Una recensione diversa dal mio solito modello perché questo è un disco che non è assimilabile a nessun altro prodotto musicale e ci vuole una recensione che sia originale quanto il disco stesso, se non altro per rispetto verso chi in quel lontano 1967 ha osato l’inosabile.


Di un disco così epocale e influente è stato detto di tutto e di più.
Pertanto in questa sede non intendo fare una disamina di un album sul quale esiste già un abbondante letteratura.
Quindi ho deciso di dare un taglio filosofico, allegorico e immaginifico, all’approccio di un disco che è sinonimo di avanguardia musicale e non solo, anche contenutistica e sociale.
È necessario tracciare una traiettoria che parte da Platone e passa da Schopenhauer fino a concludersi con Nietzsche per dare un taglio ermeneutico filosofico a questo disco.
Platone nella sua Repubblica descrive la sua concezione elevata della musica e ne definisce il ruolo: la musica è, assieme all’attività fisica, la miglior educazione dell’anima, quella che mette in relazione quest’ultima con il cosmo e permettere di conseguenza di mostrare all’essere umano ciò che c’è oltre le ombre della caverna, che, secondo il celebre Mito della Caverna, sarebbero solo le copie imperfette delle idee perfette. La musica permette all’uomo di liberarsi dalle catene cui era imprigionato nella caverna.
Ma Platone si spinge ancora oltre: considera la musica come una sorta di follia rituale atta a creare questo collegamento fra anima e cosmo.
L’uomo non è fatto solo di carne, sangue e ossa ma possiede anche un’anima: tale anima è il motore che mette in relazione l’essere umano con l’armonia celeste del creato (secondo la concezione pitagorica), quindi con il divino (che ormai non erano più gli dei di Omero, bensì il misticismo divino che esiste sopra l’uomo); ma l’anima umana è anche in contatto con l’universo terreno, costituita da una moltitudine di altri esseri umani che formano un’entità chiamata polis, la “città” dei greci.
Questa visione di Platone è ben diversa dall’uomo animale politico di Aristotele, è una visione mistica atta a creare una simbiosi fra il singolo e la sua polis.
Quando io sostengo che The Velvet Underground & Nico è la forza della musica che crea una simbiosi fra l’anima del singolo e l’anima dei bassifondi di New York mi riferisco a questa concezione platonica: questo disco assurge al rango di “simbolo” nel senso etimologico del termine, ovvero dal greco “sun-ballein”, che significa “unire con”, creare una simbiosi che unisce l’anima di un artista con l’anima della suburbia newyorkese.
È da cosa è rappresentato questo “sun-ballein”, questo simbolo? Dalla pop art che ha generato il daimon della musica
The Velvet Underground & Nico è la musica quale pura follia rituale nel senso platonico.
La musica perde la sua funzione di tramite per accedere a un qualcosa di più elevato: diventa la creatività che mette in comunicazione l’anima con un’entità composta di altre esistenze e che si chiama polis.

Il simbolo è la banana di Andy Warhol, il metro della pop art per trasformare in arte il degrado metropolitano e il suo perverso mondo di perdizione.
La musica è il “daimon”, quell’atto creativo che è insito nell’animo umano e che in questo caso lo mette in relazione con le forze sociali devianti dalla norma: tossici, sbandati, drag queens, travestiti, umanità di risulta, esclusi dal ciclo produttivo lavora-produci-consuma…il consumismo bersaglio dell’ironia provocatoria della Pop Art e della banana di Andy Warhol in copertina. Il termine “daimon” è inteso come “atto creativo” e non ha nulla a che vedere con il significato moderno e negativo di demone.
The Velvet Underground & Nico è un atto demiurgico, un’emanazione di un daimon creativo, e sarà a sua volta demiurgico di interi movimenti controculturali a venire (senza questo disco non avremmo avuto nulla, ripeto nulla).
