Appunti per una fenomenologia dell’ascolto musicale

La musica si può consumare, si può studiare, si può fare, si può perfino patire (quando è intollerabile). Ascoltarla è una faccenda seria, che non dovrebbe ammettere vistose deroghe. Eppure, a dispetto di ciò, oggi più che mai si consuma un fenomeno paradossale: si perde un’occasione formidabile, offerta da una capacità tecnologica inedita di riproduzione musicale, e ci si abbandona ad un consumo superficiale e distratto dell’enorme disponibilità di materiale registrato.

L’ascolto della musica per millenni è stato un fatto unico, centrato esclusivamente nel momento e nel punto dello spazio in cui si produceva quel determinato evento musicale. Dalla fine del XIX secolo il processo si è sdoppiato: da una parte la musica ascoltata nell’istante in cui viene prodotta, dall’altra la musica ri-prodotta, libera dal vincolo spazio-temporale; il concerto e il disco, il concerto e il file.

Quando Beethoven era in vita, la sua musica era fruibile solo quando lui o altri la suonavano in presenza; oggi le registrazioni del 1962 delle sue sinfonie, tratte dall’immensa attività dell’orchestra Filarmonica di Berlino diretta da Herbert von Karajan, sono considerate universalmente fra gli “ascolti” migliori della musica riprodotta, nei diversi svariati formati in cui è disponibile: vinili in cofanetto o singoli, cd in box o singoli, sacd o bluray audio. Un sovvertimento radicale del rapporto con la musica, parte di un sovvertimento più generale del rapporto con l’arte, magnificamente concettualizzato da Walter Benjamin nella sua “epoca della riproducibilità tecnica”.

Se, fantasticando in levare, non fosse arrivata la fonografia, per l’unico confronto possibile delle sedute beethoveniane di Karajan del ’62 con quelle della metà del decennio successivo, sarebbe stato necessario aspettare più di 12 anni, con il limite non da poco di poter fare un raffronto solo sulla base della memoria a lungo termine, non particolarmente attendibile per costruire un qualunque discorso critico sull’evoluzione dello stile direttivo del maestro di Salisburgo.

Da decenni, nella comoda posizione assicurata dalla facilitazione tecnologica, chiunque può fare un confronto in tempo reale di ogni singola sinfonia, apprezzandone immediatamente i punti di diversificazione, le sfumature evolutive, le invarianti stilistiche, gli scarti timbrici, la diversa dinamica, ariosità, intensità.

Ascoltare la musica nella sua declinazione riprodotta è dunque, rispetto alla storia dell’umanità, una novità straordinaria.

Non si parla – come si potrebbe? – di una cosa sola, monolitica. Si parla di una galassia di cose ognuna delle quali non esaurisce il tutto: si ascolta in auto mentre si viaggia, si ascolta in cuffia mentre si corre o si passeggia, si ascolta davanti al monitor di un computer mentre si lavora (o si chatta…), si ascolta con orridi auricolari dal proprio smartphone e, finalmente, si ascolta seduti sulla poltrona o sul divano davanti al proprio impianto domestico. E poi, da qui, si ascolta la musica riprodotta da un coordinato di poche centinaia di euro o lo si fa davanti a un assemblaggio di svariate decine e in alcuni casi centinaia di migliaia di euro.

La musica è sempre la stessa? Marshall Mc Luhan direbbe che mai come in questo ambito il medium è il messaggio! La categoria umana molto speciale degli audiofili ha sviluppato una notevole disposizione a sentire gli apparecchi riproduttivi più che la musica riprodotta. Una disposizione che a sua volta ha creato, o anche solo favorito, un’altra disposizione: quella alla rincorsa al suono perfetto, che ovviamente non esiste ma che ha la stessa funzione che in matematica svolge il limite.

In realtà, sembra esserci un rapporto asintotico fra qualità del suono e upgrade del materiale elettronico utilizzato: ogni piccolo incremento percepibile (che non è detto sia poi percepito) della qualità è reso possibile da un grande incremento del costo di quell’upgrade.

L’esperienza, come realtà soggettiva, non è perfettamente quantificabile (come ogni onesto psicologo sperimentale sa bene), e tuttavia mettiamo per un attimo che possa diventarlo. È plausibile affermare che dopo un certo valore soglia, diciamo variabile fra 10.000 e 20.000 euro, per conquistare uno o due punti percentuali di upgrade qualitativo occorrerà spendere una volta tanto (dunque il 100% in più) in upgrade materiale. Come può testimoniare qualunque onesto venditore di prodotti high end.

Insomma, uno strano mondo in cui a fare la differenza finisce per essere, sfacciatamente, la cospicuità del conto in banca.

