Nel 1968, nel cuore di quel periodo musicale a dir poco irripetibile per creatività e fantasia, i Cream registrarono un disco destinato a restare nella storia, frutto di un lavoro effettuato in parte in studio e in parte live. Ripercorriamo la sua storia, analizzando brano per brano e comparando alcuni formati per stabilire il miglior risultato audiofilo
La musica
Il 1968 è stato dentro al lustro magico della musica, quello che va dal 1967 al 1971. Un quinquennio che fa pensare ancora a molti una verità che sembra incontrovertibile: ciò che si produsse in quegli anni, nell’ambito della musica popolare, non aveva avuto prima e non avrebbe avuto dopo uguali in termini di creatività, di varietà di linguaggi, di coraggio sperimentale.
Wheels of Fire fu registrato dai Cream nel 1968, metà in studio e metà live. A tutt’oggi rappresenta la perfetta realizzazione di un balance fra musica in studio e musica dal vivo, fra scrittura e improvvisazione, fra suoni psichedelici e suoni cameristici. In realtà, l’album si potrebbe definire, almeno per la prima metà, un esempio di rock cameristico, ma anche una sorta di world music ante litteram, oltre che un potente condensato di ciò che significò, a cavallo della metà degli anni Sessanta, vale a dire il blues bianco britannico. Potremmo continuare ad elencare le qualità precipue di questa perla discografica, ma varrà forse la pena di conoscere meglio i suoi singoli brani per rilevare la forza dirompente che scaturì da quelle sessioni.
La scaletta è dominata dalla scrittura di Jack Bruce, che si avvaleva per i testi della collaborazione di un poeta come Pete Brown; qualche brano è firmato da Baker, in tandem con Mick Taylor (anch’egli uscito dalla corte dei Bluesbreakers di Mayall); altri appartengono alla tradizione del blues americano; nessuno a firma di Clapton. Quest’ultimo, che potrebbe sembrare dunque sacrificato nella pianificazione e nella realizzazione dell’album, in realtà contribuì alla qualità eccelsa del progetto con un’intensità, un rigore, una duttilità strumentale difficilmente riscontrabili nel resto della sua produzione, troppo spesso appiattita su un melenso registro pop.
La sessione in studio si apre con l’esotica, misteriosa, imperiosa White Room, con un Clapton ancora molto lontano dal calligrafismo di maniera degli ultimi anni. Si prosegue con il blues “sbiancato” di Sitting on Top of the World, con la chitarra sdoppiata e sovraincisa un poco arretrata rispetto allo stage sonoro. Passing the Time, di Baker, è un temino infantile punteggiato dal glockenspiel dell’autore e dalla viola del producer Pappalardi, che si apre repentinamente in un tempo duro e con un muro di suono, per poi ritornare alla nenia iniziale. L’acustica As You Said, di Bruce, si avvale dell’impasto timbrico di chitarra e viola. Pressed Rat and Warthog, cantata da Baker, sembra una melodia medievale punteggiata da una tromba, che si staglia sullo sfondo e che prepara l’entrata in scena di Clapton che nel finale travolge. Politician è un altro blues stracolmo di feeling, che mette in luce Bruce in una delle sue performance più sentite, Baker che affonda col suo drumming apparentemente greve e Clapton che giganteggia in un dialogo con sé stesso da pelle d’oca. Those Were The Days è l’esempio più lampante di come gli stilemi del rock fossero applicati, nella musica dei Cream, a una scrittura possente, epica. Born Under a Bad Sign, di Booker T. Jones, è un rock blues che scortica la pelle bianca e rivela l’anima nera della loro musica: il brano si regge quasi interamente sul lavoro maiuscolo di Clapton. Deserted Cities of the Heart è altro tema tipico di Bruce, completamente acustico, con un Baker perfetto nella scansione del tempo e, in un finale sfumato, con un altro capolavoro di Clapton, acido, mobilissimo, sorretto dalla solita viola di Pappalardi.
Il live parte con un blues-rock al fulmicotone, Crossroads, in cui Clapton raggiunge il suo vertice creativo: il secondo assolo è consegnato alla storia, bruciante, debordante eppure geometrico, una condensazione della storia del blues; si va avanti col blues Spoonful, di Dixon, ipnotico e trascinante; Train Time, ancora di Bruce, è un perfetto esercizio di perizia strumentale del bassista all’armonica; si chiude con Toad, di Baker, che dà sfoggio alla sua capacità “narrativa”, in una lunga storia nel linguaggio del drumming.
L’ascolto
Solo supporti fisici per questo ascolto comparato: il file dello streaming di Qobuz, pur nella risoluzione massima consentitadi 24/192,non aggiunge nulla alla qualità di quanto offrono i formati materiali, siano essi digitali che analogici. Il confronto, fra i due sistemi digitali prima e fra quelli analogici dopo, ha evidenziato più che una gerarchia qualitativa – sempre piuttosto soggettiva – le peculiarità di ognuno di essi in termini di restituzione timbrica, bilanciamento tonale, dinamica, dettaglio.
Shm-CD vs Shm-SACD
Entrambi i supporti provengono dal mercato giapponese, dove l’implementazione di una tecnologia costruttiva superiore – il Super High Material – entro le coordinate del CD e del SACD, ha mostrato un discreto successo presso gli audiofili. Il primo, il Shm-CD, è un formato perfettamente compatibile con i soliti lettori CD; il secondo, il SHM-SACD, richiede l’utilizzo di un lettore SACD. Abbiamo usato, nel primo caso, il player multiformato Pioneer UDP-LX500, che legge anche i SACD multicanale; nel secondo caso il player Yamaha CD-S1000. Il Shm-CD è timbricamente più colorato, ma restituisce profili strumentali perfettamente ritagliati, oltre a un’ottima dinamica. La versione migliorata del SACD offre una maggiore dinamica e una neutralità timbrica che esalta il micro-dettaglio.
Vinile vs Reel to Reel
L’ottimo riversamento vinilico, a marchio Polydor, regala un suono robusto e pieno di spessore ma è con il nastro – una duplicazione da master copy realizzata per il Revox A77 a 4 piste e 19 cms – che si raggiunge la solita disarmante presenza fisica, la perfetta collocazione degli strumenti nello stage, che risulta anche più ampio, con un maggiore respiro. Il vinile appare come lievemente velato rispetto alla bobina, un effetto dovuto probabilmente al processo di trasferimento dal master magnetico alla pasta. Il nastro – pur non offrendo la purezza di una duplicazione ai massimi livelli, quella a due tracce e a 38 cms – è di una trasparenza esemplare. Si tratta tuttavia, lo ribadiamo, di una realizzazione vinilica al di sopra di ogni critica, peraltro riprodotta da una catena di pregio: giradischi Linn Axis, braccio Linn Akito, testina MC Denon 103r. L’amplificazione è stata affidata a un pre Klimo Merlino e due finali mono Klimo Tine. La diffusione a una coppia di Blumenhofer Big Fun 17.
- WHEELS OF FIRE
- Cream
- Polydor 1968
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