Ed è il daimon insito nell’anima di un manipolo di individui calati nella dimensione decadente di un’entità polis-New York; è la voce di un daimon che non si estranea dalla realtà-polis – come i coevi movimenti flower power californiani – ma la penetra fino in fondo nei suoi meandri reconditi, oscuri e perversi, creando una sublimazione di quello che l’artifiziosità ipocrita del perbenismo borghese vuole nascondere: tutto quello che deroga dalla norma di un dogma comportamentale e sociale codificato.
Il cosiddetto perbenismo non si limita solo a demonizzare, ma prima di tutto nasconde ed eclissa quella parte della società che deve rimanere nascosta e non turbare le sue (fallaci) sicurezze.
The Velvet Underground & Nico è un viaggio nelle viscere, nei buchi neri di una New York lontana dalle sicumera scintillanti di facciata, è un’esplorazione al centro della voragine di perdizione della Big Apple con lo spirito di un Jules Verne impersonato in un Virgilio dantesco che guida nei meandri di sesso e droga, per sbattere in faccia il duro volto della realtà a chi veste l’abito dell’ipocrisia
Il disco è l’atto creativo di un agente prometeico che porta il suo creatore alla catarsi.
Non è forse il brano Heroin un colloquio del daimon di Lou Reed? Il vortice di chi piomba nella spirale dell’eroina è l’espressione daimonica di una catarsi spiraliforme, sorretta dalle dissonanze della viola di John Cale, come uno stato di trance generato da un antico oracolo di Delfi trasportato nei millenni nel cuore oscuri e violento dei bassifondi metropolitani.
Qui non è la voce Lou Reed ma quella del suo daimon interiore, colui che si fa aruspice, mago della creazione musicale, il demiurgo artefice dell’Unione fra l’anima e la polis nei suoi aspetti più decadenti e mostruosi.
Da qui a Schopenhauer il passo è breve. Il filosofo tedesco considerava la musica come la più alta manifestazione della Volontà, un’entità che rappresenta l’espressione assoluta del mondo fenomenico.
La musica, atto daimonico per eccellenza nella concezione schopenhaueriana, è la rivelazione di quest’alta manifestazione metafisica denominata Volontà, che non è inintelligibile all’uomo: costui deve intraprendere un percorso interiore per poter accedere a questa Volontà.

È sufficiente ascoltare i brani cantati da Nico, questi splendidi cammei di puro lirismo decadente: I’ll Be Your Mirror, Femme Fatale, All Tomorrow’s Parties, per rendersi conto – ma solo a un orecchio iniziato a andare oltre l’immanenza – come la musica abbia la forza di rivelare la trascendenza, il sublime dalla decadenza urbana, di far vedere all’ascoltatore che dietro le rovine esiste un assoluto sublime.
Sunday Morning è la luce dell’assoluto che dietro la putrescenza di una marcia decadenza urbana rivela il fascino di una melodia che è una sinapsi capace di legare ambiguità e fine eleganza, con quel canto loureediano modulato in una effeminata grazia, quasi a voler far germinare dal marciume il fiore misterioso ed enigmatico del travestitismo. Bastano pochi tocchi di carillon per aprire la soglia di questo mistero.
Poi è Nico che ci introduce a un nuovo mistero: quello della Femme Fatale, ben iconizzato nell’omonimo brano. Una ballad dai toni malinconici che avvolge con un infida tenerezza. L’ossimorico assunto di truce tenerezza che svela l’angelo demoniaco, la femme fatale capace di trascinare nella sua perversa spirale erotica. Il canto di una sirena diabolica che ammalia con la sua voce, aggraziata da leggiadri coretti e da delicati arrangiamenti per mostrare ai comuni mortali quanto possa essere leggiadra la perversione.
Nico è anche I’ll Be Your Mirror, ovvero sarò il tuo specchio: un momento di delicatezza definito da trame armoniche morbide e delicate e da un canto che è quello di una sirena. Sarò il tuo specchio, riflettere quello che sei, la tua bellezza, è il tema di un carme amoroso che Reed dedica a Nico, e lo specchio parla, diventa una voce interiore. È il tema del doppio affrontato più volte in letteratura, la dualità insita in ogni essere umano qui identificato in uno specchio che prende la parola e rassicura sulla bellezza della persona facendo parlare la sua immagine riflessa, e tale bellezza raggiunge un alto valore valoriale, come in Dorian Gray.
