Opera fondamentale per comprendere i furori e le passioni romantiche del giovane Verdi, questo capolavoro è stato fissato sul disco da alcuni dei più grandi direttori italiani e stranieri. Vediamo quali sono, dunque, le migliori registrazioni disponibili sul mercato
Il Macbeth verdiano scomparve per sei o sette decenni e fu riscoperto dalla cultura germanica. Naturalmente quel Macbeth era cantato in tedesco, con la conseguenza logica che chi avesse voluto ascoltare l’opera sino al 1960 avrebbe dovuto farlo basandosi su una traduzione ritmica. I tedeschi però non demorsero, e ancora nel 1950 e 1954 produssero due edizioni focalizzate sul Macbeth di Josef Metternich, e sulle Lady della Mödl e della Varnay. In Italia, la prima produzione documentata è del 1951 al Maggio Musicale Fiorentino. Diresse Vittorio Gui e, nelle parti protagoniste, non avendo la nostra cultura operistica una tradizione che facesse capo a Macbeth, ci si dovette rifare a un illustre baritono russo, Ivan Petrov e, guarda caso, importare la Varnay e farla cantare in italiano. L’anno dopo, alla Scala, ci provò De Sabata col suo nuovo gioiello: una cantante greco-americana assurta anche ai fastigi della cronaca rosa, Maria Meneghini Callas. Di quelle recite ambrosiane abbiamo il documento, tutt’ora a catalogo della EMI. La EMI di allora non colse tuttavia la possibilità di tradurre in un’incisione ufficiale il Macbeth scaligero e la prima edizione discografica venne sette anni dopo da New York, dove Rudolf Bing la programmò al Metropolitan proprio con la Callas, Warren e Mitropoulos. Ma il grande direttore greco dovette rinunciare per malanni al cuore e la Callas per altre ragioni. Così vennero scritturati Leinsdorf e la Rysanek, i quali, fermo restando Warren come Macbeth, firmarono finalmente la prima edizione registrata in studio per la RCA.
Nonostante la complessa operazione di riesumazione, una volta riapparso, Macbeth non ha più conosciuto forme di oblio. Non a caso, a soli pochi anni dalla produzione discografica favorita dal Metropolitan, Decca mise nel proprio catalogo la prima versione di quest’opera che veramente promanasse dall’esperienza teatrale. Correva l’anno 1964 e sul podio c’era Thomas Schippers, altro illustre rappresentante del teatro statunitense. Schippers, come farà con La forza del destino, registrata in quello stesso anno, approccia Verdi con un’idea di teatro lontanissima da ogni estetica corrente ancora in quegli anni. I tempi sono spesso indugianti, larghi, gli accenti e il piglio meno aggressivi, vasto lo spazio per il canto. A scanso di equivoci sarà meglio dire che Macbeth e la Lady di questa edizione, ovvero Taddei e Nilsson, non sono stati più eguagliati nelle edizioni successive, per quanto popolate da interpreti di levatura storica. Taddei, con Gobbi, Cappuccilli, Bruson e Nucci, appartiene dunque alla prima generazione italiana di creatori di questo ruolo. Di grande rilievo, come tutte le interpretazioni di Lamberto Gardelli, è il Macbeth registrato da Decca nel 1970 e ripresentato recentemente da Urania in seguito a un accurato restauro: un’edizione in cui il protagonista, il baritono tedesco Dietrich Fischer-Dieskau, offre del personaggio verdiano un’interpretazione profonda, meditata parola per parola, quasi con un risvolto psicanalitico. L’edizione gode poi, oltre che della Lady di Elena Suliotis, della straordinaria, freschissima e incisiva voce di Luciano Pavarotti nel ruolo di Macduff.
Il 1976 è l’anno aureo per Macbeth. Concorrono a definirlo tale due registrazioni ormai storiche e di perenne attualità: quella prodotta da Claudio Abbado alla Scala e la versione londinese di Muti. La lunga stagione nel massimo teatro milanese, l’esclusiva discografica con una major del disco, l’attesa di un direttore italiano che rinverdisse i fasti toscaniniani o continuasse la carriera interrotta dalla morte di Guido Cantelli, aveva fatto sperare che l’esperienza verdiana di Abbado trovasse un esito più articolato di quanto poi è stato. Aldilà di questo splendido Macbeth e di Simon Boccanegra, ambedue collocabili negli anni Settanta, il Verdi di Abbado è di fatto stato ininfluente. Niente Nabucco, Ernani, Luisa Miller, Rigoletto, Il Trovatore, La traviata, Otello, La forza del destino. Solo Falstaff a settant’anni e sporadiche invasioni, abbastanza sterili, nei territori di Aida e di Un ballo in maschera. Don Carlos solo in francese e privo delle cifre senza dubbio interessanti espresse a Milano sempre negli anni Settanta. A soli ventiquattro anni di distanza dall’edizione di De Sabata, il Macbeth di Abbado, in termini di melodrammaturgia, sembra lontano venti secoli da quella produzione. Siamo letteralmente in un’altra era, e il Verdi di cui qui si tratta è un autore totalmente riscoperto, ammirato, e per il quale metterne in scena un dramma è operazione di collettivo impegno interpretativo e musicologico. È un’edizione che ha giustamente incontrato il favore di due generazioni di ascoltatori, ma che denuncia indubbiamente anche le due caratteristiche che spesso fanno la grandezza e il limite di Claudio Abbado: la capacità analitica e la modesta inclinazione al coinvolgimento emotivo. O, meglio: un coinvolgimento eccessivamente temperato dalla ragione e ricondotto a più classica misura. Il che, soprattutto nel Verdi giovanile, tende ad abbassare la temperatura del fuoco espressivo e a rendere la tensione, più che accademica, controllata scientificamente. Lo si vede nitidamente in questa edizione.
