Ogni epoca ha le sue fisime, i suoi miti, le sue mode. Alla fine degli anni ’80 la regola era preferire il digitale, che prometteva di essere infinitamente meglio dell’analogico.

Sappiamo bene che i Cd con la dicitura ADD o AAD suonassero spesso e volentieri meglio dei clamorosi DDD, a riprova del fatto che una registrazione e un mixaggio analogici, quando fatti a regola d’arte, continuavano a garantire una profondità di suono, un’emozione percettiva, che il digitale non era ancora in grado di offrire.

Un tema, quello del rapporto fra i due ambiti tecnologici, riattivato – durante una sessione d’ascolto vinilica – dall’ottimo Intuition di Wallace Rooney, qui alla guida di un sestetto stellare con Carter, Garrett, Thomas, Miller e Cindy Blackman (futura moglie di Santana). L’album è del 1988 ed è emblematico dell’ingenuità di quegli anni: nel retro della cover, sotto l’etichetta della Muse Records, è evidenziata la scritta “Digital Recordings”. Presumiamo dunque che l’edizione CD dell’album avrà avuto il bollino DDD.

Wallace Roney at Monterey Jazz Festival 9/92, with Miles Davis Tribute Band, featuring Herbie Hancock, Wayne Shorter, Ron Carter & Tony Williams ©Brian McMillen

Bene, il risultato?

Un suono piatto e iper-dettagliato, secco, nient’affatto “vivente”, come oggi capita di sentire nell’ascolto di un reel to reel prodotto direttamente da master analogico. O come può capitare perfino con un CD confezionato con gli strumenti digitali contemporanei.

Nessuna emozione, sia pure al cospetto di una musica magnifica, anche se piuttosto derivativa (Rooney sfoggiava un’incantevole cura per la clonazione della musica davisiana della metà degli anni ’60).

I passi avanti fatti dalle registrazioni e dalle masterizzazioni digitali sono stati poi tumultuosi, ma i primi anni del digitale sono stati difficili. E ingenui.

Sandro Vero

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