Quando arrivò il CD, formato inizialmente rivelatosi più adatto all’utilizzo informatico che a quello audiofilo, la cosa fu salutata come una rivoluzione. Il dischetto argentato sembrava risolvere in un colpo solo una serie di problemi che il vinile implicava: la sua deteriorabilità, dovuta alla sporcizia e al carattere fisico che il contatto fra sistema di lettura e disco imponeva; il range limitato di frequenza, tagliata a 18 Khz; l’ingombro che quantità elevate di album comportavano; il rumore di fondo, che specie nei sistemi economici penalizzava l’ascolto; la limitata dinamica.
C’era poi un elemento dirompente, che diremo degli “occhiali acutizzanti”. Se inforcate delle lenti che spingono la vostra capacità di visione, specie la messa a fuoco, fino a 12/10, e dunque oltre ciò che vi serve per vedere bene, avrete una prospettiva del mondo che potremmo definire iperrealistica, con contorni nettissimi, senso accentuato della tridimensionalità, cromia accentuata, e così via. Bellissimo, direte, ed eccitante. Certo, per un po’ sarà un’esperienza forte. Ma presto vi stancherete e vorrete tornare ai vostri 10/10.
Il CD dei primordi diede a tutti l’illusione che l’estrema pulizia del suo suono, la dinamica esasperata, il dettaglio tagliente, avessero introdotto nel mondo una sorta di democrazia della fruizione musicale, alzando di molto la qualità percepita a parità di costi del sistema di lettura rispetto all’analogico. Cosa che può essere vera, da un certo punto di vista, almeno se il confronto resta confinato a una fascia di prezzo estremamente bassa.
Tuttavia, anche (e soprattutto) a quei livelli infimi, la caratteristica del suono digitale dei primordi si precisò chiaramente in questi termini: il suono era freddo, niente affatto musicale, aspro, metallico. L’esperienza era quasi sempre quella di un ascolto stancante, saturante.
C’era qualcosa che non andava. Nei sistemi di codifica PCM? Nei convertitori D/A? Per parecchio tempo, sembrò che il nemico giurato del digitale fosse l’intervento, nel processo di conversione, di quel fenomeno particolare che i tecnici chiamano jitter, ovvero la variazione casuale dei parametri del flusso di campionamento.
Si è dovuto attendere almeno una decina d’anni dalla commercializzazione del primo lettore CD, il glorioso Sony CDP-101, per cominciare ad avere ragione di quei primi, decisivi difetti. I quali, occorre precisarlo, erano tali non solo su un piano squisitamente tecnico, ma proprio – e soprattutto – su quello soggettivo dell’ascolto.
Quando la produzione discografica si fece abbastanza consistente, esplose una corsa pazza alla sostituzione integrale dei vinili posseduti con i corrispettivi cd. La masterizzazione dei titoli di catalogo era quasi sempre penosa, il suono sembrava uscire da una scatola di scarpe (e questo, qualunque fosse il sistema usato, anche piuttosto costoso). Rari erano gli esempi di stampe eccellenti che evidenziassero le qualità precipue del digitale. Uno fra tutti, si ricorderà qui il fantastico Brothers in Arms dei Dire Straits, che suonava – paradossalmente – più caldo del vinile. Ma erano, appunto, eccezioni rispetto a una regola: quasi tutto era di pessimo livello tecnico.
La corsa al rimpiazzo ci fu, comunque. Ed è significativo che una quindicina di anni dopo, gli stessi collezionisti, grandi e piccoli, auspicarono sommessamente un recupero a ritroso dei vinili stoltamente eliminati, ciò che fornì la base soggettiva per una maliarda operazione di marketing da parte di una industria discografica ormai alla canna del gas: il rilancio del microsolco, spesso con stampe ancora peggiori dei primi cd, chiamato in realtà a compensare (molto parzialmente) la scomparsa del mercato come conseguenza del download selvaggio.
Un dato significativo, anche se poco appariscente, è quello della grafica dei titoli nelle sparagnine cover dei cd dei primi anni. Chiunque può andare a controllare: la sequenza dei brani era enumerata dalle cifre racchiuse dentro dei quadratini. In perfetto stile informatico, il costume era suggerito da quello che si riteneva potesse sottolineare quanto più possibile la natura digitale del contenuto.
