicalità Egidio Freddi sottolinea come il linguaggio verbale, insieme con quello musicale, venga considerato un linguaggio “specie-specifico”, ossia appartenente a una particolare specie animale, in questo caso a quella umana. Questo significa che l’espressione musicale si inserisce in quella classe di linguaggi definiti estetico-comunicativi ed espressivi di cui fanno parte la danza, il canto, il cinema, la mimica e molto altro. Tali linguaggi vengono appresi tramite l’esposizione diretta al suono, attraverso cui l’essere umano fin dalla nascita apprende le abilità necessarie per poter comunicare ed esprimersi. Ecco perché la cultura e le relazioni sociali che si intrattengono quotidianamente, esercitano un forte impatto sull’acquisizione linguistica e musicale. D’altra parte, come esistono migliaia di lingue diverse, altrettanto vasta è la gamma di espressioni artistiche e sonore in tutto il mondo.

Il teorico musicale e musicista statunitense Edwin E. Gordon, autore del fondamentale studio Music Learning Theory, sottolinea come i meccanismi che sottostanno all’apprendimento musicale sono gli stessi che valgono per l’apprendimento linguistico, vale a dire: ascolto, imitazione e produzione autonoma. Proprio nel suo saggio più celebre, lo studioso americano ipotizza, per l’appunto, come l’apprendimento musicale si assimili in molti aspetti a quello linguistico. Egli afferma come sia importante, per l’apprendimento musicale, una giusta esposizione e un’interazione con una comunità musicalmente viva e ricca che possa stimolare al meglio le conoscenze del singolo, conoscenze che vengono sviluppate già nel grembo materno, dove il feto impara a comprendere e riconoscere non solo la voce della madre, ma anche i diversi ritmi dei suoi organi, dal battito del cuore fino alla respirazione.

Edwin Elias Gordon è stato un teorico della musica e musicista statunitense, didatta nel campo dell’educazione musicale.

Inoltre, è interessante notare come entrambi i sistemi linguistici siano dotati di una gerarchia di elementi (fonemi, morfemi, parole e frasi per il linguaggio verbale; note, intervalli, accordi e temi per quello musicale), i quali, poi, possono combinarsi a loro volta in enunciati verbali o in melodie sonore. Alla base di entrambe le tipologie di linguaggio, come ha giustamente affermato il linguista Mario Cardona nel suo studio Musica e apprendimento linguistico, vi è la ritmicità, la cui comprensione avviene già durante le prime fasi di vita grazie all’ascolto del cosiddetto baby talk parlato, per esempio, dai genitori. Esso ci permette di incorporare la capacità di alternanza delle voci, data dal ritmo della sillaba e da quello del singolo suono.

Per la precisione, il baby talk, anche detto motherese o madrese, è quel termine che viene utilizzato per indicare il linguaggio che gli adulti adottano quando si rivolgono a un neonato, caratterizzato dall’innalzamento del tono della voce e da un generale rallentamento della locuzione. Viene quasi naturale adoperarlo, come spinti da un istinto biologico, e in parte è così. Il motherese, infatti, è caratterizzato da una modalità di linguaggio altamente musicale che serve a mettere in evidenza ciò che si vuole esprimere al bambino e creare di conseguenza una sintonizzazione affettiva tra l’adulto e l’infante stesso. Tale effetto lo si riscontra anche nella musica, fautrice di quel fenomeno, definito come “sintonizzazione armonica”, che ci porta a battere le mani e i piedi per seguire il ritmo della stimolazione sonora.

Altrettanto importante è anche un altro aspetto, quello che riguarda l’acquisizione del linguaggio verbale e musicale che, in un primo momento, risulta innata, naturale e spontanea, mentre solo successivamente l’apprendimento viene perfezionato grazie a giorni, settimane e anni di pratica e in forza della preziosa assistenza di figure esterne più preparate.

In un primo momento, definito con il termine di “acculturazione”, il bambino apprende il linguaggio musicale in maniera del tutto istintiva e priva di sforzi eccessivi. Esso, però, per poter essere espresso nel miglior modo possibile dovrà, poi, essere perfezionato attraverso un’adeguata educazione. Tuttavia, questa tipologia di apprendimento, man mano che si cresce, viene messa in secondo piano dall’ambiente didattico, divenendo, in questo modo, sempre più un hobby coltivato a livello individuale. Infatti, da piccoli, a scuola, si apprendono le filastrocche, le canzoni e, se si è fortunati, si impara anche a suonare uno strumento musicale; ma poi questo aspetto viene ben presto abbandonato dall’educazione con lo scopo di far leva sull’accrescimento dei processi cognitivi a livello scientifico. Non viene tenuto conto del fatto che alla base di siffatti sviluppi cognitivi, tanto agognati dalla preparazione accademica, risultano fondamentali quei fattori emotivi e motivazionali che vengono sviluppati proprio dalla musica stessa e dagli strumenti didattici ad essa legati.

Ginevra Corvino

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