Chi ama la liquida sa bene che con la sua esperienza bisogna rinunciare a una serie di cose che hanno fatto parte dell’ascolto musicale fino al digitale fisico: il possesso materiale di un supporto, la matericità degli oggetti collezionati, la visibilità degli stessi nello spazio sacro della loro custodia.

Ciò di cui chi ama la liquida non necessariamente è consapevole è che il rapporto che si intrattiene con il materiale musicale stipato dentro il proprio NAS o dentro il proprio music server, o con quello che è stipato nei server delle piattaforme online che erogano servizi di streaming, è un rapporto che si è reso piuttosto delicato, forse addirittura problematico: come altro caratterizzare il passaggio da una dimensione in cui l’ascoltatore maneggia, usa, gode poche cose alla volta (i pochi vinili o i pochi cd recentemente acquistati, i pochi vinili o i pochi cd prelevati dalla propria libreria per essere ascoltati) a una dimensione in cui, in qualunque momento, si è potenzialmente in grado di scegliere da una quantità infinita (oggettivamente finita ma soggettivamente infinita) di album, di brani, di artisti. Ciò che possiamo fare diviene talmente pesante da condizionare ciò che facciamo, rendendolo paradossalmente più a rischio di precarietà. L’estensione smisurata dell’ambito in cui si realizza la nostra libertà ci rende incerti, bulimici, instabili: il poter scegliere fra una varietà infinita di opzioni si insinua nelle nostre scelte finali nella forma di una costante, pericolosa, tentazione di saltare compulsivamente da una cosa all’altra, senza sosta, senza tregua.

Se però, alla fine, si riesce a conquistare un buon dominio su tutto questo e si impara a governare questo processo pulsionale, la liquida è lì a regalarci meraviglie. Vere meraviglie.

Per fare le cose per bene bisogna partire da ciò che serve per fare le cose per bene. E dunque, cosa serve?

Serve un oggetto per pescare i files, dalla rete locale o da internet. Poi serve un oggetto che trasformi quei files in flusso musicale. E infine servono, ovviamente, gli oggetti che ci permetteranno di ascoltare quel flusso.

Il primo oggetto si chiama streamer, dovrà essere veloce e dotato del software giusto (1) per trattare files di alta risoluzione e di diversi formati, soprattutto i FLAC, che rappresentano la quasi totalità del materiale offerto dalle piattaforme (Qobuz, Tidal, HighResAudio, ecc.) che fanno servizio di streaming e (2) per gestire da remoto le operazioni di streaming. L’altro formato, ancora più performante, il DSD, non viene proposto – per motivi derivanti dal suo enorme ingombro – nello streaming vero e proprio, viene invece offerto per il download da siti specializzati (NativeDSD, HDTT, HdTracks, HighResAudio, CBH-MUSIC ecc.). Una volta scaricato, il file DSD sarà conservato in qualche memoria locale, dove sarà raggiunto dallo streamer, che dunque dovrà saper maneggiare anche questo tipo di formato. Lo streamer dovrà essere collegato alla rete domestica e da questa a internet.

Il secondo oggetto si chiama DAC, Digital Analog Converter, e ha la funzione – appunto – di convertire il materiale digitale in materiale analogico. Vale a dire in un flusso musicale gestibile da ampli e diffusori, gli oggetti che, alla fine del percorso, ci fanno sentire la musica.

Poiché siamo in un’era di sincretismi e di combinazioni, il primo e il secondo oggetto spesso sono un’unica cosa – lo streamer/DAC – che può quindi essere dotato di ingressi ausiliari cui fare arrivare i flussi digitali provenienti da altre sorgenti (un lettore cd, ad esempio).

Inutile dire che se la soluzione combinatoria è più comoda e, anche se non sempre, più economica, è certo preferibile lasciare che a fare streaming sia una macchina dedicata a questo, che dunque ha solo una funzione di trasporto, e che a convertire sia un DAC esterno. Più o meno come succedeva nel confronto fra lettori cd integrati e coppie di meccanica di trasporto e convertitore separato.

Qualcuno si chiederà, sin da ora: ma uno streamer puro, solo trasporto, “suona”? Vale a dire: incide sulla qualità finale della resa sonora? Se una tale domanda l’aveste rivolta, qualche tempo fa, a un audiofilo a proposito dell’importanza della meccanica di trasporto del cd nella qualità complessiva della catena, avreste rischiato serie ingiurie: non c’erano dubbi allora, non ci sono dubbi ora! C’è trasporto e trasporto. Così come c’è Dac e Dac!

Certo, è possibile – se si preferisce – ricorrere a uno streaming fornito da una qualunque macchina informatica: un pc, un tablet, uno smartphone. Collegare questa a un Dac esterno mediante un cavo USB, dotandola del software giusto per la gestione dei dati digitali. Il problema rimane sempre lo stesso: si tratta di dispositivi che NON fanno solo streaming, ma – contemporaneamente – decine di altre cose (tranne nei casi > t.ly/G_WIj N.d.R.). Dunque avremo a che fare con cose la cui integrità funzionale non le rende certo il meglio per un uso audiofilo. Andrà molto meglio se useremo, al posto di un oggetto informatico, un DAP, un Digital Audio Player, il Walkman del terzo millennio, attrezzato con una memoria interna e capace di connettersi in wi fi a una rete, e di certo molto meglio suonante di un qualunque pc o tablet. Tutte queste sono opzioni molto più frequentate in mobilità, outdoor, dove le piccole misure di uno smartphone o di un DAP sono preferibili.

Sandro Vero

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