Perché di questo si trattava: il cambio di passo era da un rapporto pesantemente fisico, quello col vinile, ad un rapporto – sia pure ancorato a un supporto materiale – molto alleggerito nella sua “fisicità”. Ciò proponeva un circuito valoriale piuttosto complesso ma riconducibile al motivo della “possibilità”: non c’era limite a ciò che potendosi digitalizzare di fatto poteva al contempo promettere una sorta di progressione qualitativa infinita. Come a dire: una tecnologia che forza così brillantemente la fisicità delle cose e la riproduce mediante sequenze incorporee di bit (in realtà ciò non è vero, dal momento che i pit del disco sono un fatto fisico, proprio per essere “letti” da un laser), può in linea di principio (ma, appunto, anche di fatto) duplicare qualunque cosa, e farlo con un’accuratezza prossima alla realtà. Gli anni successivi hanno dimostrato che tale intuizione era in parte corretta: da lì a poco la digitalizzazione avrebbe coinvolto le immagini ferme (photo-cd), quelle in movimento (dvd e poi bluray), la trasmissione di musica attraverso l’etere o la rete (DAB e streaming), e così via.
Che ricadute avesse tutto ciò nella pura esperienza dell’ascolto musicale è una questione che va oltre gli elementi fin qui indicati. In realtà, dalla considerazione dell’immaterialità del supporto (che pure materiale era, nonostante tutto) scaturiva un valore che si poneva al confine fra l’estetica e la fisica: quello della purezza.
La purezza della traccia, l’astrattezza della parola informatica (espressa in un codice inusuale, quello binario), il ridursi del necessario contatto allo sfioramento del pit da parte di un raggio ottico (ben altro rispetto alla “pesantezza” di un qualsiasi stilo di una qualsiasi testina di un qualsiasi braccio), chissà bene perché producevano la certezza di una purezza del suono, una sua definitiva alterità rispetto al rumore (il fruscio e i click del vinile), una inaspettata parentela col silenzio. Non sembra casuale che l’etichetta discografica che ha meglio capitalizzato le novità del digitale, fino a sviluppare una vera e propria estetica dell’ascolto, sia la bavarese ECM di Manfred Eicher, che del silenzio ha fatto la sua chiave di volta.
È evidente come quello della “purezza” del suono sia un concetto problematico. Che cosa significa “purezza”? Vuole dire “vicinanza” estrema a un dato di realtà? E quale sarebbe quest’ultimo? Il suono come sarebbe se prodotto dal vivo? O si tratta dell’annosa questione della trasparenza, ovvero della “neutralità”? Non è certo che le caratteristiche di un suono musicale quale quello prodotto durante un concerto siano le migliori possibili per l’ascolto, anzi di solito non lo sono.
La purezza di una riproduzione digitale sembra avere più a che fare con ciò che sembra mancare, piuttosto che con ciò che dovrebbe esserci: il rumore, innanzitutto; poi la mancanza di quelle forzature dinamiche introdotte nel vinile dal R.I.I.A., la curva di equalizzazione mediante la quale si ottimizza l’utilizzo dello spazio nei solchi e di conseguenza la durata del disco. Ma nemmeno questo sembra dar conto in modo conclusivo della cosa.
Probabilmente, l’effetto è dovuto ad una sorta di trasposizione concettuale: una tecnologia “pura” non può che produrre un suono “puro”!
Cosa diavolo poi voglia dire “tecnologia pura” non si capiva allora, non si capisce oggi. Sembra tuttavia certo che i primi e più entusiasti adepti del supporto si siano fatti eccitare dall’idea di stare mettendo le mani su qualcosa che aveva il potere (magico?) di proporre, riprodurre, ribadire l’essenza del suono, oltre le sue fattezze fisiche, una vera e propria realtà per astrazione.
Il mercato delle macchine dedicate alla lettura del cd cominciò a crescere abbastanza presto. I primi anni novanta videro una rigogliosa offerta di marchi – molti dei quali blasonati – e di modelli, sia di lettori integrati sia di unità di trasporto e di conversione separate. Le cose cominciarono a prendere una piega promettente per l’hi-fi e per l’hi-end, popolandosi presto la scena di elettroniche capaci di garantire una qualità di ascolto inimmaginabile fino a poco tempo prima: calore timbrico, soundstage corposo, tridimensionalità, dettaglio, dinamica. Il CD sembrò vincere definitivamente la sua battaglia contro il vinile, e sembrò farlo da formato adulto, pienamente sviluppato, completo, grazie anche a masterizzazioni più serie, rispettose dei criteri di un’audiofilia non schizzinosa ma ferma, consapevole.