Cappuccilli si conferma il grande Macbeth interiore e sgomento di fronte alle più orride mutazioni dell’istinto. Il personaggio lo ha studiato e approfondito in misura straordinaria, senza mai lesinare uno sforzo per raggiungere l’espressione esatta e conforme al momento narrativo. Inutile farne ulteriori elogi. Appartiene ormai ai classici del canto verdiano. Particolare, invece, la Lady di Shirley Verrett, la più umana delle Lady, quella in cui senti lo sforzo di essere quella che è. Ma non è lo sforzo di una cantante americana intesa a possedere un ruolo. Tutt’altro. È l’impegno di un’anima a piegarsi ai propri demoni, costi quello che costi. E in questo la Verrett è stata veramente geniale. Non potendo fare di lady Macbeth qualcosa di diverso da ciò che è, ne ha trapunto l’anima di infiniti dubbi, e ho mostrato, con innumerevoli aspetti vocali, l’impegno ad accettarsi nella propria natura, vittima di una volontà che la spinge ad agire anche contro un suo remoto senso della pietà. Davvero straordinario. Forse non vero, né in Shakespeare né in Verdi, ma nondimeno straordinario, e soprattutto psicologicamente plausibile.
Macbeth, dopo la parziale riuscita di Aida, è la prima incisione storica di Muti. E già al primo ascolto ci si rende conto dell’impressionante lavoro svolto dal direttore e soprattutto di essere di fronte a uno dei primi capitoli di una revisione totale dell’opera di Giuseppe Verdi. Qui non c’è più posto per quella parzialità ricreativa che ha sottratto a Verdi, per più di un secolo, la propria anima. Siamo nel cuore del Romanticismo europeo, lo stesso di Liszt e Berlioz, e il trattamento orchestrale vi è conforme. Le colossali campate entro cui Muti inquadra il disegno mostruoso di Shakespeare danno la stessa idea (mi rifaccio al cinema attuale) di certe ricostruzioni di storia medioevale restituite dalla migliore computer grafica. Le streghe e i loro fetidi antri sono evocate dal colore oscuro (più che scuro) dei timbri raggelati dei fiati e degli strumentini, non meno che dal fraseggio degli archi: duro, accentato, lacerante. Capisci, dopo poche pagine di partitura, di essere dentro un quadro orribile, sfregiato da un vento ghiacciato e da lamenti inconoscibili. Poi l’architettura. Enorme, eretta su accordi imponenti, su un’agogica mutevole, che privilegia tuttavia la monumentalità tragica. In Muti, il colossale è sempre scosso da fremiti febbricitanti, da soprassalti luminosi: una notte universale che si incendia di fuochi arcani. Certe grandi scene, la chiusa del primo atto, o la scena terza del terzo atto, fanno addirittura paura: appartengono a quell’orrido meraviglioso che, a partire dagli scrittori inglesi di fine Settecento, attraverserà quasi tutto un secolo. Non si tratta però di espressioni muscolari fini a se stesse: il dramma è totale, articolato, repellente, e tracima dall’orchestra al canto e viceversa in modo tale che oggi lo si definirebbe in tempo reale. È lo stesso processo osmotico ottenuto da Karajan, laddove l’osmosi orchestra-canto non trasforma il melodramma italiano nel dramma musicale wagneriano, ma riconsegna il canto alla recitazione e la recitazione fonde con il disegno sinfonico, facendone una sola espressione drammatica. A distanza di quasi quarant’anni l’ascolto vergine di questa esecuzione può ancora stupire per l’originalità di tanti quadri della partitura che, anche oggi, vengono eseguiti con un’infilata di luoghi comuni.
Dopo l’anno di grazia 1976, Macbeth si è stabilmente inserito nei decorsi discografici della multinazionali del disco, sia in termini audio che video. Negli anni Ottanta, sia Giuseppe Sinopoli, sia Riccardo Chailly sovrintenderanno a due nuove edizioni discografiche e video del capolavoro verdiano, facendo tesoro dell’esperienza e del magistero di due grandi baritoni fin de siècle: Renato Bruson e Leo Nucci, ed entrambe le edizioni (soprattutto Sinopoli) segneranno una nuova data nella riscoperta di questo capolavoro dimenticato colpevolmente per troppo tempo.
Riccardo Mainardi
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