L’universo dell’ascolto musicale non si riduce, fortunatamente, solo alle eccentricità di certi audiofili. Si compone di tante realtà, apparentemente slegate, che tuttavia convergono intorno a un valore fondamentale: che c’è sempre modo di ascoltare meglio! Che si dà sempre una qualche possibilità di migliorare, accrescere, affinare l’esperienza soggettiva dell’ascolto. E ciò contrariamente a chi, in modo sbrigativo, sostiene che la musica è l’unica cosa che importi e che tutto il resto è superfluo.

Oggi nessuno si sognerebbe di negare l’abissale differenza che intercorre fra l’impressione destata dalla visione di un film in VHS e quella destata dalla visione dello stesso film in bluray, mentre c’è invece un certo numero di persone che si ostina a considerare indifferente sentire l’arpeggio di chitarra che introduce Norvegian Wood dei Beatles da un impianto dignitoso o da una radio-cd di 30 euro. Un fenomeno piuttosto bizzarro e paradossale, in fin dei conti, se si pensa al fatto che abbiamo avuto una ottantina di anni per apprezzare (e assimilare) il passaggio da una monofonia dozzinale (quella riprodotta da un grammofono) a una stereofonia sofisticatissima (per non parlare del multicanale), mentre ci sono voluti solo 8 anni per passare dal VHS al DVD al Bluray!

VHS vs DVD vs Blu ray vs 4K Blu ray

Un’apparente paradosso, che si spiega solo in un modo: non ha senso mettere un video in sottofondo, mentre fai qualcos’altro dal vedere quel video (a meno che non sia il video di un concerto); dunque se fai partire un video lo guardi, e se lo fai vuoi farlo al meglio! D’altronde se guardi il video non potrai fare nient’altro, quanto meno nella continuità.

Ascoltare continua ad essere un’attività libera da ogni sorta di impegno, di vincolo: puoi farlo mentre fai altro, anche più importante dell’ascolto, e dunque senza il vincolo di un ascolto al meglio.

Sarà per una ragione vicina a questo se fino all’avvento dei formati audio (per il video) ad alta risoluzione – il DTS HD MA, il Dolby Atmos, il DTS X, l’Auro 3D – in genere la parte audio dei concerti riprodotti nei DVD o nei primi Blu Ray, a parte le solite eccezioni, lasciava parecchio a desiderare. Si è a lungo ritenuto che la differenza fra un cd e un dvd, riproducenti la stessa musica tratta dallo stesso evento, consista in questo: il cd lo usi per scrivere al pc o per preparare un’ottima carbonara in relax, il dvd lo usi per guardare il concerto e semmai dovessi metterlo in sottofondo rispetto a un’attività in corso, ovviamente fruendo solo del suo audio, ancora una volta, perché affrontare il costo aggiuntivo di una buona masterizzazione audio? Il punto nodale sta tutto in quel “guardare”: la vista è un senso saturante e quando è coinvolta, senza adeguati contrappesi, relega gli altri sensi in secondo piano.

Il salto di qualità è avvenuto quando la disponibilità di tracce audio ad alta o altissima risoluzione (si pensi, per fare un esempio, al Dolby Atmos a 11 canali e con risoluzione 24 bit/96 Khz) ha convinto che si poteva invertire la gerarchia sensoriale anche durante l’ascolto di musica che faccia parte di un programma video!

Dolby Atmos

Per la verità, fino all’avvento del dvd, il rapporto qualitativo fra audio e video nelle vecchie VHS o nel più sofisticato Laser Disc, era spietatamente sbilanciato dalla parte dell’audio. Chi possedeva un VCR Stereo Hi-Fi o un lettore LD poteva fare questa scoperta: a fronte di un’immagine rudimentale (le linee di risoluzione del VHS erano 240 mentre quelle del Laser Disc, più dignitosamente, arrivavano a 440 per il PAL) l’audio era l’ottimo PCM del Red Book. Ma era ancora un rapporto dettato dalla disponibilità tecnologica. Con l’arrivo del dvd, la qualità dell’audio – sia dei programmi cinematografici sia, a maggior ragione, di quelli musicali – arretrò: il dolby digital, formato super compresso, si stabilizzò come l’audio (scadente) del video (notevolmente migliorato). In breve: quando il video è diventato quello che oggi è si è subito provveduto ad assegnargli un primato assoluto, consapevoli del fatto che la sua funzione dovesse essere quella di saturare l’esperienza del fruitore.

Tutta questa digressione serve a sottolineare un dato: si è creata come una sorta di netta separazione fra chi ascolta senza ascoltare (la maggior parte) e la minoranza di chi fa dell’ascolto un culto. E non bisogna lasciarsi confondere dall’enorme mercato della mobilità: chi ascolta musica correndo o scarpinando o in treno mentre legge appartiene alla prima categoria, quella di chi in sostanza non ascolta veramente ma usa la musica come ambiente soggettivo.