Quindi la melodia dark di All Tomorrow’s Parties, ove una Nico in veste di sacerdotessa notturna ci accompagna nel buio di vicoli maleodoranti verso culti misterici pagani, in un mondo dove bellezza e orrore si sublimano come ultima espressione di un soprasensibile. La voce morbida e sensuale di Nico è quella di una sacerdotessa che pontifica da un oracolo all’incrocio di un Avenue newyorkese. Quale miglior brano di questo capace di anticipare il concetto di dark; una melodia funerea con un canto che pare quello di una persona che non appartiene a questo mondo e l’imbastito sinfonico delle parto strumentali e pari al canto delle prediche che accompagna un corteo di astanti vestito di nero verso un cerimoniale nella scura notte metropolitana.
La musica è anche follia. E qui si chiude il circolo ermeneutico in chiave filosofica di questo disco con Nietzsche.
Secondo Nietzsche l’animo umano vive fra l’apollineo e il dionisiaco, ovvero fra una parte equilibrata e razionale e una irrazionale votata alla follia, che diventa una porta verso il divino.
L’apollineo – dal dio del sole Apollo, Mitra per i persiani – è l’aspetto votato all’ordine e all’armonia, mentre il dionisisco – da Dioniso, ovvero Bacco il dio del vino – è l’ebbrezza dell’irrazionale.


Per Nietzsche è proprio della musica il compito di mostrare la parte dionisiaca, la follia dell’irrazionale.
The Velvet Underground & Nico diventa così un monito nitzschiano: la cultura borghese ha causato la perdita dell’elemento dionisiaco, mentre i due elementi vivono l’uno in funzione dell’altro. Senza dionisiaco non è possibile l’apollineo e viceversa.
In The Velvet Underground &Nico troviamo il dualismo nitzschiano di apollineo/dionisiaco in diversi brani che esaltano il primo e il secondo.
There She Goes Again, pausa di distesa serenità e Run Run Run, vibrante cavalcata rock, sono l’elemento apollineo che non stona nel disco perché sono controbilanciate in equilibrio da quello dionisiaco, rappresentato da brani come Venus in Furs,apologia del sadomaso, ed European Son che è ebbrezza dionisiaca estrema.
L’elemento apollineo si sprigiona dai due brani selezionati perché l’apparente distensione che promanano è in realtà un invito all’ordine e all’armonia dei sensi, una leggerezza che non è ludica ma apre una soglia verso l’equilibrio armonico dato proprio dall’umore apollineo. La razionalità in due brani fedeli al sistema temperato tonale come pausa di ripiegamento alla pace dei sensi.
There She Goes Again con le sue chitarre in spolvero e il cantato disteso di Reed è un ripiegamento di momentanea pace apollinea in un brano dalla struttura semplice. Posto non a caso quale successore di Heroin, il viaggio più agghiacciante dell’album, è come un dantesco riveder le stelle dopo aver attraversato la bolgia infernale dell’eroina.
In Run Run Run invece l’apollineo si esprime in una galoppata rock’n’roll che non invita alla pace ma all’entusiasmo di una distrazione dalle cure, dalle preoccupazioni del mondo: è come prendere parte a una quadriglia nella quale da passivi si diventa attivi, protagonisti di un’emozione vissuto in prima linea; però la modalità è espressionista, un modo dall’interno verso l’esterno, sublimato da un canto che esprime lo stato d’animo del protagonista come una “blot” una macchia sonora che cattura l’ascoltatore.
Poi abbiamo Venus In Furs, ebbra di orgasmo dionisiaco, l’estasi bacchica che si esprime in una spirale perversa sadomaso, ma la perversione qui non è un buco nero, è un abbandono a un’orgia degna del più oscuro baccanale, ed è la parusia musicale di quello che il narratore Edgar Allan Poe chiama il “genio della perversione”, quel desiderio travolgente, quel bisogno insito nell’inconscio freudiano di abbandonarsi al “capriccio del perverso” per non lasciarsi travolgere dal demone della repressione.
