Se ascoltare la musica è, come abbiamo visto, una cosa problematica, ascoltare il jazz è un vero ginepraio.

Le ragioni di questa affermazione perentoria sono molteplici, ma si può partire da un dato fondamentale: l’ascoltatore di jazz è quasi sempre ossessionato – anche se si tratta di un’ossessione in larga misura inconsapevole – dal concetto di “ambienza”, e ciò perché il suo criterio principale è la dimensione live della musica riprodotta. Giusto ricordando la caratteristica saliente di questa musica, il suo carattere in gran parte improvvisato, ci si aspetta che tale elemento possa (debba?) trovare la sua esaltazione dalla sensazione che ciò che si ascolta sia prodotto quanto più possibile dal vivo. Che questo sia il punto cruciale lo dimostra un fatto: i produttori discografici più sensibili alle chiamate audiofile, e spesso si tratta di tecnici del suono che lavorano nell’ambito della produzione musicale, curano in maniera quasi maniacale proprio il fattore dell’ambienza, vale a dire quell’elemento della riproduzione che marca, favorisce, amplifica il senso del contesto fisico in cui la musica è registrata. Dunque, il carattere live non è solo quello dei concerti registrati ma diventa, con l’attenzione di non introdurre aspetti artificiosi, la qualità di una registrazione in studio (anche se spesso si tratta di uno studio trasportato all’interno di una chiesa o di un auditorium).

I dischi di Ricci della Fonè o di Lincetto per la Velut Luna sono esempi emblematici di questa estetica riproduttiva che premia, nella maniera più raffinata, le esigenze dell’ascoltatore jazzofilo: opere dall’organico minimalista, timbricamente esaltanti, dalla corretta dinamica, che restituiscono con le loro nuances un’esperienza dell’ambiente capace a sua volta di generare l’esperienza dell’evento prodotto dal vivo, dunque senza stratagemmi tecnologici, nella pura e semplice creazione musicale.

Giulio Cesare Ricci fondatore della Fonè
Marco Lincetto fondatore della Velut Luna

Ricci e Lincetto sono i guru di piccole realtà discografiche. Manfred Eicher è il factotum dell’ECM, la fortunata casa bavarese che ha definito uno standard estetico basato sul silenzio. E sull’ambienza, appunto, come testimoniato dalle sue produzioni, specie quelle di taglio cameristico, che propongono un jazz contaminato da suggestioni europee, nordiche.

Manfred Eicher fondatore della ECM

E così, se la dinamica è il valore che più appassiona l’ascoltatore di musica classica, l’ambienza – intesa appunto come ricostruzione dello spazio fisico e sonoro in cui la musica è stata prodotta (e dunque registrata) – è ciò che più di altri valori attrae l’ascoltatore di jazz.

Village Vanguard è un jazz club di New York

Anche qui ci si trova al cospetto di un paradosso: le pietre miliari del jazz, le incisioni che hanno fatto la sua storia, provengono tutte da registrazioni in studio. Pochissime eccezioni fanno, come al solito, una regola: le serate al Village Vanguard del trio di Bill Evans, risalenti al 1961, raccolte da pochi anni in un fantastico box coi vinili in pasta pesante da 180 gr., segnarono lo zenit dell’interplay nel trio canonico di piano, basso e batteria. Né prima né dopo i musicisti che hanno scritto la storia del jazz hanno segnato una bandierina significativa in una registrazione live: gli Hot Five di Armstrong, I Savoy di Parker, gli Atlantic e gli Impulse di Trane, i Columbia di Davis. Tutti rigorosamente partoriti dentro uno studio.

L’ascoltatore raffinato di jazz si trova dentro un vero dilemma: il suo modello è quello del live, la sua libreria significativa è fatta interamente di dischi registrati in sedute rigorosamente in studio. Da qui, con una frequenza elevata, il compromesso: musica registrata in uno spazio controllato, tecnicamente predisposto, ma con una modalità esecutiva quanto più possibile live, dunque senza sovraincisioni, tagli, ricuciture e quant’altro. Chi sa qualcosa della modalità produttiva di un tale Teo Macero, a lungo producer di Davis, sa bene che a partire da Miles in the Sky, e soprattutto con In a Silent Way e Bitches Brew, i dischi del divino trombettista furono invece il frutto di una sapiente regia fatta di tagli, reiterazioni, cuciture, sovraincisioni.

Miles Davis, Tom Palumbo

Una materia incandescente con cui anche il più inflessibile purista della live dimension ha dovuto fare i conti, finendo per accoglierla in un’estetica più ampia, in cui il valore progettuale dell’opera raggiunge un grado quasi equipollente a quello della spontaneità creativa. Non è un caso che tali primi esperimenti risalgano alla fine degli anni 60, quando il rock, specie nella sua declinazione progressive, dettava il passo a un’estetica – appunto – progettuale del fare musica, un’estetica del concept album, in cui dunque gli artifici tecnici diventavano parte integrante dell’opera.

L’ascoltatore del jazz, si sa, ama frequentare i luoghi reali in cui incontrare i musicisti. L’evento del fare musica è per lui più importante dell’evento della musica fatta: questo si intreccia a quanto prima detto a proposito delle sue preferenze in materia di musica riprodotta. Il live è senza dubbio la dimensione elettiva del suo rapporto con la musica.

Rispetto all’appassionato collezionista della classica – capace di possedere la stessa opera (composizione) in decine e decine di versioni di interpreti diversi – che può contare su un patrimonio discografico di pregio praticamente sterminato, il corrispettivo di fede jazzistica ha spesso dovuto accontentarsi di pubblicazioni appena sufficienti, almeno rispetto a registrazioni e masterizzazioni di eccezionale qualità quali quelle offerte da marchi blasonati come la Deutsch Grammophone, la Decca, la Berliner Philarmoniker Orchestra.

C’è sicuramente una tradizione discografica di qualità anche nel jazz. Specie negli anni 60, case come la Blue Note o la Impulse, anche grazie alla valente opera di ingegneri del suono come Rudy Van Gelder, tracciarono una rotta particolarmente caratterizzata dalla matericità del suono e da una superba cura per l’ambienza. Ma mai, fino quasi ai giorni nostri, le produzioni jazzistiche hanno potuto competere con quelle classiche, soprattutto sinfoniche, per la dinamica e l’esattezza timbrica.

Rudy Van Gelder

Ciò ha avuto una ricaduta fondamentale nell’esperienza dell’ascolto nel jazz: la mancanza di un’escursione dinamica così ampia come quella dei dischi di classica, e perfino nel caso di orchestre di grosso organico, ha dirottato ulteriormente il gusto verso una caratterizzazione estemporanea, ambientale, del materiale musicale riprodotto.

Sandro Vero

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