Il CD completò la sua trasformazione non appena fu possibile trasferire su un supporto fisico una quantità molto maggiore di dati: il Super Audio CD, che Sony e Philips pensarono come il naturale sostituto del CD, comparve nel 1999 e promise subito – a fronte della maggiore durata e capienza di dati – un upgrade notevole delle possibilità di riproduzione, oltre che stereo anche multicanale. Il mercato non ha premiato la proposta, relegando il nuovo formato in una nicchia per audiofili esigenti. L’arrivo della musica “liquida”, specie nel formato DSD identico a quello utilizzato nella codifica del SACD ma con un campionamento più alto, ha definitivamente consegnato l’ascolto di ogni formato fisico a una fascia di ascoltatori molto più interessata al fattore “possesso” materiale dei contenuti musicali. La differenza rispetto ai files in alta risoluzione, con frequenze che si spingono molto in alto e una quantizzazione di 24 bit rispetto ai 16 del cd, fa pendere la qualità assoluta molto più dalla parte della liquida, cui però manca l’appeal della materialità di copertine, booklet inclusi, maneggiabilità del supporto, e così via.
Non si può certo dire che un fattore decisivo nella progressiva “scomparsa” del disco argentato sia stata la crescente “portatilità” della musica liquida, contenibile in quantità ragguardevoli in uno smartphone o in un DAP, portatilità che ha surclassato per comodità e maneggevolezza i cd player portabili dei primi anni ’90. In realtà quella dei lettori cd da viaggio, che peraltro rimanevano piuttosto ingombranti, fu poco più che un capriccio del mercato, stretto fra i più piccoli e tascabili walkman a cassette e il fatto che rimanesse comunque necessario portarsi dietro una custodia con un certo numero di cd fra cui scegliere.
La pista era segnata già dai primi anni del nuovo millennio: i primi costosi players mp3, i primi Ipod, proponevano un approccio alla musica in motilità troppo più libero perché rimanesse qualche dubbio. Il destino del CD era segnato, soprattutto dallo strapotere della rete, in cui già proliferavano siti capaci di offrire download gratuiti, di pessima qualità ma facili, raggiungibili, e – appunto – gratuiti.
L’esito paradossale fu questo: il Cd ha cominciato a morire già a partire da un momento in cui era finalmente divenuto un formato di buona qualità, e in alcuni casi di ottima qualità.
Probabilmente questo formato ha pagato un peccato originale, di cui non è stato mai capace di emendarsi, il suo carattere ibrido, sospeso fra la fisicità del disco e l’immaterialità del digitale. La prima capace di dargli una temporanea vittoria nei confronti del disco nero grazie alle promesse della seconda, la seconda a consegnarli una sconfitta senza appello nei confronti della liquida a causa della prima. Un paradosso.
Brothers in Arms suonava “caldo” e ciò sembrò un paradosso, in un tempo in cui ancora la norma era che il CD gracchiasse rispetto al vinile, freddezza contro calore, analiticità priva di musicalità contro morbidezza e naturalezza. Ma il paradosso era solo apparente, quel disco dimostrando una verità inoppugnabile, che qualunque ingegnere del suono sottoscriverebbe totalmente: la registrazione e la successiva masterizzazione sono fondamentali, forse addirittura la prima più della seconda! E quell’album dei Dire Straits fu registrato e masterizzato a regola d’arte.
Brothers in Arms è il quinto album del gruppo rock britannico Dire Straits, pubblicato nel 1985.
Quando registrazione e masterizzazione sono a quei livelli, la differenza fra un Cd e un Sacd che riproducono lo stesso materiale si assottiglia fin quasi a scomparire. Quasi: perché la differenza rimane, a dimostrazione del fatto che la differenza percepita non è altrettanto ampia della differenza oggettiva. Quest’ultima è rilevata e adeguatamente riprodotta, e diviene dunque percepibile, quando l’intera catena di elettroniche è di livello almeno medio-alto.
Sandro Vero
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