Tutto il brano è una trasposizione musicale del capriccio del perverso di Poe, e le angoscianti dissonanze della viola elettrica di John Cale sono le lacrime di questo capriccio, un suono che si avvita su se stesso e esprime l’apocalisse del dolore e della perversione. È una perversione che si trasforma in atto di espiazione, la devianza come scaturigine del gorgo delle passioni e che altro non è che il bisogno di espiare, di attraversare una bolgia infernale fra rifiuti umani metropolitani e scampoli di pelle nuda, cuoio nero e sciocchi di frusta che fanno eco da una stanza per una redenzione dal caos e dal tormento. Pochi brani nel rock sanno essere così tormentati e contemporaneamente dionisiaci come questo: è il lato più ebbro dell’espiazione, la quale si sublima nel capriccio del perverso.
Waiting for the Man è un’altra follia dionisiaca nell’immagine dell’incontro notturno con un pusher. Un battito convulso di un ritmo martellante e malato che spinge verso la dissonanza come se essa fosse il lamento di un ventre cittadino malato. Un cantato che pare distaccato, privo di emozioni salvo poi rivelarsi la vice di una personificazione: ecco che una canzone sulla droga si trasforma in un quadro surreale e il “man”, il pusher, il mercante di morte, l'”uomo” secondo il linguaggio di Kerouac, da entità fisica si trasforma in entità immateriale e simbolica, frutto di un sogno surreale alla Breton che indaga i meandri più profondi della psiche. “Ceci n’est pas un homme” per parafrasare un celebre dipinto di Magritte: lo spacciatore, esistito veramente, diventa rappresentazione in versi, la realtà esce fuori dal tangibile ed entra in un linguaggio semantico comunicativo che demolisce la figura reale del pusher che si fa antimateria, allegoria della morte che passeggia fianco a fianco a noi come un torvo pusher che si aggira per le strade della città. L’ebbrezza dionisiaca in un sogno surreale a botte di un esasperato e malato ritmo per suggellare il diaframma sottile che c’è fra noi e la morte, con la quale ci troviamo a fare i conti.
Heroin è la discesa nell’abisso. Heroin è il Maelstrom che trascina nella bolgia dantesca di un tunnel senza uscita nel cui buio giacciono corpi accasciato sull’asfalto in preda alle convulsioni dopo l’ultima dose.
Se Waiting For The Man è il ritratto surrealista del pusher Heroin e il risucchio verso l’iperrealismo più crudo e sanguinolento. Il male di vivere si trasforma nella follia che accompagna attraverso un gorgo all’abisso della morte.
Un Reed che si riscopre Virgilio e che accompagna tutti noi novelli Danti nel girone infernale dell’eroina, un Reed illuminato dal genio di Dante Alighieri e da quello maledetto di Delmore Schwartz, suo antico amore, la urban poetry reediana che tocca il suo picco zenitale in termini di follia della disperazione.
Un cantato tendente al baritonale, come quello di un dead man walking, un morto che cammina, il quale quando diventa preda dell’abisso dell’eroina si lascia andare alle più malate convulsioni, contorcendosi e urlando di dolore.
Armonie di chitarra sul modello jingle-jangle che però non sono portatrici di serenità ma si fanno attimi sospesi su un baratro, e quando entrano in ballo le percussioni, sono cupe e pulsano come un battito cardiaco da malato terminale in attesa che Reed mette in scena il trascinamento nel girone infernale della droga facendo calare l’ascoltatore nel realismo dell’esperienza vissuta dal tossicodipendente quando si spara l’ago in vena e l’eroina entra nella circolazione sanguigna. Allora la viola di John Cale e tutti gli strumenti trascinano vorticosamente nello stato di malessere del tossico che sta a rota, una discesa agli inferi descritta da dissonanze e stridii che uccidono qualsiasi istanza tonale armonica. Gli episodi più convulsi si esplicano mediante un’orgia sonora di anime perse, come se fossimo spettatori di un’apocalisse urbana, e il battuto percussivo è pari a quello cardiaco che rallenta fino a fermarsi, segno che la morte ha preso possesso del corpo.
