Per capire cosa sia il fenomeno della cosiddetta “rinascita” del vinile dobbiamo fare un giro largo. Abbiamo bisogno di capire cosa sia un mito, specie nella contemporaneità. Per far questo, ci avvarremo della teoria di un semiologo di fama quale è stato Roland Barthes, che sull’argomento ha scritto pagine fra le più geniali.
Un sistema di segni, che potremo definire come un codice o come un linguaggio, è sempre analizzabile in due piani distinti ma correlati, quello dei contenuti e quello dell’espressione. Il primo, che è studiato dalla semantica, è l’ambito dei significati (concetti, esperienze, valori più o meno organizzati in modo sistematico); il secondo, studiato dalla sintassi, è l’ambito delle forme, degli involucri espressivi mediante cui si individuano (dopo una corretta codifica e la relativa decodifica) i contenuti significati.
Qualunque parte di un complesso culturale, qualunque partizione di una cultura può essere interpretata come un sistema semiotico, basta che sia analizzabile in una parte espressiva o formale e in una contenutistica.
Il vinile è stato, oggettivamente, una ricca struttura culturale, un vero e proprio “codice”, con i suoi elementi materiali (tecnici, costruttivi, estetici) e i suoi valori di senso (aspettative, esperienze, socialità, condivisione). Ha giocato un ruolo nell’immaginario cinematografico di diversi decenni del ‘900. Ha “compostato” l’esperienza dell’ascolto musicale rendendola narrabile attraverso il riferimento stesso alle sue caratteristiche materiali e tecnologiche: la ritualità di gesti, i suoi automatismi, le attese, le sottili tensioni, i placidi godimenti – indotti dalla struttura fisica delle sue parti (il braccio guida la mano, la posa sui solchi, l’avvio della musica è sacralmente sancito da un dispendio energetico, da un contatto materico fra corpo e giradischi) – sono valori che per anni hanno favorito processi di socializzazione gruppale, l’ascolto condiviso, pratiche collezionistiche in cui tutti i sensi erano coinvolti, dal tatto alla vista all’olfatto, per il tramite ovvio dell’udito.
Insomma un vero e proprio sotto-sistema segnico, un para-linguaggio della fruizione musicale.
Bene, cosa fa la mitopoiesi caratteristica del mondo contemporaneo, sottomesso alla logica del mercato? Prende una cosa, che nel suo tempo ha avuto una precisa configurazione strutturale e semiotica, la ricicla caricandola di contenuti, cioè di significati aggiunti, spuri rispetto a quelli originari. E poi quella cosa la vende.
E così quel bel discone nero – a volte blu, altre volte rosso – diventa un prodotto mitico, vendibile, come direbbe Marx, al di là del suo valore d’uso, valorizzabile anche solo in rapporto a questo schiamazzo semiotico che lo ricarica, sia come prodotto di consumo sia come “evento” culturale.
Il vinile diventa un oggetto della nostalgia, non di quella di chi ha già provato le cose che da esso emanavano bensì di quella possibile in consumatori che non erano nati quando il vinile raggiungeva il suo zenit. Una nostalgia che è quella del bimbo che si strugge all’idea che non c’era quando i suoi l’hanno concepito.
Il vinile diventa vintage, valore equivoco che se ne infischia della qualità, basta che sia garantita una sorta di condizione estetica ed esistenziale di “passato”. Non è un caso che l’operazione passa anche attraverso la vendita di apparecchi di poche decine di euro negli ipermercati, inadatti a qualunque resa acustica dignitosa.
Il vinile diventa l’icona di un recupero, farlocco, dell’esperienza di condivisione fatta dai padri, ma interamente nella condizione, tutta al presente, di isolamento. Anche qui, non è un caso che spesso, troppo spesso, le copie di vinili acquistati in edicola restino a giacere inerti e impacchettate nello scaffale, essendo possedute da soggetti sprovvisti di qualunque tipo di giradischi.
Non sembra particolarmente significativo il fatto che l’analogico su supporto vinilico (c’è anche quello su nastro, dalla cassetta alla austera bobina) riveli nuances sorprendenti nell’ascolto di materiale registrato a regola d’arte. La musicalità, la naturalezza timbrica, quella sorta di complicity fra supporto ed ascoltatore, ricevono una vera esaltazione quando la fonte – nel lungo processo di masterizzazione – è oggetto di una cura assoluta.
