“A un artista, veramente degno di tal nome, non bisognerebbe chiedere che quest’atto di lealtà: educarsi al silenzio.”
Così sentenzia il critico cinematografico in “8 1/2”, pellicola datata 1963 e firmata Federico Fellini. Marcello Mastroianni, alias Guido Anselmi, è un celebre regista alle prese col suo ultimo film, colto da una crisi esistenziale che lo porterà a interrompere le riprese della sua opera. Educarsi al silenzio, per l’appunto. E quanto ci suona attuale questa massima, anzi: oggi lo è più che mai. Eppure al presente, quel silenzio che tanto gioverebbe alla coscienza comune, è divenuto uno spettro da cui fuggire; e se è vero che la pubblicità, diremmo la promozione di sé, è l’anima del commercio, ciò che viviamo è il caos più totale nel quale è arduo rinvenire tracce di qualità.
In campo artistico, ormai, l’ammissione della forma astratta e il diritto democratico dell’espressione personale hanno consentito primieramente la perdita di qualunque pudore. Si sono persi i riferimenti, e dal ventre molle dell’incultura sono nati aborti intesi ad occupare un qualche spazio all’interno di un mondo che fino a pochi decenni fa era popolato dalle migliori rappresentanze. Abbiamo già parlato, in un precedente articolo, della vanità (quì l’articolo); vediamo ora di analizzare i risvolti concreti nel campo dell’attuale discografia classica.
Il dato essenziale da tenere presente è il pubblico, che non esiste più. Non si prendano le serate all’Arena, le Prime alla Scala o altre manifestazioni mondane per stimare numericamente gli appassionati di musica classica. Né si considerino i concerti estivi presso antiche dimore, parchi secolari, chiese romaniche, che tanto servono ad una fascia di pubblico âgé inteso ad occupare in modo alternativo una calda serata. Di auditori colti ve ne sono, percentualmente, pochi, e sono abbonati alle migliori stagioni concertistiche. Infine, non si parli di giovani: in Italia i numeri degli under 30 – ma anche 40 – sono tendenzialmente preoccupanti, checché se ne voglia dire.
Come ho più volte avuto modo di raccontare ai musicisti con i quali, per la mia professione, entro in contatto, il pubblico della musica dal vivo non è quello dei dischi; e tuttavia, se ci fosse un vero interesse crescente nella partecipazione ai concerti di classica (come tanti enti e associazioni vorrebbero farci credere) si verificherebbe altresì un incremento, magari minimo, nella vendita del supporto fisico. Ma così non è. Non mi riferisco, ovviamente, alla sola vendita dei dischi – per il recupero dei quali, ad ogni età, si dovrebbe imparare a prestare valore all’aspetto fattuale del prodotto e non limitarsi al consumo mordi e fuggi – ma anche alla frequentazione della cosiddetta “musica liquida”, con streaming e download.
Limitandoci all’Italia, la patria della musica colta, i dati di vendita, sia fisici che digitali, sono imbarazzanti: mai così bassi da decenni. Al contrario nascono sempre più “artisti”, con velleità a dir poco sfacciate e ben intesi a farsi alfieri della Cultura, termine ormai fin troppo abusato. C’è un pubblico per questi artisti? In Italia abbiamo detto di no, almeno per i grandi numeri e nelle stagioni importanti; dunque resta l’estero (dove la musica colta è ancora apprezzata) e il nostrano sottobosco, popolato da folletti disperati. E come raggiungerli? Semplice: con un disco, un disco in molti casi totalmente inutile, ma che serve come biglietto da visita per gli appuntamenti musicali, i critici, le riviste. Insomma: per far promozione di sé.
Un tempo una produzione discografica era il punto di arrivo dopo anni di carriera. Solo i migliori artisti al mondo erano sostenuti da case discografiche e avevano accesso a costose sale di registrazione con i tecnici più abili e l’apparecchiatura più all’avanguardia. Oggi, invece, pubblicare un disco è semplicissimo: basta pagare: label, recensore, rivista. Etichette interessate solo a “fare affari” e a crescere di catalogo, qualunque sia la qualità del prodotto; tecnici improvvisati, microfoni di terz’ordine; recensori superficiali, riviste disponibili a cedere spazi promozionali per garantirsi pubblicazioni costanti. Tutto col solo fine mantenere viva un’industria discografica che continua a non avere pubblico e a dilatarsi perdendo di volta in volta il suo spirito originario.
È questo a cui siamo arrivati? Questo ci aspetta nei prossimi decenni? Per quanto mi riguarda, e per ciò che attiene l’etichetta che dirigo, mi appello ad un’altra massima: less is more. Ben cosciente che non tutte le produzioni hanno la stessa cifra artistica – né, in cuor mio, la stessa importanza – continuo ad oppormi a questa logica consumistica e a cercare di produrre con equilibrio e moderazione. Una scelta imposta dalla saggezza, dalla nobiltà di intenti? No, semplicemente non vorrei mai dovermi vergognare delle mie scelte.
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