Altro che filosofia hippy e droga come allargamento degli stati di coscienza! Altro che Timothy Leary! Altro che droghe come aumento della conoscenza del se! Questa è una sinfonia terminale che fa ruinare la coscienza nell’incoscenza di chi è vicino alla morte, di chi si aggrappa all’ultimo grido per una vana liberazione, un tentativo di vedere la luce fuori dal tunnel! L’abisso è un tunnel al cui fondo c’è solo il buio della morte.
Veniamo infine ai due brani conclusivi.
Black Angel’s Death Song – dedicata al poeta Delmore Schwartz, musa ispiratrice del giovanissimo Lou Reed – è un altro daimon reediano che emerge dalle dissonanze dionisiache della viola di John Cale. La destabilizzazione del cincetto di melodia si esprime con le avventurose dissonanze di una viola pari a una lama che sta martoriando la carne umana: è la visione minimalista di John Cale la quale si esprime in una sgraziato stridire di note in saliscendi che deformano la melodia creando una scarica circuitale atta a penetrare nelle pieghe e negli anditi dell’inconscio, mentre il cantato reediano è vicino a unn recitar cantando dedicato alla figura di un angelo nero, chiara allusione luciferina, e luciferino è questo perverso dialogo di canto e viola. Questo brano è slegato, note e parole si rincorrono senza essere legate da un senso logico, come immagini che scorrono liberamente nella mente, un collage dominato dalla legge della casualità. Il tutto grazie alla simbiosi fra Reed, poeta maudit, e Cale musicista d’avanguardia.
European Son, un altro brano dedicato a Schwarz, è un inno al caos fatto di cacofonie e dissonanze free form con tanto di chitarre scordate, è l’apoteosi del dionisiaco nietzschiano. Costruito sull’ossatura di uno scalcinato rock’n’roll dal ritmo ferroviario, si trasforma in un marasma rumoristico che annulla la differenza fra suono e rumore, nell’apoteosi del concetto di free form mutuato dal free jazz. Chitarre distorte, chitarre scordate, effetti di feedback, cacofonie assortite sono un tuffo in un mare di entropia da saturazione orgiastica. Tutto il concetto di noise, tutti i Sonic Youth sono già espressi qui, però il rumorismo è tutt’altro che un abito, un involucro esterno; è un corsa a perdifiato in una spirale di violenza urbana che non conosce sosta, e la sgraziata cacofonia di questa pioggia di note di chitarra a perdifiato è pari a un’orgia sonora senza limiti, lo sfogo in un torrente caotico di rumore, traduzione nel rock della devastante tempesta sonora del free jazz di Ornette Coleman.
Questo è un baccanale orgiastico che trascina in una vertigine, in una vorticosa progressione che non conosce sosta, un’esplosiva corsa a perdifiato fra storie di alienazione e di perdizione. Il degrado urbano che si esprime con il metro dell’arte free form.
The Velvet Underground & Nico è più di un disco sperimentale che fonde psichedelia, avanguardia, rumorismo e rock: così viene descritto sommariamente, ma è oltre tutto questo. È la traiettoria musicale secondo le coordinate filosofiche Platone-Schopenhauer-Nietzsche: un atto del daimon creativo che porta la decadenza urbana alla sua sublimazione in arte, con l’impiego di un elemento dionisiaco liberato dalle catene.
Però dietro alle rovine, dietro alle scorie putrescenti di una società ai margini che il perbenismo borghese vuole tenere nascosta c’è il senso del sublime, dell’arte che si fa portavoce di un decadentismo sonoro la cui missione è la redenzione dell’essere umano. L’arte che esteapola la bellezza dalla perversione, quella bellezza salvifica secondo il principio del grande Dostoevsky.
In quest’ultimo concetto giova ricordare la massima di Michelangelo: l’uomo è grande anche nel peccato.

Marco Fanciulli

  • Artisti: The Velvet Underground, Nico
  • Data di uscita: 12 marzo 1967
  • Casa discografica: Verve Record

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