Una dicotomia cui si consegna un’adeguata strutturazione del mercato: dispositivi minimi per i distratti, sofisticati oggetti per i cultori.

Non è che in mezzo non ci sia nulla: in tanti ci provano a elevarsi dall’insipienza dei distratti alla consapevolezza dei cultori. Il fatto interessante è che quasi sempre si incappa in un fenomeno frustrante: per quanti sforzi si possano fare, la mancanza di una diffusa sensibilità percettiva e di un’adeguata formazione all’ascolto rendono vano il tentativo e si finisce per arrendersi alla superficiale comodità del consumo musicale. Perché sforzarsi se alla fine la differenza udibile fra un brano codificato in mp3 e lo stesso codificato in FLAC Hi Res è proprio roba di sfumature sottilissime? Ci vuole pazienza, devozione, curiosità, per apprezzare differenze, che in realtà sono più marcate e fondamentali di quanto non sembri e pazienza, devozione e curiosità non sembra siano virtù particolarmente coltivate nel mondo contemporaneo.

Free Lossless Audio Codec

Bisogna intendersi: non c’è niente di disdicevole nel fatto di usare la musica anche come ambiente. “Anche”, appunto, vuole dire che c’è contesto e contesto. E che decidere quando ascoltare bene e quando non farlo è una prerogativa di libertà e di autodeterminazione.

La recente offerta di DAP (Digital Audio Player) di elevata qualità costruttiva e di grandi capacità di performance, al punto di rendere queste macchine pensate per la mobilità capaci di svolgere una funzione audiofila nell’impianto domestico, riporta quel momento della scelta fra una modalità e l’altra dell’ascolto all’interno dello stesso contesto: perché rinunciare a priori alla possibilità di ascoltare in qualità, quando – per esempio – si smette di leggere mentre si è in treno o si è sdraiati sul lettino in spiaggia? La libertà di fare arretrare la musica sullo sfondo o riportarla in primo piano presuppone la libertà di potere, in qualunque momento, accedere a un livello di esperienza percettiva della musica che, fino alla stagione del dominio dell’Ipod, era precluso.

Sony‘s Walkman A810 and Apple‘s iPod Nano 

Naturalmente, rimane un problema non da poco: porsi la questione di come garantirsi le condizioni per un ascolto di qualità può comportare uno scivolamento in una condizione di sudditanza del soggetto rispetto ai dispositivi utilizzati, una cosa quest’ultima che spaventa i giovani e che li tiene lontani da una corretta modalità di rapporto con la musica che ascoltano.

Un concetto chiave nell’intero dominio della fenomenologia dell’ascolto è il seguente: i salti tecnologici tendono a produrre non soltanto facilitazioni prima impensate. Producono anche cambi di direzione della sensibilità. Vale a dire dell’esperienza che si fa durante l’ascolto.

Facciamo un esempio. Prendiamo le sinfonie di Tchaikowsky nella versione di Karajan. Nella stessa confezione, un piccolo box cartonato della Deutsch Grammophon, si trovano 4 cd con le 6 sinfonie e un bluray pure-audio nel quale, grazie all’enorme capienza del supporto, trovano posto tutte e 6 le sinfonie. In un solo disco.

Se si decide di ascoltare i cd, uno per volta o uno e basta, la scelta ritaglierà una parte del corpus musicale, e invoglierà a concentrarsi su un ascolto orientato, attento a quella o a quell’altra sinfonia. La disponibilità del bluray rischierà di favorire un ascolto di sottofondo, a meno che non si deciderà di accendere il videoproiettore o il TV per navigare nel menù del disco e così scegliere, come per il cd, quale sinfonia ascoltare.

Di queste asincronie un poco paradossali è pieno il mondo dell’ascolto musicale: c’è un supporto, il cd, che offre una qualità inferiore e tuttavia porta più facilmente a un tipo di ascolto più attento (restando beninteso possibile usarlo per un utilizzo distratto); c’è un altro supporto, il bluray, che offre una qualità superiore ma favorisce (anche se ovviamente non obbliga a) un utilizzo più distratto.

Dovrebbe essere chiaro, a questo punto, cosa si intenda per rapporto fra salti tecnologici e cambiamenti dell’esperienza.

Si potrebbe sintetizzare il concetto fin qui espresso nella seguente maniera: l’accresciuta disponibilità di materiale musicale comporta il rischio di favorire un rapporto superficiale, non centrato, con il materiale stesso. La penuria, se diciamo così per contrasto, favorisce un ascolto più attento, dedicato.

Sandro Vero

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