Il punto critico è tuttavia il fatto che si evidenzi solo il carattere “caldo” del suo suono, quando più di qualcuno ha precisato che quel carattere deriva, più che altro e paradossalmente, dai limiti stessi del supporto. Ora, ci può stare che quel limite sembri una qualità, e che lo sembri in forza del suono come risultato di un processo di codifica che appare come più naturale, ma ciò solo a patto di evitare il confronto serio, calibrato, con l’ascolto di un corrispettivo musicale in altri formati al meglio delle loro possibilità.
Basterebbe un confronto diretto fra una registrazione ascoltata mediante una ottima stampa vinilica e la stessa mediante un SACD di qualità (o un Bluray Pure Audio), meglio ancora fra quella mediante microsolco e quella mediante file liquido DSD, il quale ultimo può spingersi fino a frequenze di campionamento elevatissime, 256 o 512 (256 o 512 volte la frequenza di campionamento del Cd, che è 44.100Khz, mentre per il SACD il DSD si ferma a 64).
Nell’Hi res il calore si precisa, tutto a un tratto, come dato complessivo non più in contrasto con dinamica e dettaglio, come invece spesso accade nel vinile. Un calore che non nasconde, che esalta invece il dettaglio. Che non viene da un difetto.
Ma il fascino del disco nero viene da un valore, nascosto sotto traccia, che il marketing ha sfruttato velocemente: il suo essere associabile a una qualità perduta del rapporto col tempo. Non il tempo come fase storica del suo pieno successo (gli anni ’70), bensì come durata bergsoniana, come esperienza soggettiva: anche qui l’esempio della casa bavarese ECM è illuminante. Si è già detto della sua estetica del silenzio, rimarcata da uno stratagemma curioso quanto semplice, quello di far cominciare la prima traccia del disco con 5 secondi di vuoto, di pura assenza di suono. In realtà, lo stratagemma propone anche altri elementi fondamentali: l’abbandono della fretta, della velocità nella fruizione della musica, la disposizione a un ascolto dettato dalla successione dei brani come voluta dal produttore, l’improbabilità di un intervento fisico dell’ascoltatore durante il tempo imposto dall’LP. In una parola: il vinile impone il ritorno a un tempo lento, vietando – per la sua materialità – ogni tipo di sovrapposizione del soggetto alla struttura dell’opera.
Il ritorno del vinile, fenomeno più consistente nella cronaca del costume che nei reports discografici, arriva quando la crisi del supporto materiale – di qualunque tipo – è già esplosa, quando cioè da tempo la rete ha reso disponibile il download, a lungo – peraltro – privo di qualunque regolamentazione e dunque gratuito. Ciò vuol dire, intanto, che i numeri che il vinile riesce a recuperare rispetto ai suoi anni più bui, sono e restano numeri esigui.
Non è lì che il LP si prende la sua rivincita. È semmai nello scardinamento di un processo, ritenuto inizialmente come inesorabile, di sostituzione totale del fisico da parte del digitale. Questo non sarebbe mai potuto avvenire con un ripescaggio del CD, troppo poco dotato dello charme necessario per un’operazione di tale natura. Poteva, invece, con un supporto la cui “materialità” si moltiplica in una sorta di festa sensoriale in cui l’olfatto e il tatto e la vista, grazie alla consistenza delle cover e dello stesso disco, producono un potenziamento sinergico del già tanto accogliente suono analogico.
Oggi le cose stanno più o meno così: in una recensione esaustiva di un album, che contenga i riferimenti a supporti fisici (LP, CD, SACD, Blu Ray) e liquidi (FLAC e DSD, ad alta frequenza di campionamento), la parte che si prende la versione vinilica è quella giustificata dal solito motivo della “naturalezza” timbrica e dal carattere lussureggiante delle sue edizioni. Per la dinamica, il dettaglio, il (vero) calore, la giustezza del palcoscenico, bisogna andare altrove.
La naturalezza timbrica fa presa soprattutto fra i cultori, gli audiofili, i felici possessori di macchine analogiche di pregio. Le lussuose edizioni la vincono fra i collezionisti e i feticisti. La grandissima parte degli acquirenti di vinili in edicola è centrata sul carattere (mitico) dell’ingiunzione “solo con un LP ascolti veramente la musica!”. Come se la serietà dell’impegno possa scaturire dal supporto e non da una messa a punto dei meccanismi culturali coinvolti.
Sandro Vero
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